martedì 18 febbraio 2025
Le foglie cadono sempre dagli alberi
Le foglie cadono dagli alberi ed il sole sorgerà di nuovo, ma domani sarà sempre un’altra cosa

Torremuzza, 19 febbraio 2025 (foto di Pulvino Calogero)
Bastano le note di una canzone per tornare indietro nel tempo
anche se è inutile farlo.
Per un momento ti ritrovi seduto sul
muretto della piazzetta o in riva al mare a strimpellare con le corde male
accordate di una chitarra, sempre la stessa a dire il vero, e stai lì a
ripercorrere un tempo che non tornerà.
A volte il senso di ciò che è stato si
ripete anche se sei in luogo ed in un tempo diverso.
Ed è allora che ritornano lo stesso
vuoto e lo stesso bisogno di riconoscimento.
Lo vedi negli occhi spauriti di chi non
sa dire, di chi non sa osare ed aspetta, inevitabilmente ed inutilmente
aspetta.
E se lo farà, se si deciderà a farlo
sarà lo stesso, potrà solo dimenticarsi per un po', solo per un pò.
Testardamente e inevitabilmente
continui a cercare un sorriso o uno sguardo che possano consolarti, o a sperare
in una parola o in un gesto che possano illuderti, ma è solo
un momento, ed è subito mancanza.
Resterà una nota anch’essa persa nello
scorrere lento ed inutile della vita altrui che non ti appartiene, che non ti
può appartenere.
Il mare azzurro là in fondo incontra il
cielo ogni sera e non serve a nulla sapere che oltre l'orizzonte tutto
continua, tutto si ripete.
Dove sei, dove si posano oggi i tuoi
sguardi, quali strade calpesti, quali cuori consoli? Quali carezze
ispiri, quali silenzi doni, quali gioie consenti? Quali ...
Intanto, il tempo dato passa.
Le foglie cadono dagli alberi ed il
sole sorgerà di nuovo, ma domani sarà sempre un’altra cosa.
Le foglie cadono dagli alberi ed il sole sorgerà di nuovo, ma domani sarà sempre un’altra cosa
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Torremuzza, 19 febbraio 2025 (foto di Pulvino Calogero) |
Per un momento ti ritrovi seduto sul
muretto della piazzetta o in riva al mare a strimpellare con le corde male
accordate di una chitarra, sempre la stessa a dire il vero, e stai lì a
ripercorrere un tempo che non tornerà.
A volte il senso di ciò che è stato si
ripete anche se sei in luogo ed in un tempo diverso.
Ed è allora che ritornano lo stesso
vuoto e lo stesso bisogno di riconoscimento.
Lo vedi negli occhi spauriti di chi non
sa dire, di chi non sa osare ed aspetta, inevitabilmente ed inutilmente
aspetta.
E se lo farà, se si deciderà a farlo
sarà lo stesso, potrà solo dimenticarsi per un po', solo per un pò.
Testardamente e inevitabilmente
continui a cercare un sorriso o uno sguardo che possano consolarti, o a sperare
in una parola o in un gesto che possano illuderti, ma è solo
un momento, ed è subito mancanza.
Resterà una nota anch’essa persa nello
scorrere lento ed inutile della vita altrui che non ti appartiene, che non ti
può appartenere.
Il mare azzurro là in fondo incontra il
cielo ogni sera e non serve a nulla sapere che oltre l'orizzonte tutto
continua, tutto si ripete.
Dove sei, dove si posano oggi i tuoi
sguardi, quali strade calpesti, quali cuori consoli? Quali carezze
ispiri, quali silenzi doni, quali gioie consenti? Quali ...
Intanto, il tempo dato passa.
Le foglie cadono dagli alberi ed il
sole sorgerà di nuovo, ma domani sarà sempre un’altra cosa.
mercoledì 18 dicembre 2024
Sono zanzare che non pungono
'… sono i ricordi del tempo che passa, che non si vedono, che non si vedranno, che non esistono, semplicemente non esistono …'

Torremuzza, i ponti della ferrovia, 24 agosto 2008
(foto di Antonjno Ciccia)
Sento ancora l’aroma del caffè che giunge dalla cucina, la schiuma sale lenta nella vecchia moka e si espande dappertutto. Allora non capivo come potesse avvenire questa magia, ora lo so, ma non posso tornare indietro ed anche potendo non vorrei. Sento ancora il tintinnio del cucchiaino che gira. Sento l’attesa prima di gustarne il sapore. Manterrà quello che promette? Dolce o amaro, non importava. Era uno sprigionarsi di sensazioni, diverse per ognuno, oggi sono solo ricordi.
La brezza marina di quel pomeriggio di luglio torna come una carezza che non scompare, che ritorna ancora una volta. Vorresti che non andasse via, ma come si fa, è solo un tenue pensiero, come tutto, come tutti.
Maledette zanzare, anche loro fanno parte di questo ricordo, eppure prima non ci facevo caso, ora invece … ma a cosa servono le zanzare? Chissà qual è il loro compito nella catena alimentare. Eppure uno scopo deve esserci. Intanto continuano a pungerti, a lasciarti quel prurito fastidioso che dura ore ed a volte, dopo un po', ritorna inesorabile. Non per tutti è così, siamo pochi i fortunati ad essere il loro cibo preferito. Anche questo è incomprensibile, perché alcuni si ed altri no? Perché io?
No, non è un pensiero vuoto, è solo un pensiero indefinibile, difficile da riportare, che non riporterò né qui né altrove. Alcuni ricordi non vanno condivisi, sono di ciascuno di noi, sono solo di ciascuno di noi. Ci appartengono più di altri, sono la nostra essenza nascosta, il nostro io indecifrabile. Sono solo nostri. Quindi non esistono, non sono.
Eppure sono lì ed ogni tanto ritornano. Sono imprigionati nella nostra memoria, vorrebbero uscire, ma noi glielo impediamo, chissà perché. Dureranno meno degli altri, perché non sono anche d’altri. E non saranno quando noi non saremo più. Forse il loro scopo è solo quello di indurci a ricordarli, anche se non ha senso farlo.
Cerchiamo di allontanarli, ma non ci riusciamo, sono loro che decidono quando arrivare, quando sopirsi, quando ritornare.
Sono zanzare che non pungono, sono il dolce aroma del caffè che non si espande, sono il cigolio del cucchiaino che non si sente, sono i ricordi del tempo che passa, che non si vedono, che non si vedranno, che non esistono, semplicemente non esistono.
'… sono i ricordi del tempo che passa, che non si vedono, che non si vedranno, che non esistono, semplicemente non esistono …'
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Torremuzza, i ponti della ferrovia, 24 agosto 2008 (foto di Antonjno Ciccia) |
Sento ancora l’aroma del caffè che giunge dalla cucina, la schiuma sale lenta nella vecchia moka e si espande dappertutto. Allora non capivo come potesse avvenire questa magia, ora lo so, ma non posso tornare indietro ed anche potendo non vorrei. Sento ancora il tintinnio del cucchiaino che gira. Sento l’attesa prima di gustarne il sapore. Manterrà quello che promette? Dolce o amaro, non importava. Era uno sprigionarsi di sensazioni, diverse per ognuno, oggi sono solo ricordi.
La brezza marina di quel pomeriggio di luglio torna come una carezza che non scompare, che ritorna ancora una volta. Vorresti che non andasse via, ma come si fa, è solo un tenue pensiero, come tutto, come tutti.
