martedì 30 luglio 2019

Gaspare Giarratano: ‘si salvano, la gente si salvano in mare’

Mi chiedo se uno dei nostri politici abbia mai sentito nel buio della notte, nell’enormità del mare, levarsi delle grida disperate di aiuto. Noi si’, Gaspare Giarratano

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto postata su twitter da @NFratoianni 
Gaspare Giarratano, 63 anni, è un armatore siciliano. Un uomo che ha passato gran parte della sua vita lavorando con il suo motopeschereccio. Ora che è anziano ha lasciato ‘spazio’ e oneri al figlio Carlo. Il nuovo capitano della barca la notte del 26 luglio scorso, mentre si trovava a circa 50 miglia da Malta, ha individuato e soccorso 50 migranti stipati in un gommone fatiscente. In una video-intervista rilasciata a Rainews 24 l'armatore di Sciacca ha raccontato le drammatiche ore vissute da suo figlio e dall’equipaggio del suo peschereccio. Il linguaggio utilizzato da Gaspare è a tratti sgrammaticato e con il tipico accento siciliano, in questo ricorda i personaggi dei libri di Andrea Camilleri: una ripetizione qua, un modo dire là e tanta tanta umanità, quella tipica dei siciliani onesti che hanno passato la loro vita a lavorare ed a faticare pur di dare una vita dignitosa alle loro famiglie ed a quanti hanno lavorato con loro. Ecco la trascrizione dell’intervista. 
Il motopeschereccio Accursio Giarratano
(foto da fanpage.it)
Gli immigrati si trovano da tutte le coste, 100 miglia, da quando la notte li hanno avvistati, è durata fino a ieri sera alle nove questa situazione, volevano salire a bordo però mio figlio non li ha fatti salire, ma non li ha abbandonati gli ha dato viveri, pane, fette biscottate, tutto quello che c’è a bordo, tutta l’assistenza possibile ed immaginabile, acqua, però non li ha fatti salire a bordo, ma nemmeno si è allontanato per abbandonarli, mai, nonostante tutto alle tre e mezzo di notte si mette in contatto con il Comando generale delle capitanerie, che io devo ringraziare, in primis tutte le autorità della Guardia costiera da Roma in su e da Roma in giù, tutti …. Io sono l’armatore, mio figlio è il capitano e la barca porta il nome di un figlio che mi è morto (Accursio) … per noi è una legge scritta nel cuore, non è una legge, in mare è questo, si salvano, la gente si salvano in mare. Poi magari ti imbatti con la burocrazia, però, intanto, andiamo a salvare e poi se ne pensa … La barca di notte, noi facciamo un tipo di pesca che di notte non lavoriamo, lavoriamo di giorno, quindi la barca era ferma e a loro gli è venuto facile avvicinarsi, perché loro al buio questo puntino lo vedevano sul radar, allora si sono messi in allerta vedendo questa cosa che si avvicinava e poi sono andati avanti per non farli salire a bordo, perché hanno insistito per salire, però grazie a Dio è finita bene … Ieri sera è arrivata la Guardia costiera dopo tanti sollecitamenti è arrivata ieri sera alle otto e mezza, già era buio quando è arrivata, fortunatamente grazie a Dio, lo ripeto e dico, ringraziamo tutti quelli che si sono prodigati per questa buona riuscita, di questa cosa, sono arrivati, mio figlio quando loro se li sono messi a bordo, mio figlio se n’è andato, ha fatto la sua navigazione verso Sciacca.
Queste semplici parole, espresse da un umile pescatore siciliano poco abituato a parlare in italiano, sono una lezione di vita che andrebbe presa ad esempio da tutti, soprattutto da chi ci governa, ma purtroppo per una parte degli italiani non è così.

