lunedì 30 aprile 2018

Portella della Ginestra, ‘giustizia quanno arrivi…’

‘Noi vogliamo che i nostri figli imparino a leggere e scriv… ‘, poi gli spari e le grida di terrore dei lavoratori e dei loro famigliari che stavano festeggiando il Primo maggio a Portella della Ginestra

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)


Video da youtube.it

Centinaia di lavoratori provenienti da Piana degli Albanese, da San Cipirello, da San Giuseppe Jato e dalle campagne vicine si ritrovarono quel mattino del 1947 a Portella della Ginestra per festeggiare il Primo maggio. Interrotta durante il fascismo, i sindacati decisero che era giunto il momento di riprendere la tradizione di recarsi in quel luogo per la festa dei lavoratori. Dieci giorni prima, infatti, si era votato in Sicilia e c’era stata la vittoria delle Sinistre e del Blocco del Popolo sulla Democrazia cristiana, sui monarchici e sui separatisti. Era un momento politico importante per l’isola, l’occupazione delle terre, la riforma agraria e le lotte sindacali stavano mettendo in crisi la mafia dei latifondi. In attesa degli oratori ufficiali, un calzolaio di San Giuseppe Jato, Giacomo Schirò, segretario della locale sezione socialista, decise di intrattenere la folla. Ecco cosa riuscì a dire: ’Compagni, amici, lavoratori ogni primo maggio, fascismo o non fascismo, noi siamo sempre venuti qui, prima eravamo pochi ma oggi siamo una forza e lo abbiamo dimostrato nelle elezioni del parlamento siciliano con la strepitosa vittoria del Blocco del popolo. Questa è stata una prima grande vittoria, ma è solo l’inizio, non basta che ci diano la terra devono darci sementi, attrezzi, aratri, devono costruirci le strade, le case, devono portarci l’acqua, la luce nelle campagne. Insomma dobbiamo portare la civiltà nelle campagne. Noi vogliamo che i nostri figli imparino a leggere e scrivere per togliere questa vergogna dell’analfabetismo, perché a causa della nostra ignoranza siamo soggetti … dei gabelloti. Noi vogliamo che i nostri figli imparino a leggere e scriv…’. Poi gli spari e le grida di terrore dei contadini e dei loro familiari. Salvatore Giuliano e la sua banda, appostati sul monte Pelavet, avevano iniziato a sparare sui manifestanti, inizialmente furono scambiati per i tradizionali mortaretti della festa, poi il terrore s’impadronì della folla.
Foto da esperonews.it
Quel Primo maggio sul prato di Portella furono assassinati Margherita Clesceri (37 anni), Giorgio Cusenza (42 anni), Giovanni Megna (18 anni), Francesco Vicari (22 anni), Vito Allotta (19 anni), Serafino Lascari (15 anni), Filippo Di Salvo (48 anni), Giuseppe Di Maggio (13 anni), Castrense Intravaia (18 anni), Giovanni Grifò (12 anni), Vincenza La Fata (8 anni). Altri 27 rimasero feriti. Serafino Pecca, sopravvissuto alla strage ricorda: ‘Quella mattina siamo saliti qua, nel 1947, cominciò a parlare il segretario della Camera del lavoro, ha detto poche parole e iniziarono i primi spari’. Ed ancora: ‘Cercavamo un diritto che ci apparteneva, possibile che qui quattro o cinque persone che avevano mille ettari, chi duemila, chi di più con la gente che moriva di fame‘. Il giorno dopo, chiamato a riferire davanti all’Assemblea costituente sui fatti avvenuti a Portella della Ginestra, il ministro dell’Interno Mario Scelba disse che dietro alla strage ‘non c’era nessuna finalità politica o terroristica’. Ci vollero mesi per individuare in Salvatore Giuliano e nella sua banda gli esecutori materiali. I nomi dei mandanti sono invece ancora un segreto di Stato. Di certo quel giorno, oltre a sopprimere con la violenza un altro tentativo di emancipazione del popolo siciliano, ebbe inizio la strategia della tensione che, nei decenni successivi, impedirà alla Sinistra italiana di accedere al governo del Paese.

venerdì 27 aprile 2018

Tesori di Sicilia: Geraci Siculo

 
Geraci Siculo, promo XXIX Edizione Giostra dei Ventimiglia 2017
Video da Pro Loco Geraci Siculo
https://www.youtube.com/channel/UCpXoyARNPF77jUlRyahucog

venerdì 20 aprile 2018

Siamo tutti debitori ‘inconsapevoli’