Maledette zanzare, anche loro fanno parte di questo ricordo, eppure prima non ci facevo caso, ora invece … ma a cosa servono le zanzare? Chissà qual è il loro compito nella catena alimentare. Eppure uno scopo deve esserci. Intanto continuano a pungerti, a lasciarti quel prurito fastidioso che dura ore ed a volte, dopo un po', ritorna inesorabile. Non per tutti è così, siamo pochi i fortunati ad essere il loro cibo preferito. Anche questo è incomprensibile, perché alcuni si ed altri no? Perché io?
No, non è un pensiero vuoto, è solo un pensiero indefinibile, difficile da riportare, che non riporterò né qui né altrove. Alcuni ricordi non vanno condivisi, sono di ciascuno di noi, sono solo di ciascuno di noi. Ci appartengono più di altri, sono la nostra essenza nascosta, il nostro io indecifrabile. Sono solo nostri. Quindi non esistono, non sono.
Eppure sono lì ed ogni tanto ritornano. Sono imprigionati nella nostra memoria, vorrebbero uscire, ma noi glielo impediamo, chissà perché. Dureranno meno degli altri, perché non sono anche d’altri. E non saranno quando noi non saremo più. Forse il loro scopo è solo quello di indurci a ricordarli, anche se non ha senso farlo.
Cerchiamo di allontanarli, ma non ci riusciamo, sono loro che decidono quando arrivare, quando sopirsi, quando ritornare.
Sono zanzare che non pungono, sono il dolce aroma del caffè che non si espande, sono il cigolio del cucchiaino che non si sente, sono i ricordi del tempo che passa, che non si vedono, che non si vedranno, che non esistono, semplicemente non esistono.
lunedì 4 novembre 2024
Torremuzzari, ‘nzusari, ….
I pensieri corrono dove vogliono, come sempre. Solo la stanchezza può fermali, ma è solo un attimo, poi ripartono sempre senza volere
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
La Torre vista dalla campagna. Proprio lì, sotto gli alberi, c'è la strada che porta a MaccarruniDurante l’estate era nostra abitudine andare alla Torre per fumare di nascosto una sigaretta o semplicemente per ammirare il panorama. Da lì potevamo distinguere le sagome delle isole Eolie, a sinistra la Rocca di Cefalù e dal lato opposto le case di Porta Palermo a Santo Stefano di Camastra. Oltre la curva c’era la campagna. Un chilometro più in là c’era ‘Maccarruni’. Per arrivarci dovevamo percorrere un sentiero in terra battuta. Ci andavamo per giocare o per 'allenarci'. Passeggiando o correndo per quella strada avevi la sensazione di essere immerso nel verde, tra alberi di ulivo, di limoni ed aranci. C'erano diverse coltivazioni accudite con cura. I solchi dell’acqua erano ben in vista e ben allineati per assicurare l’irrigazione continua delle piante. Raramente vedevamo i proprietari e, per rispetto, mai avevamo la tentazione di cogliere un frutto. Eri in mezzo alla natura, si direbbe oggi. Respiravamo aria pura ed incontaminata. Un intenso profumo di zagara e di agrumi ti avvolgeva, anche se, essendo un posto isolato, avevi la sensazione di essere in un mondo nuovo, misterioso. In alcuni punti si vedeva il mare, che era cinquanta metri più in basso, ma anche se non si scorgeva sapevi che c’era. Questo bastava a consolarti.Che belli questi pensieri, ti deviano per portarti altrove, ma ora è tempo di tornare al principio.
In due o tre stavamo seduti sul muretto in pietra ad ammirare il panorama. Subito sotto, quasi in verticale, vedevamo la strada statale, che curva in quel punto, in basso lo scoglio. Sembrava di starci sopra. Da lì potevamo distinguerne la forma, anzi nelle giornate di mare calmo si vedeva anche il fondale sabbioso o, com’era più spesso, pieno di pietre. Qualcuno o qualcuna aveva la cattiva abitudine di andare alla Torre in modo ‘furtivo’, cioè si nascondeva alla vista di chi stava sulla riva o in acqua. Lo scopo era quello di spiare chi andava a fare il bagno proprio lì sotto o nel tratto di mare subito oltre lo scoglio.
Cielo azzurro, mare piatto e là in fondo l'orizzonte che fa un tutt'uno con il cielo, nient'altro, ma questo bastava, e basta ancora oggi per non pensare, per dimenticarsi.
Una volta da quel punto uno di noi per gioco e per superficialità, quella tipica dei ragazzini, lanciò un sassolino per colpire un’auto che stava passando. Purtroppo per noi, il conducente si fermò. Sapevamo chi era. Non ci mise molto a capire da dove era arrivata la pietra e, conoscendo la strada, corse a velocità verso di noi. Scappammo via, ma richiamammo il nostro compagno: ‘sono cose che non si fanno’, gridammo. Quando si è giovani si è leggeri e ingenui. Quel giorno avremmo potuto fare un danno enorme al conducente, per fortuna fu solo paura e rabbia per Lui e per Noi che eravamo altrettanto sorpresi per quel gesto stupido e pericoloso.
Non solo i colori del cielo e del mare, ma anche leggerezza ed uno scorrere lento ed inconsapevole del tempo e della vita che in esso si manifesta e si dilegua. La Torre è un punto di osservazione perfetto, da lì si può vedere tutto il Borgo o quasi. La frazione è piccola, ma divisa in due dalla strada statale che un tempo non era asfaltata. Quelli che dimoravano nella parte bassa erano i 'torremuzzari', quelli che invece avevano l’abitazione nella parte alta erano i ‘nzusari’. Quando sei bambino anche piccole distanze ti sembrano enormi se non conosci i luoghi. Si sa, la consapevolezza abbatte i muri, sempre. Per noi era un altro paese, in realtà erano solo pochi metri, quelli necessari per attraversare la strada. Poi cresci e ti rendi conto che i ‘muntagnoli’ erano semplicemente coloro che raramente venivano al mare e che per questo avevano avuto qualche difficoltà ad imparare a nuotare, qualcuno di loro non ha mai imparato.
I ricordi seppur scoloriti non vanno via, restano lì in attesa di essere rivissuti ancora una volta, l'ultima.
Pochi passi ci separavano, ma le differenze sembravano tante. Noi 'torremuzzari' ci sentivamo privilegiati rispetto ai nostri coetanei ‘nzusari’. Due piazzette, un cortile, ‘a vanedra’, i ponti della ferrovia, lo stabilimento, la spiaggia, il mare, e, ogni tanto, le escursioni in campagna, nient’altro. Era il nostro piccolo mondo. Non c'erano pericoli, le macchine erano poche ed eravamo liberi di muoverci, di giocare, di bisticciare, di fantasticare. Quando si è piccoli si è innocenti e basta poco per essere felici. Ma il tempo non si può fermare, soprattutto quello delle piccole gioie.
È un attimo, solo un attimo. Poi il nulla, ecco cosa resterà, il nulla. Vorresti tornare indietro, ma non puoi, sei inchiodato al presente. Ed anche quando vorresti afferrare la realtà non puoi, è già oltre, è già passato. Rimane solo il ricordo, ma solo di chi c’era e c’è ancora. E tra poco neanche quello. Siamo memoria effimera. Solo un mucchio di pensieri a termine. Nient’altro.
I pensieri corrono dove vogliono, come sempre. Solo la stanchezza può fermali, ma è solo un attimo, poi ripartono sempre senza volere
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Che belli questi pensieri, ti deviano per portarti altrove, ma ora è tempo di tornare al principio.