Fonte rainews.it


sabato 27 luglio 2019

I governatori leghisti vogliono tutto

Per i governatori leghisti la ricchezza di cui dispongono i ‘padani’ non è ancora sufficiente, vogliono di più, vogliono la secessione di fatto, senza modificare cioè la forma di Governo

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Attilio Fontana, Matteo Salvini e Luca Zaia
(foto da quotidiano.net)
La storia dovrebbe insegnarci a non ripetere gli errori compiuti nel passato, ma purtroppo non è così. Significativa è, a tale proposito, la polemica sollevata dai governatori leghisti sulle limitazioni all’autonomia differenziata proposte dal Governo. Una delle richieste più importanti dei presidenti della Lombardia e del Veneto è l’attribuzione della competenza in materia di infrastrutture. Come sanno bene gli economisti lo sviluppo economico di una regione non può prescindere da una efficiente rete stradale. Ebbene, la storia della costruzione, in alcuni casi della mancata costruzione, delle autostrade italiane evidenzia e spiega il motivo del crescente divario economico tra Nord e Sud Italia, che, adesso, i governatoti Luca Zaia e Attilio Fontana intendono accentuare con la cosiddetta ‘autonomia differenziata’. La rete autostradale italiana ha un’estensione di 6.943,2 km. Il primo tratto è stato inaugurato a Lainate il 21 settembre del 1924. L’autostrada dei laghi si snoda da Milano a Varese. Tre anni dopo è stata aperta la Milano-Bergamo. Nel 1928 nasce la società Autostrada Brescia-Verona-Vicenza-Padova. Negli anni Trenta vengono aperte la Firenze-Mare e l’autostrada Padova-Venezia e la Genova-Serravalle-Scrivia. Al Sud l’unica autostrada costruita in quegli anni è, la Napoli-Pompei, successivamente declassata a strada statale.
La rete autostradale italiana
(foto da wikipedia.org)
La prima programmazione nazionale di un piano di investimenti per costruire anche nel Mezzogiorno una rete viaria degna di questo nome è solo degli anni Sessanta. Nel 1955 la legge Romita stabilì che le autostrade si dovevano estendere in tutte le regioni italiane. I lavori iniziarono nel decennio successivo, ma essi spesso si sono protratti per tempi ‘biblici’ e con risultati a dir poco inadeguati.
Il primo tratto della Salerno-Reggio Calabria è stato aperto nel 1967, ma i lavori di completamento ed ammodernamento si sono conclusi solo alla fine del 2016. L’autostrada A20 Messina-Buonfornello (litorale tirrenico della Sicilia), iniziata nel 1969, è stata completata nel 2005. L’A19, inaugurata nel 1975, è l’unica autostrada che attraversa l’isola e congiunge Palermo con Catania. Oggi è fatiscente ed è interrotta in più punti. Il viadotto Himera crollato nel 2015 ancora non è stato ricostruito. L’autostrada A18 (Sicilia orientale) ancora non è stata completata. Nell’isola non c’è altro. Mentre, in Sardegna ci sono solo strade statali e provinciali. Invece, tra Milano e Bergamo ci sono due autostrade. Una di queste, la Brebemi, costruita dai privati con il sostegno pubblico, rischia il fallimento perché il numero di veicoli che vi transitano è insufficiente. La situazione è paradossale. In Lombardia delle autostrade non sanno che farsene, mentre in Sicilia come in altre regioni del Sud non ci sono o sono fatiscenti. Ecco, è questo quello che bisognerebbe dire ai governatori leghisti che vogliono tutto, anche quel poco che ancora lo Stato italiano investe nelle regioni meridionali, ma, evidentemente, per i padani la ricchezza di cui dispongono non è ancora sufficiente, vogliono di più, vogliono la secessione di fatto, senza cambiare cioè la forma di Governo.
Del resto, gli articoli 116 e 117 della Costituzione, modificati con una legge di riforma voluta ed approvata dal Centrosinistra nel 2001, glielo consentono. E non è un caso che a chiedere maggiore autonomia sono soprattutto le regioni guidate dalla Lega. I leghisti, nonostante la svolta sovranista, rimangono legati alle loro origini. Gli esponenti ‘verdi’, Matteo Salvini compreso, non dimenticano mai di attaccare sul risvolto della giacca la spilletta di 'Albert de Giussan', considerato dai militanti come il principale simbolo dell’indipendenza padana perduta.
Tutto legittimo. Quello che è incomprensibile è il consenso elettorale che tanti meridionali continuano a riconoscere a chi li considera di Serie B ed ora vuole mandarli in Serie D come è successo al Palermo Calcio di Maurizio Zamparini. Friulano doc, l'ex presidente dei Rosanero è sceso in Sicilia per dimostrare le sue capacità imprenditoriali. Invece, ha solo fatto danni e disastri come un 'siciliano qualsiasi', cose da non credere.