Il debito pubblico dello Stato italiano continua a crescere sia in valori assoluti che in rapporto al Pil, ma a pagarne le conseguenze sono solo i lavoratori

di Pulvino Giovanni (@PulvinoGiovanni)

Foto da umbvrei.blogspot.com
Oggi, ogni italiano, neonati compresi, è debitore inconsapevole di circa 37 mila euro. L’importo è il risultato della divisione tra l’ammontare del debito pubblico (circa 2.287 miliardi di euro) ed il numero di cittadini (circa 60 milioni). ‘L’accollo debitorio’ cosi calcolato non tiene conto del reddito o del patrimonio del singolo cittadino, non fa differenza, cioè, tra un benestante ed un disoccupato. Ed è evidente che un ipotetico rimborso per il ‘milionario’ costituirebbe una cifra irrisoria, mentre per il disoccupato sarebbe assai complicato adempiere all’obbligo che ne deriverebbe. Inoltre, è probabile che chi dispone di risorse finanziarie sia anche possessore di titoli di Stato (Bot, Cct, ecc.). In tal caso egli, in quanto creditore dell’Erario, percepisce una rendita finanziaria derivante dalla somma degli interessi e delle plusvalenze che su di essi maturano. E’ uno dei tanti paradossi italiani che consentono ad alcuni (ceti medio - alti) di approfittare di ogni situazione per arricchirsi ed ad altri (ceti medio - bassi) di pagarne le conseguenze.
Foto da agenziaradicale.it
Gli unici governi che dal 1945 ad oggi sono riusciti ad abbassare il debito, almeno in rapporto al Pil ed operando senza creare traumi finanziari e sociali, sono stati gli esecutivi di Romano Prodi e quello di Massino D’Alema. Tra il 1996 ed il 2001 il rapporto debito/Pil è sceso dal 120% al 101%. Quelle politiche economiche consentirono all’Italia di avere buoni tassi di crescita e di entrare nell’Euro, ma nelle elezioni regionali e, successivamente, in quelle politiche ad essere premiata è stata la coalizione di Centrodestra. La serietà ed il ‘buon governo’ non pagarono, ma questa non è una novità. Dal 2002 il debito è tornato a crescere. Anzi nel 2011 esso era fuori controllo ed il Paese, allora guidato da Silvio Berlusconi (che per questo fu costretto a dimettersi), era sull’orlo del default finanziario.
Negli ultimi diciotto anni i tentativi di risanamento hanno determinato tagli alla spesa pubblica (pensioni, sanità e scuola) ed incrementi delle entrate tributarie (Ici/Imu, Iva, ecc..), ma i deficit di bilancio sono cresciuti o sono rimasti pressoché invariati. L’introduzione dell’Ici, poi abolita dal governo di Silvio Berlusconi e, successivamente, reintrodotta dal governo di Mario Monti con la denominazione di Imu, non sono servite ad abbassare il debito, ma solo ad impedirne una crescita incontrollata. Le altre misure introdotte dai governi di ‘emergenza nazionale’ di Giuliano Amato (1992), Lamberto Dini (1993) e Mario Monti (2011) hanno riguardato le modalità di accesso e calcolo delle pensioni che hanno prodotto ingiustizie persino tra i pensionati.
A pagare il costo del ‘rigore finanziario’ sono stati soprattutto i lavoratori. Le statistiche pubblicate negli ultimi anni dai vari istituti di ricerca mostrano un aumento delle disuguaglianze tra le classi sociali e del divario economico tra il Centro – Nord ed il Sud del Paese. Anzi, i tentativi di risanamento dell’abnorme debito pubblico creato con decenni di politiche clientelari, con l’inefficienza della Pubblica Amministrazione e con una corruzione diffusa non solo non hanno intaccato i patrimoni dei ceti sociali più alti, ma sono stati occasioni per incrementare le loro ricchezze, mentre il debito pro-capite è di tutti, neonati compresi.


Fonti: Mef, Istat.it, italiaora.org

giovedì 12 aprile 2018

La sceneggiata in stile ‘pentaleghista’

E’ passato oltre un mese dalle elezioni politiche, ma ancora non c’è nessuna prospettiva concreta per la formazione del nuovo Governo