In due o tre stavamo seduti sul muretto in pietra ad ammirare il panorama. Subito sotto, quasi in verticale, vedevamo la strada statale, che curva in quel punto, in basso lo scoglio. Sembrava di starci sopra. Da lì potevamo distinguerne la forma, anzi nelle giornate di mare calmo si vedeva anche il fondale sabbioso o, com’era più spesso, pieno di pietre. Qualcuno o qualcuna aveva la cattiva abitudine di andare alla Torre in modo ‘furtivo’, cioè si nascondeva alla vista di chi stava sulla riva o in acqua. Lo scopo era quello di spiare chi andava a fare il bagno proprio lì sotto o nel tratto di mare subito oltre lo scoglio.
Cielo azzurro, mare piatto e là in fondo l'orizzonte che fa un tutt'uno con il cielo, nient'altro, ma questo bastava, e basta ancora oggi per non pensare, per dimenticarsi.
La Torre è un punto di osservazione perfetto, da lì si può vedere tutto il Borgo o quasi. La frazione è piccola, ma divisa in due dalla strada statale che un tempo non era asfaltata. Quelli che dimoravano nella parte bassa erano i 'torremuzzari', quelli che invece avevano l’abitazione nella parte alta erano i ‘nzusari’. Quando sei bambino anche piccole distanze ti sembrano enormi se non conosci i luoghi. Si sa, la consapevolezza abbatte i muri, sempre. Per noi era un altro paese, in realtà erano solo pochi metri, quelli necessari per attraversare la strada. Poi cresci e ti rendi conto che i ‘muntagnoli’ erano semplicemente coloro che raramente venivano al mare e che per questo avevano avuto qualche difficoltà ad imparare a nuotare, qualcuno di loro non ha mai imparato.
I ricordi seppur scoloriti non vanno via, restano lì in attesa di essere rivissuti ancora una volta, l'ultima.
Pochi passi ci separavano, ma le differenze sembravano tante. Noi 'torremuzzari' ci sentivamo privilegiati rispetto ai nostri coetanei ‘nzusari’. Due piazzette, un cortile, ‘a vanedra’, i ponti della ferrovia, lo stabilimento, la spiaggia, il mare, e, ogni tanto, le escursioni in campagna, nient’altro. Era il nostro piccolo mondo. Non c'erano pericoli, le macchine erano poche ed eravamo liberi di muoverci, di giocare, di bisticciare, di fantasticare. Quando si è piccoli si è innocenti e basta poco per essere felici. Ma il tempo non si può fermare, soprattutto quello delle piccole gioie.
È un attimo, solo un attimo. Poi il nulla, ecco cosa resterà, il nulla. Vorresti tornare indietro, ma non puoi, sei inchiodato al presente. Ed anche quando vorresti afferrare la realtà non puoi, è già oltre, è già passato. Rimane solo il ricordo, ma solo di chi c’era e c’è ancora. E tra poco neanche quello. Siamo memoria effimera. Solo un mucchio di pensieri a termine. Nient’altro.
giovedì 5 settembre 2024
Chitarre
Ora stanno lì, senza corde, ci sono, sono nuove, ma stanno senza corde ..

Piazzetta ru tabbacchinu
Stava seduto sulla panchina a strimpellare due note ed a sussurrare un motivo ...Stavamo seduti sul marciapiede o sulle panchine. Dopo una breve 'disputa' si sceglieva una canzone. Seguendo il ritmo della chitarra si iniziava con la prima strofa, a farlo di solito era il più intonato, poi si univano gli altri. Qualcuno andava fuori tempo o cantava senza conoscere le parole, ma che importava.
Non ricordo chi, quando e come comprammo la prima chitarra, c’era. Giorni interi a suonare il re o il sol, a tentare le prime melodie. I calli alle dita facevano male, ma, si sa, non si apprende nulla senza fare qualche sacrificio. Non so cosa ci spinse ad imparare, forse era la moda di quegli anni o semplicemente era un bisogno innato di conoscenza, di condivisione, di socializzazione. Oggi non è più così, chissà perché.

Chitarre
Si rifiutava sempre di accodarla, dovevo farlo sempre io ..Un giorno la chitarra era poggiata sul tavolo d'ingresso, ma dava fastidio, fini per terra e la cassa si ruppe. Quel gesto di insofferenza mi sorprese, ma non reagì, era rispetto, oggi lo comprendo. Continuammo ad utilizzarla fino a quando non ne comprai una nuova. La portai in treno da Torino, sembrava uno strumento professionale, ma non lo era. Non mancava mai nelle feste, in spiaggia o in piazzetta. Nelle fresche serate di luglio cantavamo sottovoce per non disturbare il sonno di chi dall’altra parte della strada stava con le finestre aperte.
Era il nostro Karaoke.
Ogni occasione era buona per comprare un nuovo spartito.
Alcuni accordi erano semplici altri più complicati. Chissà perché quelli delle canzoni più note erano ‘facili’ da eseguire. Intonare, si fa per dire, i motivi più conosciuti era alla portata di tutti o quasi.
Erano le nostre estati e non solo, erano occasioni per condividere momenti imperfetti, per dimenticarsi, quando si è giovani è facile, poi capisci che è solo tempo che trascorre, che è memoria a perdere, nient’altro.
Ora stanno lì, senza corde, ci sono, sono nuove, ma stanno senza corde ..
Ora stanno lì, senza corde, ci sono, sono nuove, ma stanno senza corde ..
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Piazzetta ru tabbacchinu |
Stavamo seduti sul marciapiede o sulle panchine. Dopo una breve 'disputa' si sceglieva una canzone. Seguendo il ritmo della chitarra si iniziava con la prima strofa, a farlo di solito era il più intonato, poi si univano gli altri. Qualcuno andava fuori tempo o cantava senza conoscere le parole, ma che importava.
Non ricordo chi, quando e come comprammo la prima chitarra, c’era. Giorni interi a suonare il re o il sol, a tentare le prime melodie. I calli alle dita facevano male, ma, si sa, non si apprende nulla senza fare qualche sacrificio. Non so cosa ci spinse ad imparare, forse era la moda di quegli anni o semplicemente era un bisogno innato di conoscenza, di condivisione, di socializzazione. Oggi non è più così, chissà perché.
Chitarre |
Un giorno la chitarra era poggiata sul tavolo d'ingresso, ma dava fastidio, fini per terra e la cassa si ruppe. Quel gesto di insofferenza mi sorprese, ma non reagì, era rispetto, oggi lo comprendo. Continuammo ad utilizzarla fino a quando non ne comprai una nuova. La portai in treno da Torino, sembrava uno strumento professionale, ma non lo era. Non mancava mai nelle feste, in spiaggia o in piazzetta. Nelle fresche serate di luglio cantavamo sottovoce per non disturbare il sonno di chi dall’altra parte della strada stava con le finestre aperte.
Era il nostro Karaoke.
Ogni occasione era buona per comprare un nuovo spartito.
Alcuni accordi erano semplici altri più complicati. Chissà perché quelli delle canzoni più note erano ‘facili’ da eseguire. Intonare, si fa per dire, i motivi più conosciuti era alla portata di tutti o quasi.
Erano le nostre estati e non solo, erano occasioni per condividere momenti imperfetti, per dimenticarsi, quando si è giovani è facile, poi capisci che è solo tempo che trascorre, che è memoria a perdere, nient’altro.
