martedì 24 maggio 2022

La NATO andrebbe abolita non allargata, ecco perché

‘Un giorno non ce l’ho più fatta. Ho sentito il bisogno di scoprire l’altra faccia del mondo, di andare a fare il chirurgo di guerra. Poi non è stato possibile tornare sui miei passi: avevo visto troppo dolore, troppe ingiustizie', Gino Strada

di Giovanni Pulvino

A sinistra in blu i paesi europei aderenti alla Nato oggi,
a destra quelli aderenti nel 1989

La volontà della Svezia e della Finlandia di entrare nella NATO non sorprende. Il conflitto tra la Russia e l’Ucraina sta preoccupando tutti i paesi europei che sono al confine con il ‘gigante’ russo e non solo, ma la richiesta di protezione militare è, per i due paesi scandinavi, una novità assoluta. Finora la ‘neutralità’ era stata un segno distintivo della loro cultura pacifista.

Le legittime preoccupazioni dei leader del Vecchio Continente sono la logica conseguenza dell’invasione dell’Ucraina. Per i russi invece la guerra sarebbe stata determinata dal tentativo degli americani di allargare la loro influenza politica e militare. L'obiettivo strategico sarebbe quello di indebolire ed isolare la Russia.

Se si guarda la mappa dell'Europa con i paesi aderenti al Patto Atlantico di oggi e la si confronta con quella del 1989 la preoccupazione è 'giustificata'. Il ‘soccorso’ alle aree russofone e l’espansionismo della Nato sarebbero, secondo Vladimir Putin, i motivi dell'invasione dell'Ucraina. Sono, in fondo, le stesse argomentazioni utilizzate per giustificare le politiche estere 'imperialiste' adottate dagli Usa e dalla Cina o da qualunque altra superpotenza mondiale. 

In tutto questo l’Europa, ancora una volta, ha un ruolo subalterno.

La domanda che dovremmo porci come europei è: ma la guerra a chi conviene? Ed ancora, cosa non abbiamo fatto per evitare questa tragedia? E cosa possiamo fare per fermare il conflitto?

Ai primi due interrogativi ormai è inutile rispondere, ma il terzo è dirimente. L’impressione è che non si stia facendo abbastanza per favorire la pace, anzi parteggiare pedissequamente per una parte può solo acuire la tensione o addirittura provocare una escalation del conflitto.

Negli anni Settanta si contestava la NATO che, come tutti sanno, è un’organizzazione militare. Farne parte vuol dire consentire al Pentagono e all’esercito americano di installare sul proprio territorio nazionale armi atomiche e reparti militari pronti alla guerra, ma la guerra contro chi? 

Negli anni Ottanta c’erano manifestazioni oceaniche per la pace e contro l’installazione di ordigni nucleari, oggi li invochiamo.

Fino al 1989, anno della caduta del muro di Berlino, il Patto Atlantico aveva una sua logica militare, ma da allora, con il disfacimento dell’Unione sovietica, che senso ha?

La NATO da chi ci dovrebbe difendere? Non c’è un pericolo ‘russo’, come non c’è un pericolo cinese o arabo. È tutta propaganda. Ed in ogni caso lo si può fare senza ricorrere alla violenza.

Le guerre hanno sempre portato morte e distruzione, i conflitti si risolvono con il dialogo e la condivisione, non con le armi. Quella guidata dai generali americani è un'organizzazione che andrebbe abolita, non allargata. La sua esistenza si giustifica solo per confermare e possibilmente allargare l’egemonia politica degli Stati Uniti d’America. 

E non dimentichiamoci che con l’invio di armi all’Ucraina siamo diventati un Paese co-belligerante in piena violazione dell’articolo 11 della Costituzione che è chiarissimo ma spesso lo dimentichiamo: ‘L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo’.

Fonte senato.it

 


mercoledì 18 maggio 2022

Continua l’odissea dei lavoratori di Almaviva

La disoccupazione e il precariato non si combattono licenziando, ma salvaguardando i posti di lavoro o creandone di nuovi

di Giovanni Pulvino

Protesta dei lavoratori di Almaviva e Covisian 

I lavoratori dei call center di Palermo continuano a protestare ed a chiedere la riapertura del tavolo di confronto tra sindacati, Governo, Ita e Covisian. I posti di lavoro a rischio sono 543. I tentativi di scongiurare i licenziamenti degli operatori dei call center del capoluogo siciliano finora sono stati inutili.