giovedì 18 luglio 2019

‘Quel fresco profumo di libertà’

‘La lotta alla mafia non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si contrappone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità’, Paolo Borsellino

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
(foto da centrostudiborsellino.it)
Quando nel tardo pomeriggio del 19 luglio del 1992 la tivù trasmise le prime immagini della strage di via d’Amelio sembrava di essere in una zona di guerra come c’è ne sono ancora tante nel mondo, invece eravamo a Palermo, in un quartiere che si trova nel cuore della città. Erano le 16:58 di una calda giornata estiva ed una bomba pronta ad esplodere era stata nascosta in una Fiat 126 rossa parcheggiata proprio accanto all’ingresso dello stabile dove si trova la residenza della madre del giudice Paolo Borsellino.
Fu attimo, solo un attimo ed una forte esplosione echeggiò per le strade della città. Il pensiero di molti corse al Giudice e alla sua scorta. Una notizia che nessuno avrebbe voluto sentire, ma che in tanti temevano potesse arrivare da un giorno all’altro. Fumo, fiamme, pompieri che andavano e venivano, militari, curiosi, l’asfalto bagnato dagli idranti e tanta confusione. Le auto sventrate dall’esplosione stavano bruciando e, anche se attraverso lo schermo l’odore non si poteva sentire, chi stava guardando potè immaginare l’orrore che i primi soccorritori devono aver provato davanti a tale scempio di corpi e di vite. Duecento chili di tritolo erano deflagrati e sei eroi, sei servitori dello Stato italiano, non c’erano più. Oltre al Giudice, sull’asfalto rimasero i corpi di Agostino Catalano, Emanuela Loi (la prima donna a far parte di una scorta), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina e l’unico sopravvissuto l’agente Antonino Vullo.
Perché nessuno aveva provveduto a far sgomberare le auto parcheggiate in quella strada? Tutti sapevano che prima o poi Paolo Borsellino sarebbe andato in via d’Amelio a trovare la madre, tutti sapevano che sarebbe passato da quel portone. I mafiosi conoscevano le sue abitudini. Pi stuppagghiari’ è stato relativamente facile organizzare l’attentato. Ma i funzionari addetti alla sicurezza del Giudice come facevano a non sapere e se sapevano perché non hanno provveduto allo sgombero? Paolo Borsellino era nel mirino da anni e lo era ancora di più dopo l’assassinio di Giovanni Falcone. Era chiaro a tutti che ‘i corleonesi’ avrebbero continuato nelle loro stragi e nell’attacco allo Stato. Le condanne definitive inflitte agli esponenti della Cupola con il maxiprocesso mettevano in pericolo l’incolumità di quanti avevano operato con professionalità e senso del dovere nell’istruire e nel portare a conclusione e con successo quel processo.
Oggi sappiamo che ci furono dei depistaggi, che l’attentato non fu opera solo dei mafiosi, che il Giudice dava fastidio e come spesso, troppo spesso è successo in questo triste ed ingiusto Paese, c’è sempre qualcuno che traffica e trama ai danni del popolo italiano e di chi, ligio al dovere e con un innato senso della giustizia, non si piega e non rinuncia alla propria libertà e dignità, proprio come fecero Paolo Borsellino e Giovanni Falcone’. Due eroi siciliani che erano abituati 'a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si contrappone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità’ a cui, purtroppo, in tanti continuano ad adeguarsi ed adattarsi.



sabato 13 luglio 2019

‘Gli ultimi saranno i primi’, ma non per il governo 'pentaleghista'

Il comportamento di tanti cattolici è spesso in contraddizione con le parole di Papa Francesco e la fede cristiana è spesso utilizzata sono in funzione delle proprie convenienze personali