Ora stanno lì, senza corde, ci sono, sono nuove, ma stanno senza corde ..
martedì 20 agosto 2024
Tesori di Sicilia: tramonti di agosto

Foto di Erina Barbera
Non solo i colori del cielo e del mare ma anche uno scorrere lento ed inconsapevole del tempo e della vita che in esso si manifesta e si dilegua
per un momento sta là, in fondo, sospeso, in attesa per diventare qualcosa
pigro ed indolente si muove verso occidente, verso l'infinito
è bianco, giallo, arancione, rosso, chissà, ma cosa importa
è un sogno che diventa realtà, è un fuoco che si accende ogni sera, eterno, sempre diverso
no, non è un'illusione, è un tramonto di agosto, è un tesoro di Sicilia
Foto di Erina Barbera |
Non solo i colori del cielo e del mare ma anche uno scorrere lento ed inconsapevole del tempo e della vita che in esso si manifesta e si dilegua
per un momento sta là, in fondo, sospeso, in attesa per diventare qualcosa
pigro ed indolente si muove verso occidente, verso l'infinito
è bianco, giallo, arancione, rosso, chissà, ma cosa importa
è un sogno che diventa realtà, è un fuoco che si accende ogni sera, eterno, sempre diverso
no, non è un'illusione, è un tramonto di agosto, è un tesoro di Sicilia
sabato 27 luglio 2024
Il campetto era in terra battuta
È lì da tempo, è sbiadito, magari è anche nella memoria di altri, di certo è un dolce ricordo e non posso non condividerlo

Il campo di calcetto dei torremuzzari - (Foto di Antonino Ciccia)
Il calcio era oggetto di discussioni infinite, tutti avevano qualcosa da dire, era condivisione per torremuzzari e ‘nzunsari. Per diversi anni abbiamo organizzato tornei di calcetto a cui partecipavano le formazioni dei paesi vicini. La caratteristica particolare era il campo in terra battuta che richiedeva tanto impegno sia per togliere le erbacce, sia per limitare la polvere che inevitabilmente si alzava giocando. In tanti partecipavano all'organizzazione, dagli operai dello stabilimento che ci fornivano l'acqua per innaffiare il campo, a coloro che erano impegnati a recuperare il pallone, a chi doveva fare l'arbitro. Quell'impegno con il tempo venne meno, ma era inevitabile.
Non c'era un pomeriggio che non facessimo una partita.
Un anno organizzammo anche il torneo femminile. La squadra del borgo era composta da giocatrici della frazione con qualche torremuzzara a tempo determinato. Qualcuna preferì non giocare, si limitò ad assistere agli allenamenti e alle partite. Erano troppo scarse? Si vergognavano o, più semplicemente, non gli piaceva il gioco del calcio?
‘Non dovete andare tutte dietro al pallone. Dovete tenere le posizioni assegnate’. Ma era fiato sprecato. Seguire la palla è un errore che non si deve fare quando si gioca a calcio. A spostarsi sul campo deve essere il pallone, i giocatori o le giocatrici non devono andarci dietro, non tutti/e almeno.
Il desiderio di giocare non è sufficiente, la buona volontà non basta.
‘Ognuno ha un ruolo e deve rispettarlo. Il calcio è un gioco collettivo’. E non è consentita la confusione, ma in certi momenti era tanta. ‘Tenete la posizione’. Niente da fare, era più forte di loro, l’istinto a seguire il pallone prevaleva sui richiami.
Spirito di volontà e sacrificio non mancavano. L’unico schema possibile era quello di riuscire a fargli tenere le posizioni, ma le indicazioni date ripetutamente spesso non venivano rispettate.
L’individualismo è ammesso, ma solo se è funzionale al gioco di squadra.
Quel pomeriggio di luglio c’era quasi tutta la frazione. Non c'erano le mamme, anche in questo caso gli era precluso un avvenimento che coinvolgeva gran parte del borgo. Fu per abitudine? Per il ruolo che gli era stato assegnato? O semplicemente perché erano impegnate nelle faccende di casa? Di certo è stata una privazione ed una mancanza nella loro e nella nostra vita di torremuzzari. Anche di questo mi sento in colpa e non so il perché.
Potevamo vincere il torneo. Le proteste del pubblico per il mancato fischio dell’arbitro a seguito di uno scontro tra due giocatrici erano giustificate. Il sangue che usciva dal naso di una di loro fece infuriare alcuni spettatori.
Perdemmo quella partita, ma quei giorni furono pieni di gioia, di vita, di felicità.
Se avessi osato di più invertendo le posizioni in campo il risultato sarebbe stato diverso? È un dubbio che coltivo ancora oggi, anche se non serve a nulla.
Ci sono momenti che determinano il senso del nostro breve ed inutile percorso, e, quel che è peggio, non possiamo tornare indietro per cambiarlo.
È lì. È rimarrà così nella memoria di chi c’è ancora, poi non sarà più nulla. Un vuoto a perdere come avveniva una volta con le bottiglie di birra non restituite, come il non detto che avresti voluto dire, come scrivere pensieri anche se non ne comprendi il perché, come il non senso di un tempo che non ti appartiene più.
È lì da tempo, è sbiadito, magari è anche nella memoria di altri, di certo è un dolce ricordo e non posso non condividerlo
Il campo di calcetto dei torremuzzari - (Foto di Antonino Ciccia) |
Il calcio era oggetto di discussioni infinite, tutti avevano qualcosa da dire, era condivisione per torremuzzari e ‘nzunsari. Per diversi anni abbiamo organizzato tornei di calcetto a cui partecipavano le formazioni dei paesi vicini. La caratteristica particolare era il campo in terra battuta che richiedeva tanto impegno sia per togliere le erbacce, sia per limitare la polvere che inevitabilmente si alzava giocando. In tanti partecipavano all'organizzazione, dagli operai dello stabilimento che ci fornivano l'acqua per innaffiare il campo, a coloro che erano impegnati a recuperare il pallone, a chi doveva fare l'arbitro. Quell'impegno con il tempo venne meno, ma era inevitabile.
Non c'era un pomeriggio che non facessimo una partita.
Un anno organizzammo anche il torneo femminile. La squadra del borgo era composta da giocatrici della frazione con qualche torremuzzara a tempo determinato. Qualcuna preferì non giocare, si limitò ad assistere agli allenamenti e alle partite. Erano troppo scarse? Si vergognavano o, più semplicemente, non gli piaceva il gioco del calcio?
‘Non dovete andare tutte dietro al pallone. Dovete tenere le posizioni assegnate’. Ma era fiato sprecato. Seguire la palla è un errore che non si deve fare quando si gioca a calcio. A spostarsi sul campo deve essere il pallone, i giocatori o le giocatrici non devono andarci dietro, non tutti/e almeno.
Il desiderio di giocare non è sufficiente, la buona volontà non basta.
‘Ognuno ha un ruolo e deve rispettarlo. Il calcio è un gioco collettivo’. E non è consentita la confusione, ma in certi momenti era tanta. ‘Tenete la posizione’. Niente da fare, era più forte di loro, l’istinto a seguire il pallone prevaleva sui richiami.
Spirito di volontà e sacrificio non mancavano. L’unico schema possibile era quello di riuscire a fargli tenere le posizioni, ma le indicazioni date ripetutamente spesso non venivano rispettate.
L’individualismo è ammesso, ma solo se è funzionale al gioco di squadra.
Quel pomeriggio di luglio c’era quasi tutta la frazione. Non c'erano le mamme, anche in questo caso gli era precluso un avvenimento che coinvolgeva gran parte del borgo. Fu per abitudine? Per il ruolo che gli era stato assegnato? O semplicemente perché erano impegnate nelle faccende di casa? Di certo è stata una privazione ed una mancanza nella loro e nella nostra vita di torremuzzari. Anche di questo mi sento in colpa e non so il perché.