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Matteo Salvini e Luigi Di Maio
Le dichiarazioni fatte dai leader dei partiti dopo le elezioni del 4 marzo scorso sono contraddittorie e non sono utili alla formazione di una maggioranza parlamentare. Le formazioni politiche che hanno ottenuto i maggiori consensi, M5s e Centrodestra, non hanno i voti necessari per governare da sole, pertanto una mediazione politica e programmatica è inevitabile. Invece quello a cui stiamo assistendo sembra un dialogo tra sordi. IL M5s non vuole fare un inciucio con Silvio Berlusconi, la Lega non vuole fare accordi con Matteo Renzi che nonostante le dimissioni da segretario continua a condizionare la linea politica del Pd, mentre i forzisti non sono disponibili ad un governo a guida grillina.
Intanto, Luigi Di Maio, leader del partito che ha ottenuto i maggiori consensi elettorali, ribadisce in ogni intervista che non può essere che lui il presidente del Consiglio del prossimo governo. Matteo Salvini è disponibile a rinunciare alla premiership, ma non a rompere l’unità del Centrodestra. Il Pd renziano non intende dialogare con i populisti, vale a dire con il M5s e la Lega e che, pertanto, resterà all’opposizione.
Stando così le cose e se nei prossimi giorni nessuna forza politica farà un passo indietro la formazione di un governo sarà impossibile. Il successo elettorale grillino e leghista potrebbe trasformarsi in una vittoria di Pirro.
In attesa che si trovi una soluzione i mercati finanziari stanno alla finestra, ma il tempo a disposizione dei partiti sta per scadere. La soluzione? Un inciucio M5s e Centrodestra a guida leghista rimane l’ipotesi più probabile. L’alternativa è un ritorno alle elezioni con un governo del Presidente, sempreché il Pd, liberatosi dall’influenza renziana, non torni a fare il salvatore della Patria rendendosi cioè disponibile a sostenere l’ennesimo governo di unità nazionale.
Nel frattempo, mentre assistiamo a questa ridicola sceneggiata,  i lavoratori precari continuano a vivere nell’incertezza del futuro, i disoccupati restano in attesa di un'occupazione, i pensionati al minimo non hanno neanche i soldi per pagare i ticket sanitari ed i poveri continuano a sopravvivere con le elemosine di Stato. 

giovedì 5 aprile 2018

La strage infinita delle morti sul lavoro

Caduti da un’impalcatura, schiacciati da un muletto o da un trattore, carbonizzati nel tentativo di spegnere un incendio o avvelenati all’interno di una cisterna, i morti sul lavoro sono centinaia ogni anno, in media sono quasi tre al giorno. Morire ‘per un pezzo di pane’ è intollerabile 

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

'Carusi' (bambini) all'imbocco di una zolfatara, Sicilia 1899
(foto da it.wikipedia.org)
Dal 2008 le denunce d’infortuni sul lavoro con esito mortale sono progressivamente diminuite. Dieci anni fa i decessi accertati dall’Inail sono stati 1.624, nel 2017 sono calati a 1.029. Dall’inizio del 2018 invece sono cresciuti del 12%, cioè sono saliti a 154 rispetto allo stesso periodo del 2017 quando i morti sul lavoro sono stati 133. Di oggi l’ultimo episodio. A Crotone due operai sono morti ed un terzo è in gravi condizioni dopo essere stati travolti dal crollo di un muro di contenimento che si accingevano a mettere in sicurezza.
Le leggi esistono e le prescrizioni previste sono stringenti, ma tutto questo non basta. Gli incidenti sul lavoro sembrano un fatto ineludibile, soprattutto se si tratta di attività precarie ed occasionali. Ed a pagare il prezzo più alto sono i lavoratori impiegati nelle mansioni più rischiose, ruoli occupati quasi sempre dai lavoratori appartenenti alle classi sociali medio – basse.
Tra i decessi di cui spesso non si sa nulla ci sono anche quelli di chi svolge un lavoro irregolare o in nero. Queste morti bianche, che non rientrano nelle statistiche, sono simili a quelle dei zolfatari rievocati nei versi di ‘Vitti 'na Crozza’, popolare canzone siciliana che esprime il lamento dei minatori deceduti nelle viscere della terra e non ritenuti degni dalla Chiese di ricevere una sepoltura cristiana (‘senza un tocco di campani’) solo perché i loro corpi non erano stati riesumati. Prassi, questa, praticata in Sicilia fino alla metà del secolo scorso.
Oggi viviamo in una società tecnologica, eppure si continua a morire per ‘un pezzo di pane’. Negli ultimi dieci anni i decessi sono stati oltre 14.000. Tutto questo è eticamente insopportabile. Non possiamo continuare ad assistere passivamente a queste tragedie. Un cambiamento radicale nella cultura del lavoro è indispensabile. Continuiamo a rincorrere il profitto dimenticando che il bene più prezioso che abbiamo è la vita. ‘Perché - come ha detto l’ex presidente dell’Uruguay, Josè Pepe Mujca - noi non siamo nati solo per svilupparci. Siamo nati per essere felici’.

Fonti: Inail.it e Osservatorio indipendente morti sul lavoro di Bologna