La vertenza è per certi aspetti paradossale. Lo scorso agosto Covisian aveva vinto la gara per subentrare ad Almaviva nella gestione del servizio ex Alitalia. In quell’occasione l’azienda s’impegnò ad assorbire i lavoratori in cassa integrazione a zero ore. A febbraio Covisian ci ripensa ed annuncia di non voler procedere con l’intesa sottoscritta perché ritenuta troppo onerosa per l’azienda. Non solo, ma la multinazionale avrebbe interrotto il contratto con Ita e dal 30 aprile avrebbe proceduto con 221 licenziamenti.

Intanto, la nuova compagnia aerea italiana non solo non si è presentata all’incontro al ministero ma ha proceduto ad assumere 150 lavoratori per il proprio call center interno.

Nello stesso tempo Almaviva sta procedendo con il licenziamento degli operatori della sede di Palermo che erano ancora in cassa integrazione e che avrebbero dovuto essere assunti da Covisian. 

Se non fosse tutto vero ci sarebbe da ridere.

È vero che siamo in Sicilia dove il paradosso è diventato poesia con le opere di Pirandello e non solo, ma mettere sulla strada oltre cinquecento dipendenti rappresenta l’ennesima beffa per i lavoratori dell’isola e le loro famiglie.

La storia si ripete. Nel 2011 a chiudere fu lo stabilimento Fiat di Termine Imerese, poi fu la volta del petrolchimico di Gela ed ora quello di Pfizer a Catania e di Almaviva a Palermo.

Cambiano i governi nazionali, i ministri ed gli assessori regionali, ma per i lavoratori del Meridione mantenere il posto di lavoro è come vincere un ‘terno al lotto’ a settimana. La lotta alla Mafia, al sottosviluppo e all’arretratezza tecnologica e industriale del Sud non si possono combattere solo con le promesse. Occorrono fatti.

Il Governo ha annunciato che il 40% dei finanziamenti del Pnrr andrà al Mezzogiorno. Vedremo.  E, comunque, l'importo stanziato è il minimo dovuto ad un’area che negli ultimi decenni è stata penalizzata nei piani di investimenti sia pubblici che privati.

Intanto, in attesa che alle parole seguano i fatti, continuano i licenziamenti e l’esodo verso il Nord Italia o all’estero di tanti meridionali che al Sud non riescono a trovare un lavoro ‘dignitoso’.

venerdì 6 maggio 2022

Nel 2022 sarà spesa pubblica record

Nel 2022 la spesa pubblica ‘si attesterà ad oltre 1.008 miliardi di euro'. Sarà un record storico. A sostenerlo è Unimpresa 

di Giovanni Pulvino

Foto da unimpresa.it

Nel 2020 la spesa pubblica è cresciuta di 75 miliardi (più 9%), nel 2021 di altri 39 miliardi (più 4%) e alla fine del 2022 la crescita sarà di 23 miliardi (più 2%).

Ad incidere è stata soprattutto l’emergenza Covid-19. Ma questo non vuol dire che in futuro, diminuirà. Le previsioni sono per un mantenimento del livello dovuto soprattutto all’incremento della spesa pensionistica rispetto al Pil. Gli assegni erogati dall’Inps passeranno dal 15,7% del 2022 al 16% nel triennio 2023-2025. Ci sarà invece un decremento degli ‘stipendi dei dipendenti pubblici che passeranno dal 10,10% di quest’anno all’8,80% del 2025’. In valori assoluti dovrebbero ridursi dai ‘188,80 miliardi di quest’anno ai 185,60 del 2025’.

Tutto è stato necessario per fronteggiare la pandemia, ma è stato fatto a debito. Ora è tempo di ‘avviare un sentiero di normalità’, sostiene il presidente di Unimpresa, Giovanna Ferrara.

Per il futuro le previsioni sono per un ulteriore aumento anche se più limitato. Nel 2025 la spesa pubblica dovrebbe arrivare a 1.045,1 miliardi.

L’incremento è strutturale. Nel 2017 era di 829,3 miliardi. Alla fine del 2019 era di 870,7 miliardi. Nel 2022 supererà la soglia psicologica dei 1.000 miliardi. I motivi di questa crescita continua sono diversi. Nel corso del tempo aumentano i bisogni collettivi che solo lo Stato può soddisfare. La pandemia ne è un esempio. In una società sempre più complessa e tecnologica i costi della produzione e della distribuzione dei beni e dei servizi essenziali tendono ad incrementarsi. L’esigenza del sistema di garantire la pace sociale è sempre più impegnativa e costosa. Il Reddito di cittadinanza ne è la dimostrazione più evidente.

L’aumento della spesa pubblica è funzionale al sistema economico capitalistico. Serve a rendere più sopportabili le disuguaglianze generate dalla ingiusta redistribuzione della ricchezza prodotta. Ma fino a quando tutto questo sarà finanziariamente e socialmente sostenibile? 

Fonte unimpresa.it