Potevamo vincere il torneo. Le proteste del pubblico per il mancato fischio dell’arbitro a seguito di uno scontro tra due giocatrici erano giustificate. Il sangue che usciva dal naso di una di loro fece infuriare alcuni spettatori.
Perdemmo quella partita, ma quei giorni furono pieni di gioia, di vita, di felicità.
Se avessi osato di più invertendo le posizioni in campo il risultato sarebbe stato diverso? È un dubbio che coltivo ancora oggi, anche se non serve a nulla.
Ci sono momenti che determinano il senso del nostro breve ed inutile percorso, e, quel che è peggio, non possiamo tornare indietro per cambiarlo.
È lì. È rimarrà così nella memoria di chi c’è ancora, poi non sarà più nulla. Un vuoto a perdere come avveniva una volta con le bottiglie di birra non restituite, come il non detto che avresti voluto dire, come scrivere pensieri anche se non ne comprendi il perché, come il non senso di un tempo che non ti appartiene più.
venerdì 22 dicembre 2023
È un Natale che non avresti voluto
In tanti conteranno le bombe … le conteranno una ad una ... nella speranza di sentirne il boato e che esso sia abbastanza distante per poterlo sentire di nuovo

Il Natale, Banksy (foto da Twitter @Gaia93712891)
Ci sono momenti in cui vorresti muoverti, ma non ci riesci.Allora inizi a divagare in attesa di qualcosa che non c’è più.
Stai lì, seduto su una panca, a fissare i disegni decorativi delle mattonelle dei pavimenti di certe chiese .. o a cercare di capire il senso di quel quadro appeso lì chissà da quanto tempo …
Poi senti l’odore intenso dei fiori … allora ti ricordi perché sei lì, immobile, incapace di dire una parola, di fare un gesto, di alzare lo sguardo.
Tutto ti appare inutile, superfluo …
Rimani immerso in un tempo indefinito, nei pensieri che tornano .. le giravolte .. i balli leggeri … i sorrisi donati senza un motivo .. no, non ci saranno più .. è solo altra memoria a perdere …
Natale arriverà, ancora, ma non per tutti, ed altri domani si aggiungeranno e vivranno questi momenti scoloriti e indefinibili.
Sarà un Natale diverso.
Sarà un Natale che non avresti voluto.
Eppure, arriverà, come sempre.
E non sarà uguale per tutti.
In tanti conteranno le bombe … le conteranno una ad una ... nella speranza di sentirne il boato e che esso sia abbastanza distante per poterlo sentire di nuovo.
Altri annegheranno chissà dove e chissà perché ...
Altri lo vivranno senza un futuro …
Altri ancora fuggiranno da loro stessi … dal loro tempo senza sapere neanche il perché lo stanno vivendo.
Altri imprecheranno alle ingiustizie del mondo ...
Altri continueranno ad elemosinare un po' d’amore .. quello che non hanno mai ricevuto .. o che non hanno potuto dare ...
Altri ...
Cosa c’è da gioire?
Che diritto abbiano di gioire?
In tanti conteranno le bombe … le conteranno una ad una ... nella speranza di sentirne il boato e che esso sia abbastanza distante per poterlo sentire di nuovo
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Il Natale, Banksy (foto da Twitter @Gaia93712891) |
Allora inizi a divagare in attesa di qualcosa che non c’è più.
Stai lì, seduto su una panca, a fissare i disegni decorativi delle mattonelle dei pavimenti di certe chiese .. o a cercare di capire il senso di quel quadro appeso lì chissà da quanto tempo …
Poi senti l’odore intenso dei fiori … allora ti ricordi perché sei lì, immobile, incapace di dire una parola, di fare un gesto, di alzare lo sguardo.
Tutto ti appare inutile, superfluo …
Rimani immerso in un tempo indefinito, nei pensieri che tornano .. le giravolte .. i balli leggeri … i sorrisi donati senza un motivo .. no, non ci saranno più .. è solo altra memoria a perdere …
Natale arriverà, ancora, ma non per tutti, ed altri domani si aggiungeranno e vivranno questi momenti scoloriti e indefinibili.
Sarà un Natale diverso.
Sarà un Natale che non avresti voluto.
Eppure, arriverà, come sempre.
E non sarà uguale per tutti.
In tanti conteranno le bombe … le conteranno una ad una ... nella speranza di sentirne il boato e che esso sia abbastanza distante per poterlo sentire di nuovo.
Altri annegheranno chissà dove e chissà perché ...
Altri lo vivranno senza un futuro …
Altri ancora fuggiranno da loro stessi … dal loro tempo senza sapere neanche il perché lo stanno vivendo.
Altri imprecheranno alle ingiustizie del mondo ...
Altri continueranno ad elemosinare un po' d’amore .. quello che non hanno mai ricevuto .. o che non hanno potuto dare ...
Altri ...
Cosa c’è da gioire?
Che diritto abbiano di gioire?
sabato 2 dicembre 2023
Alexa e il nonno
Dalla tv in bianco e nero, ai telecomandi intelligenti, ai conversatori digitali, il tempo passa e poi passa ancora ed è sempre memoria a perdere

Alexa
I nuovi dispositivi di intelligenza artificiale non solo ci danno tutte le indicazioni che ci servono, ma in più chiacchierano con noi come se fossimo dei buoni amici. Facciamo domande e loro rispondono. Chiediamo informazioni e loro subito ci danno l’indicazione giusta, almeno si spera che sia quella giusta.Non hanno dubbi e se non capiscono la domanda cortesemente te lo fanno notare o comunque ti danno una risposta di carattere generale ma idonea a confutare una tua possibile obiezione che è meglio non fare.
Se sei in macchina spesso ti affidi ai loro suggerimenti.
In autostrada ti può capitare di superare i limiti di velocità, (chi non l’ho fatto almeno una volta alzi la mano) ma ora non puoi farlo più, ora c’è chi ti ricorda di non farlo. Prima era solo un bip ora c’è Alexa.
Alexa: 'rallentare, hai superato i limiti di velocità'
Conducente: 'eh?'
Alexa: 'non ho capito, specificare più chiaramente'
Conducente: 'Alexa zitta'
Alexa: 'rallentare, hai superato i limiti di velocità'
Conducente: 'Alexa ma si scimunita? Non capisci niente di guida ... non vedi che sto facendo un sorpasso?'
La voce di Alexa è suadente ma perentoria e rifiuta ogni tentativo di spiegazione: ‘così mi offendi, perché sei così rude? rallentare, hai superato i limiti di velocità’
A quel punto le opzioni che hai sono due: imprecare e mandare Alexa a quel paese oppure rallentare e rinunciare al sorpasso. La seconda ipotesi è quella giusta ma, si sa, siamo italiani, le regole valgono solo per gli altri.
Poi ci sono le auto anti-sonno, se sei alla guida di una Peugeot 208 e dimentichi di azionare la freccia per rientrare in corsia dopo un sorpasso, stai pur certo che con uno scossone l’auto ti riporta indietro sulla corsia di sorpasso, ma non capisci il perché fino a quando non hai provato almeno due volte. Solo allora ti ricordi dei dispositivi elettronici della tua auto ed azioni la freccia.
Poi ci sono gli alunni furbi, quelli con gli auricolari nascosti che chissà come riescono ad usare i cellulari e magari a dialogare con Alexa o con Siri mentre fanno il compito di italiano o di Economia aziendale.
Alunno (sottovoce): 'Alexa … anno … si scrive con l’acca o senza?'