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

La 'Porta Lampedusa - Porta d'Europa'
(foto da famigliacristiana.it)
I migranti sono prima di tutto persone umane, non si tratta solo di questioni sociali o migratorie. Sono il simbolo di tutti gli scartati della società globalizzata’. Queste sono le parole pronunciate da Papa Francesco in occasione del sesto anniversario della sua visita a Lampedusa. Ed ancora: ‘Gli ultimi che chiedono di essere liberati dai mali che li affliggono, gli ultimi ingannati e abbandonati a morire nel deserto, gli ultimi torturati, abusati e violentati nei campi di detenzione, gli ultimi che sfidano le onde di un mare impietoso, gli ultimi lasciati in campi di un’accoglienza troppo lunga per essere chiamata temporanea’. 
Se tutti i cattolici applicassero nella loro pratica quotidiana gli insegnamenti del Pontefice il nostro Paese sarebbe migliore, ma, purtroppo, non è così. Spesso i principi ed i valori della fede rimangono inapplicati o sono ‘piegati’ alle esigenze quotidiane o semplicemente a ciò che ‘conviene’ di più. Tra il salvare una vita che fugge dalla guerra e dalla fame e che può morire in mare o vedere per le nostre strade un individuo di colore, una parte degli italiani che professano la religione cattolica preferiscono la prima opzione. I problemi di coscienza che dovessero sorgere, ma non è detto che ci siano, si risolvono dicendosi che così facendo essi non partono e, quindi, non muoiono e se poi partono ugualmente, peggio per loro, noi non ne siamo responsabili. 
Queste contraddizioni sono frequenti e riguardano anche i politici. Il nostro ministro degli Interni, Matteo Salvini, bacia e mostra il rosario nei suoi comizi nell’intento di evidenziare la sua fede cattolica, ma poi contravviene alle parole del Papa lasciando morire in mare gli ‘ultimi’ o lasciandoli stipati per giorni o settimane nelle barche che li hanno soccorsi o li costringe a ‘bivaccare’ per strada. Il segretario della Lega non è il solo leader nazionale a comportarsi così. Tra gli altri ci sono Silvio Berlusconi, Pierferdinando Casini e Giorgia Meloni che nella loro propaganda politica hanno sempre fatto riferimento ai valori della cristianità e del cattolicesimo. Invece, nella loro pratica giornaliera si sono comportati diversamente. Ad esempio, non avrebbero dovuto violare il sacro vincolo coniugale e, quindi, non avrebbero dovuto divorziare e risposarsi o come la leader dei Fratelli d’Italia avere una figlia al di fuori del matrimonio. Inoltre, essi dovrebbero agire secondo i principi della tolleranza e della carità ed accogliere ed aiutare ‘gli ultimi’. Invece, pur facendo sfoggio della fede cattolica, i loro comportamenti sono tutt’altro che cristiani ed il loro credo religioso è utilizzato solo per la loro carriera politica e professionale. Purtroppo a molti italiani queste contraddizioni non interessano. Del resto, è una pratica assai diffusa. Ed è quasi ‘normale’ per molti dire una cosa e farne un’altra o predicare o volere una regola che solo gli altri saranno obbligati a rispettare.


martedì 9 luglio 2019

La pressione fiscale ‘reale’ sui contribuenti onesti è al 48%

Mentre il Governo ‘pentaleghista’ emana a ripetizione decreti sulla cosiddetta ‘pace fiscale’ e premia i ‘furbetti’ con lo stralcio totale degli interessi e delle sanzioni delle cartelle esattoriali emesse dal 2000 al 2017, aumenta la pressione fiscale ‘reale’ sui contribuenti onesti