Alexa (sottovoce): 'anno si scrive senza acca se indichi il periodo, con l’acca se intendi scrivere un verbo'
Alunno: 'si, ma come si scrive?'
Alexa impreca: 'maliritta ignoranza … ho già risposto fai un’altra domanda'
Alunno: 'dimmi una frase celebre di Dante Alighieri'
Alexa: ‘fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza’
Alunno: che hai detto Alexa? ripeti'
Alexa: ‘fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza’
Alunno: 'Alexa sei più ignorante di me, si dice conoscenza'
Alexa: ‘è proprio vero u lignu stortu non si pò addrizzare, …. e con questo passo e chiudo’
Alunno: ‘e chi se ne frega .. c’è Siri’
Alunno: ‘Siri spiegami il sistema elettorale maggiorato’
Siri: ‘maggiorato? forse intendevi dire maggioritario?’
Alunno: ‘si maggiorato o maggioritario uguale è’
Alunno: 'Siri che significa inflazione strascicante?'
Siri: ‘strascicante? forse volevi dire strisciante?’
Alunno: ‘Siri sai calcolare l’Iva?’
Siri: ‘certo, devi compilare una fattura?’
Alunno: ‘si, mi devo esercitare, domani ho compito di Economia aziendale’
Siri: ‘se ti colleghi con il sito dell’Agenzia delle Entrate puoi compilare la fattura in formato elettronico, non hai bisogno di fare calcoli, ci pensa il sistema dell’AE’
Alunno: ‘Siri, ma si scimunita come Alexa? Non sono un commercialista, non ancora, prima mi devo diplomare, … e domani devo fare il compito e la prof. non mi permette di usare il sito con la Fatturazione elettronica’
Siri: 'Ah sì? vabbè, allora studia …’
Alunno: 'e se studiavo pensi che avevo bisogno di te? Su Siri non fare come i prof. fammi questa fattura e non ne parliamo più’
Siri: ‘fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza’
Ma non ci sono solo i ragazzi alle prese con Alexa, ci sono anche gli adulti. I nonni, ad esempio, hanno pretese assurde come se Alexa potesse fare tutto.
Nonno: ‘Alessia mi po’ lavari i piatti’
Sì, perché il nonno Alexa la chiama Alessia … all’italiana va…
Alexa: 'il mio nome è Alexa'
Nonno: 'si si Alexsia, ma mi po lavari i piatti'
Alexa: ‘Mi spiace non poterti accontentare sono un’intelligenza artificiale’
Nonno: 'Alexsia metti una canzoncina per neonati'
Alexa: 'se non hai un account non ti posso scegliere un brano, però questo ti potrebbe piacere: musica di Bach … accontentati …'
Nonno (con tono alto della voce): 'Alessia stop …'
Alexa: 'forse è meglio che ti dai una calmata sei un po’ nervosetto …'
Nonno: 'Alessia ascolta ed esegui … spegniti .. spegniti … se non lo fai ti disconnetto … Alessia … Spegniti …' ma Alexa confonde il tuo comando ... e spegne la luce o la riaccende …
Com’erano belli i tempi in cui il televisore era in bianco e nero ed aveva solo due canali …
P.S. cioè … Post Scriptum …. che vuol dire … post …scritta .. scritto … insomma ci siamo capiti .. ricordo ai professori ed in particolare alla prof.ssa L. … che esiste una Chat che i ragazzi usano per fare i compiti … occhio … a ChatGPT e simili
Alunno: 'prof. possiamo usare i cellulari o il tablet per fare il compito?'
Docente furbo, ma non la professoressa L. ……: 'no ragazzi anch’io conosco chat GPT … ed il compito lo dovete fare sul foglio di carta …'
Dalla tv in bianco e nero, ai telecomandi intelligenti, ai conversatori digitali, il tempo passa e poi passa ancora ed è sempre memoria a perdere
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Alexa |
Non hanno dubbi e se non capiscono la domanda cortesemente te lo fanno notare o comunque ti danno una risposta di carattere generale ma idonea a confutare una tua possibile obiezione che è meglio non fare.
Se sei in macchina spesso ti affidi ai loro suggerimenti.
In autostrada ti può capitare di superare i limiti di velocità, (chi non l’ho fatto almeno una volta alzi la mano) ma ora non puoi farlo più, ora c’è chi ti ricorda di non farlo. Prima era solo un bip ora c’è Alexa.
Alexa: 'rallentare, hai superato i limiti di velocità'
Conducente: 'eh?'
Alexa: 'non ho capito, specificare più chiaramente'
Conducente: 'Alexa zitta'
Alexa: 'rallentare, hai superato i limiti di velocità'
Conducente: 'Alexa ma si scimunita? Non capisci niente di guida ... non vedi che sto facendo un sorpasso?'
La voce di Alexa è suadente ma perentoria e rifiuta ogni tentativo di spiegazione: ‘così mi offendi, perché sei così rude? rallentare, hai superato i limiti di velocità’
A quel punto le opzioni che hai sono due: imprecare e mandare Alexa a quel paese oppure rallentare e rinunciare al sorpasso. La seconda ipotesi è quella giusta ma, si sa, siamo italiani, le regole valgono solo per gli altri.
Poi ci sono le auto anti-sonno, se sei alla guida di una Peugeot 208 e dimentichi di azionare la freccia per rientrare in corsia dopo un sorpasso, stai pur certo che con uno scossone l’auto ti riporta indietro sulla corsia di sorpasso, ma non capisci il perché fino a quando non hai provato almeno due volte. Solo allora ti ricordi dei dispositivi elettronici della tua auto ed azioni la freccia.
Poi ci sono gli alunni furbi, quelli con gli auricolari nascosti che chissà come riescono ad usare i cellulari e magari a dialogare con Alexa o con Siri mentre fanno il compito di italiano o di Economia aziendale.
Alunno (sottovoce): 'Alexa … anno … si scrive con l’acca o senza?'
Alexa (sottovoce): 'anno si scrive senza acca se indichi il periodo, con l’acca se intendi scrivere un verbo'
Alunno: 'si, ma come si scrive?'
Alexa impreca: 'maliritta ignoranza … ho già risposto fai un’altra domanda'
Alunno: 'dimmi una frase celebre di Dante Alighieri'
Alexa: ‘fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza’
Alunno: che hai detto Alexa? ripeti'
Alexa: ‘fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza’
Alunno: 'Alexa sei più ignorante di me, si dice conoscenza'
Alexa: ‘è proprio vero u lignu stortu non si pò addrizzare, …. e con questo passo e chiudo’
Alunno: ‘e chi se ne frega .. c’è Siri’
Alunno: ‘Siri spiegami il sistema elettorale maggiorato’
Siri: ‘maggiorato? forse intendevi dire maggioritario?’
Alunno: ‘si maggiorato o maggioritario uguale è’
Alunno: 'Siri che significa inflazione strascicante?'
Siri: ‘strascicante? forse volevi dire strisciante?’
Alunno: ‘Siri sai calcolare l’Iva?’
Siri: ‘certo, devi compilare una fattura?’
Alunno: ‘si, mi devo esercitare, domani ho compito di Economia aziendale’
Siri: ‘se ti colleghi con il sito dell’Agenzia delle Entrate puoi compilare la fattura in formato elettronico, non hai bisogno di fare calcoli, ci pensa il sistema dell’AE’
Alunno: ‘Siri, ma si scimunita come Alexa? Non sono un commercialista, non ancora, prima mi devo diplomare, … e domani devo fare il compito e la prof. non mi permette di usare il sito con la Fatturazione elettronica’
Siri: 'Ah sì? vabbè, allora studia …’
Alunno: 'e se studiavo pensi che avevo bisogno di te? Su Siri non fare come i prof. fammi questa fattura e non ne parliamo più’
Siri: ‘fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza’
Ma non ci sono solo i ragazzi alle prese con Alexa, ci sono anche gli adulti. I nonni, ad esempio, hanno pretese assurde come se Alexa potesse fare tutto.
Nonno: ‘Alessia mi po’ lavari i piatti’
Sì, perché il nonno Alexa la chiama Alessia … all’italiana va…
Alexa: 'il mio nome è Alexa'
Nonno: 'si si Alexsia, ma mi po lavari i piatti'
Alexa: ‘Mi spiace non poterti accontentare sono un’intelligenza artificiale’
Nonno: 'Alexsia metti una canzoncina per neonati'
Alexa: 'se non hai un account non ti posso scegliere un brano, però questo ti potrebbe piacere: musica di Bach … accontentati …'
Nonno (con tono alto della voce): 'Alessia stop …'
Alexa: 'forse è meglio che ti dai una calmata sei un po’ nervosetto …'
Nonno: 'Alessia ascolta ed esegui … spegniti .. spegniti … se non lo fai ti disconnetto … Alessia … Spegniti …' ma Alexa confonde il tuo comando ... e spegne la luce o la riaccende …
Com’erano belli i tempi in cui il televisore era in bianco e nero ed aveva solo due canali …
P.S. cioè … Post Scriptum …. che vuol dire … post …scritta .. scritto … insomma ci siamo capiti .. ricordo ai professori ed in particolare alla prof.ssa L. … che esiste una Chat che i ragazzi usano per fare i compiti … occhio … a ChatGPT e simili
Alunno: 'prof. possiamo usare i cellulari o il tablet per fare il compito?'
Docente furbo, ma non la professoressa L. ……: 'no ragazzi anch’io conosco chat GPT … ed il compito lo dovete fare sul foglio di carta …'
mercoledì 29 novembre 2023
Alexa e la tv in bianco e nero
Dalla tv in bianco e nero, ai telecomandi intelligenti, ai conversatori digitali, il tempo passa e poi passa ancora ed è sempre memoria a perdere
Una volta per accendere e spegnere la tv o per cambiare canale era necessario alzarsi, avvicinarsi al televisore e girare la manopola o schiacciare un tasto. … Non era difficile, c'era solo Raiuno, …. solo dopo arrivarono Raidue e Raitre. Non c’era nient’altro.Il più piccolo di casa o un volontario, allora le famiglie erano particolarmente numerose, doveva alzarsi per cambiare canale, ma non quello che desiderava Lui, no a decidere erano i genitori o il fratello maggiore.
Tutto era in bianco e nero come le fotografie di una volta.
E Com’erunu betri quei film che la Rai trasmetteva di mattina in occasione della Fiera del Mediterraneo, sì perché anche in Sicilia si facevano le Fiere internazionali …
In quei giorni di primavera …. non andavamo a scuola, no, … si ‘caliava’.
Si professori e cari genitori … si caliava …non si andava a scuola .. com’era bello … Ora invece se ti assenti un giorno ti arrivano messaggi ..mail… telefonate … e richiami da tutte le parti … dal coordinatore .. al Vice .. alla Preside che ti chiedono spiegazioni e giustificazioni … insomma non puoi più caliari in santa pace … che …
che c’era di male se per un giorno .. due o forse tre… ci si alzava un po’ più tardi del solito, appena in tempo per accendere la televisione, quella con il tubo catodico e con uno schermo piccolo, … accostavi le ante delle finestre o della porta d’ingresso per non fare entrare la luce del giorno .. infine, ti immergevi nei capolavori del cinema italiano e non solo … Roma città aperta … i film di Stanlio e Ollio … di Charlie Chaplin .. i film western … di Totò …
Ah.. com’era bello .. mannaggia mannaggia .. in Sicilia le cose belle durano sempre poco, chissà perché …
Negli anni Ottanta arrivarono la tv a colori …. quella commerciale …. quella satellitare con centinaia di canali.
Ma a chi servunu tutti sti canali? Ma cu i varda? .. Cu i capisci i telegiornali arabi o afgani? Già è difficile l’inglese figurati il mongolo o il turco …
Ora c’è pure il telecomando … non è più necessario alzarsi.
Rimane la disputa su chi deve decidere su quale trasmissione sintonizzarsi.
I tempi cambiano, si sa, adesso non è più il capo famiglia a ‘comandare’ … no, ora sono il figlio o il nipote … insomma i più piccoli …
La mamma: ‘Gioia cosa vuoi vedere? … mettiamo il telegiornale? ..
Il/la figlio/a: ‘che dici mamma … ci sono i gol … c’è Masterchef … X Factor'
La mamma: ‘Gioiuzza mia vediamoci … Beautiful … sono sicura che ti piace e ti aiuta a crescere …’
Il marito: ‘ma quanti anni sono che trasmettono sto Beautiful? È come l’Odissea di Omero o la Divina commedia, non finisce mai … è perpetuo .. ma quantu voti si pigghianu e si lassunu .. Rici e Megan … ’
Poi ad alta voce avvicinando il telecomando alla bocca:
‘Canale tre … canale trentotto .. canale quarantotto … canale 846 …’ sì perché ora ci sono i telecomandi con il tasto vocale oppure lo chiedi ad Alexa. La MITICA ALEXA (imitando la voce di Fracchia e guardando verso l’infinito).
Alexa: buona sera sono Alexa. Buona sera, sono Alexa. Buona sera, sono Alexa.
Narratore: basta abbiamo capito, sei Alexa.
Alexa: perchè sei così scontroso, buonasera sono Alexa.
Narratore: Buonasera Alexa.
Per un certo periodo di tempo abbiamo usato il Tom Tom, rilevatori dei percorsi stradali che con una voce chiara ma perentoria ci indicavano la strada: ‘tra 200 metri svoltare a sinistra, poi a destra, poi ancora a sinistra’ … Ma chi riesce a calcolare 200 metri mentre si è alla guida? O capire esattamente la traversa su cui svoltare? Se poi alla guida c’è la prof.ssa L. …. hai tempu di svoltare a destra o a sinistra .. ‘è tutto tempo persu’. Ma niente di preoccupante se per caso saltavi la traversa suggerita il Tom Tom resettava tutto e con pazienza ti indicava le nuove coordinate: ‘ricalcolo, tra 50 metri svoltare a sinistra e poi a destra…poi ancora a sinistra, ricalcolo ...’.
Prima curtigghiavi con i cani ed i gatti … ora con il conversatore digitale o, quel che è peggio, con entrambi. Ti rivolgi al gatto e ti risponde Alexa, dai un comando ad Alexa ed il cane comincia ad abbaiare ….
E se per caso chiami il cane a cui hai dato il nome di Obama .. o Giulio Cesare… Alexa prontamente risponde: ex presidente degli Usa … imperatore romano … se dici gattino … Alexa …. si mette a miagolare …
Se poi per tua sfortuna hai un pappagallo che ripete a casaccio le parole che hai pronunciato durante la giornata sono guai perché Alexa esegue: accendi .. spegni .. accendi .. spegni … quel prof è .. . ancora sta minestra … ma va a ... stasera vai a letto senza cena …
Continua ….
Dalla tv in bianco e nero, ai telecomandi intelligenti, ai conversatori digitali, il tempo passa e poi passa ancora ed è sempre memoria a perdere
Il più piccolo di casa o un volontario, allora le famiglie erano particolarmente numerose, doveva alzarsi per cambiare canale, ma non quello che desiderava Lui, no a decidere erano i genitori o il fratello maggiore.