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da cgiamestre.com
Nel nostro Paese ci sono almeno tre categorie di contribuenti: gli onesti, gli evasori e gli incapienti. I primi, secondo l’indagine condotta dalla Cgia di Mestre, versano allo Stato fino all’ultimo centesimo dovuto. Su di loro la pressione fiscale ‘reale’ è del 48%. Un incremento di ‘6 punti in più rispetto al dato ufficiale, che nel 2018 si è attestato al 42,1%’. Paghiamo meno tasse, ma sono ‘aumentate le tariffe della luce, del gas, dei pedaggi stradali, dei servizi postali, dei trasporti, ecc.’. Queste voci pur non rientrando nel calcolo contabile della pressione fiscale, incidono negativamente sui bilanci delle famiglie, in particole di quelle che sono fedeli con l’erario. Se dal Prodotto interno lordo sottraiamo la ricchezza prodotta in ‘nero’ e quella illegale, il rapporto, sottolinea la Cgia, tra il Pil è il gettito fiscale cresce, cioè il peso del fisco sui contribuenti onesti risulta maggiore rispetto a quello ufficiale.
A quanto evidenziato dalla Cgia di Mestre occorre aggiungere il fatto che lo Stato e gli enti locali non sempre garantiscono servizi pubblici adeguati e, comunque, corrispondenti alle risorse raccolte con i tributi, soprattutto in alcune Regioni del Sud. In particolare, con il ‘federalismo fiscale’ sono state introdotte negli ultimi tre decenni numerose imposte locali come l’Imu, la Tasi, la Tari e le tariffe per l’acqua pubblica, ecc. Ebbene, il costo che i Comuni devono sostenere per questi servizi grava, per legge, sui cittadini. Molti contribuenti non sono in grado di pagare tutte le cartelle che gli uffici comunali gli inviano, anche se, tra questi, sono in tanti che fanno solo finta di non poter pagare. In molte città, soprattutto meridionali, l’evasione fiscale su questi tributi è elevata, spesso supera il 50% del totale. Le amministrazioni comunali per coprire i costi dei servizi anziché intentare con decisione il recupero dei relativi crediti si limitano, spesso, ad incrementare le tariffe e le aliquote pagate dai contribuenti onesti. Anzi, in alcuni casi essi utilizzano questi crediti (ratei attivi), che nella maggior parte dei casi sono inesigibili, per fare altre spese, creando così le condizioni per un futuro default del Comune.
Intanto, il governo ‘pentaleghista’ premia i ‘furbetti’ e gli evasori con l’ennesimo condono fiscale che essi chiamano ‘Pace fiscale’ e con lo stralcio totale degli interessi e delle sanzioni delle cartelle esattoriali emesse dal 2000 al 2017. Non solo questi ‘evasori’ non pagano i servizi indivisibili erogati anche per loro, ma a dover rimediare ai buchi nei bilanci comunali sono i contribuenti onesti a cui si continua a chiedere sempre di più.
Non meraviglia, quindi, se chi propone condoni ha anche tanti consensi nel Paese.

sabato 6 luglio 2019

8 agosto 1991, 20mila albanesi sbarcano in Italia

Il più grande sbarco di migranti avvenuto nel nostro Paese è di 28 anni fa, quel giorno arrivarono con una sola nave 20mila albanesi, ma non si parlò di invasione come si fa oggi per poche decine di disperati

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

La Vlora attraccata al porto di Bari, 8 agosto 1991 
(foto da wikipedia.org)
Per impedire lo sbarco di poche decine di migranti salvati dalle Ong il ministro degli Interni, Matteo Salvini, ha imposto ai grillini un secondo decreto ‘sicurezza’, ha chiuso il porto di Lampedusa, ha ordinato il blocco messo in atto dalla Guardia di finanza, ha insultato i parlamentari dell’opposizione, la Capitana della Sea Watch 3 ed i magistrati che non hanno fatto quanto egli aveva suggerito dai suoi canali di comunicazione preferiti: i social. Tutto per impedire una presunta ‘invasione’di migranti.
La nave mercantile Vlora, battente bandiera albanese, il 7 agosto del 1991, mentre si trovava a Durazzo per le operazioni di sbarco della merce che aveva cariato a Cuba, venne ‘assalita da una folla di 20mila persone’ e costretta a salpare per l’Italia. L’imbarcazione giunse a Bari il giorno dopo: l’otto agosto. Il comandante Halim Milagi, come ha fatto poche settimane fa Carola Rackete, forzò il blocco navale ‘comunicando di avere feriti gravi a bordo’. Le foto e le immagini televisive della nave stipata di disperati sono ancora oggi impressionanti. Quel giorno una marea umana si riversò sul molo, mentre a decine si tuffarono in acqua e tentarono di scappare. Ad oggi esso rimane il più grande sbarco di migranti avvenuto nel nostro Paese con una sola nave.
Ecco come descrisse quel giorno la moglie del sindaco di Bari, Enrico Delfino. ‘Andò subito al porto, prima ancora che la Vlora sbarcasse. A Bari non c’era nessuno del mondo istituzionale, erano tutti in vacanza, il prefetto, il comandante della polizia municipale, persino il vescovo era fuori. Quando uscì di casa però non immaginava quello a cui stava andando incontro. Dopo qualche ora, mi telefonò dicendomi che c’era una marea di disperati, assetati, disidratati, e aveva una voce così commossa che non riusciva a terminare le frasi. Non dimenticherò mai l’espressione che aveva quando tornò a casa, alle 3 del mattino dopo. Sono persone - ripeteva - persone disperate. Non possono essere rispedite indietro, noi siamo la loro ultima speranza>’.
È così che ci si comporta di fronte alla disperazione, non proclamando finti blocchi navali, finti arresti ed istigando all’odio. Purtroppo, il popolo italiano, oltre ad essere ‘credulone’ ha, anche, la memoria corta o fa finta di avere la memoria corta. Oggi, per leghisti e grillini e per i loro rispettivi fan, siamo ‘invasi’ da poche decine di disperati, mentre 28 anni fa, con 20mila migranti sul molo di Bari, fu solo stupore e solidarietà.


mercoledì 3 luglio 2019

Spread: la quiete prima della tempesta?

Il debito pubblico dello Stato italiano continua ad aumentare, ma lo spread diminuisce, perché? Ecco alcune possibili spiegazioni

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Il rendimento dei Btp a 10 anni dal 2014 ad oggi - (foto da fineco.it)
Il tasso d’interesse sui Btp a 10 anni è sceso a 1,67%, alla fine del 2018 era oltre il 3,6%, mentre quello a due anni è addirittura negativo, a -0,02%. Lo spread, cioè il differenziale dei tassi tra i Btp italiani e i Bund tedeschi, è sceso a 205 punti, alla fine dello scorso anno era vicino ai 400 punti. Eppure, i dati sull’economia italiana non sono buoni, la previsione di una crescita del Pil è dello 0,2%, il deficit di bilancio sarà del 2,04%, il rapporto debito/Pil potrebbe superare il 133%, il valore nominale del debito continua a salire ed ogni anno paghiamo oltre 65 miliardi di euro di interessi. Inoltre, per l’autunno si prospetta una difficile e complicata stesura della legge di Stabilità. Tenere i conti sotto controllo sarà difficile anche perché i due vicepremier, Luigi Di Maio e Matteo Salvini, intendono procedere a deficit, cioè facendo altri debiti (almeno così dicono). Il presupposto di questa politica è che la crescita sia maggiore dell’incremento del debito e che l’Europa continui ad essere ‘benevola’ nei nostri confronti. La situazione, quindi, è a dir poco complessa, eppure i tassi d’interesse sul nostro debito scendono, come mai?
Il trend è iniziato in modo robusto dopo le dichiarazioni rilasciate qualche settimana fa da Mario Draghi. Il presidente uscente della Banca centrale europea ha prospettato una riapertura del Quantitative Easing (l’acquisto di titoli del debito pubblico dei Paesi dell’Unione europea) e nuovi aiuti alle banche per stimolare l’economia del 'Vecchio Continente' che sta rallentando. Inoltre, la manovra correttiva approvata dal Consiglio dei ministri (Luigi Di Maio era assente), ha scongiurato, almeno per ora, la procedura d’infrazione per eccesso di debito. Non solo, ma la Flat tax potrebbe essere ‘annacquata’ come lo sono stati il Reddito di cittadinanza e la Quota 100. Potrebbe, cioè, costare molto meno rispetto a quanto ipotizzato in campagna elettorale. Poi ci sono le parole rassicuranti del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha detto ‘che non ci sono motivi per una procedura d’infrazione, l’Italia ha un’economia solida’.
Sembra che nel nostro Paese ci siano due governi, uno guidato dal premier Giuseppe Conte e sostenuto dal Quirinale che dialoga con l’Europa ed un altro che minaccia rivolgimenti su tutto, che ha i voti in Parlamento e che in queste ultime settimane è in un momento di ‘quiete propangandistica'Insomma, i toni ‘accondiscendenti’ delle dichiarazioni degli ultimi giorni sui temi economici e sui rapporti con l’Ue rilasciate da Luigi Di Maio e Matteo Salvini e, nello stesso tempo, quelle tranquillizzanti di Mario Draghi e Sergio Mattarella, sembrano rassicurare gli investitori. Del resto, i nostri titoli di Stato hanno, in questa fase, un rapporto rendimento/rischio ‘appetibile’ per i risparmiatori. Poi in autunno si vedrà, a vendere basta un clic sul computer, tanto a pagare la mancanza di rigore nella gestione delle risorse pubbliche non saranno gli speculatori e neanche i nostri governanti, ma i soliti noti: lavoratori e pensionati.

Fonte fineco.it