Tutto era in bianco e nero come le fotografie di una volta.
E Com’erunu betri quei film che la Rai trasmetteva di mattina in occasione della Fiera del Mediterraneo, sì perché anche in Sicilia si facevano le Fiere internazionali …
In quei giorni di primavera …. non andavamo a scuola, no, … si ‘caliava’.
Si professori e cari genitori … si caliava …non si andava a scuola .. com’era bello … Ora invece se ti assenti un giorno ti arrivano messaggi ..mail… telefonate … e richiami da tutte le parti … dal coordinatore .. al Vice .. alla Preside che ti chiedono spiegazioni e giustificazioni … insomma non puoi più caliari in santa pace … che …
che c’era di male se per un giorno .. due o forse tre… ci si alzava un po’ più tardi del solito, appena in tempo per accendere la televisione, quella con il tubo catodico e con uno schermo piccolo, … accostavi le ante delle finestre o della porta d’ingresso per non fare entrare la luce del giorno .. infine, ti immergevi nei capolavori del cinema italiano e non solo … Roma città aperta … i film di Stanlio e Ollio … di Charlie Chaplin .. i film western … di Totò …
Ah.. com’era bello .. mannaggia mannaggia .. in Sicilia le cose belle durano sempre poco, chissà perché …
Negli anni Ottanta arrivarono la tv a colori …. quella commerciale …. quella satellitare con centinaia di canali.
Ma a chi servunu tutti sti canali? Ma cu i varda? .. Cu i capisci i telegiornali arabi o afgani? Già è difficile l’inglese figurati il mongolo o il turco …
Ora c’è pure il telecomando … non è più necessario alzarsi.
Rimane la disputa su chi deve decidere su quale trasmissione sintonizzarsi.
I tempi cambiano, si sa, adesso non è più il capo famiglia a ‘comandare’ … no, ora sono il figlio o il nipote … insomma i più piccoli …
La mamma: ‘Gioia cosa vuoi vedere? … mettiamo il telegiornale? ..
Il/la figlio/a: ‘che dici mamma … ci sono i gol … c’è Masterchef … X Factor'
La mamma: ‘Gioiuzza mia vediamoci … Beautiful … sono sicura che ti piace e ti aiuta a crescere …’
Il marito: ‘ma quanti anni sono che trasmettono sto Beautiful? È come l’Odissea di Omero o la Divina commedia, non finisce mai … è perpetuo .. ma quantu voti si pigghianu e si lassunu .. Rici e Megan … ’
Poi ad alta voce avvicinando il telecomando alla bocca:
‘Canale tre … canale trentotto .. canale quarantotto … canale 846 …’ sì perché ora ci sono i telecomandi con il tasto vocale oppure lo chiedi ad Alexa. La MITICA ALEXA (imitando la voce di Fracchia e guardando verso l’infinito).
Alexa: buona sera sono Alexa. Buona sera, sono Alexa. Buona sera, sono Alexa.
Narratore: basta abbiamo capito, sei Alexa.
Alexa: perchè sei così scontroso, buonasera sono Alexa.
Narratore: Buonasera Alexa.
Per un certo periodo di tempo abbiamo usato il Tom Tom, rilevatori dei percorsi stradali che con una voce chiara ma perentoria ci indicavano la strada: ‘tra 200 metri svoltare a sinistra, poi a destra, poi ancora a sinistra’ … Ma chi riesce a calcolare 200 metri mentre si è alla guida? O capire esattamente la traversa su cui svoltare? Se poi alla guida c’è la prof.ssa L. …. hai tempu di svoltare a destra o a sinistra .. ‘è tutto tempo persu’. Ma niente di preoccupante se per caso saltavi la traversa suggerita il Tom Tom resettava tutto e con pazienza ti indicava le nuove coordinate: ‘ricalcolo, tra 50 metri svoltare a sinistra e poi a destra…poi ancora a sinistra, ricalcolo ...’.
Prima curtigghiavi con i cani ed i gatti … ora con il conversatore digitale o, quel che è peggio, con entrambi. Ti rivolgi al gatto e ti risponde Alexa, dai un comando ad Alexa ed il cane comincia ad abbaiare ….
E se per caso chiami il cane a cui hai dato il nome di Obama .. o Giulio Cesare… Alexa prontamente risponde: ex presidente degli Usa … imperatore romano … se dici gattino … Alexa …. si mette a miagolare …
Se poi per tua sfortuna hai un pappagallo che ripete a casaccio le parole che hai pronunciato durante la giornata sono guai perché Alexa esegue: accendi .. spegni .. accendi .. spegni … quel prof è .. . ancora sta minestra … ma va a ... stasera vai a letto senza cena …
Continua ….
giovedì 7 settembre 2023
Era rossa, piccola, era la Fiat 126 ...
Faceva pochi passi e scoppiava a ridere, e noi dietro a Lui. Una risatina stridula, contagiosa. Altri tre passi e rideva di nuovo e noi di nuovo appresso a Lui. Era ubriaco? Brillo? Fingeva? Che importava .....

Torremuzza (Sicilia) - (Foto di Antonino Ciccia)
Sembrava grande, ma era una minicar, come diremmo oggi. Era rossa, piccola, era la Fiat 126, che tristezza averla rottamata per la Fiat Panda anch’essa rossa, anch’essa piccola, anch’essa rottamata.
In settembre non mancava mai alla processione ra Maronna che si svolge ancora oggi ad inizio settembre a Santo Stefano di Camastra. Prima ci andava a passaggi, poi usò il motorino, il Garelli. È stato l’unico mezzo di locomozione che ha guidato.
Andavamo u Paisi per prendere le lezioni per la patente con quel motorino ed un altro: il Ciao. Imparammo con una certa rapidità al punto che il nostro istruttore ridusse le ore di lezione, ovviamente ne pretese ugualmente il pagamento. Anche l’esaminatore rimase sorpreso dalla nostra abilità.
L’errore ed i pericoli sono dietro l’angolo.
All’altezza di una curva la macchina sbandò, la strada era bagnata, avevamo appena incrociato un rimorchio. Il paraurti posteriore della Fiat 126 ci protesse e tutto finì con pochi danni.
Mettemmo presto un’autoradio con le musicassette. Era un Pioneer. Allora non erano di serie. Ed erano costose. Ed erano oggetto di furto. Quando si scendeva dall’auto era consuetudine staccarla e portarsela dietro.
Vasco Rossi, Simon e Garfunkel, Joan Baez, Bob Dylan e tanti altri a tutto volume e via, ma questo non significò che potevamo prendere l'auto per andare a divertirci. No, l'auto serviva per la famiglia.
Spesso di notte aprivamo il cancello in silenzio e di nascosto, si di nascosto, la spingevamo sulla strada a motore spento per andare a Villa Margi.
Fu tutto inutile mia nonna se ne accorse subito e ci richiamò.
A volte andavamo a piedi dal 'Farmacista' per mangiare la pizza o per fare un ‘giro di birra’.
Quest’ultima fu un’abitudine che durò poco. Era un modo per stare insieme.
Non tutti erano provetti giocatori du patruni e sutta. Si distribuivano le carte e ad ogni mano c’era un ‘patruni’ che aveva a disposizione una bottiglia di birra Dreher o di birra Messina ed invitava a bere, nella quantità che stabiliva Lui, uno dei giocatori che non poteva rifiutarsi e un ‘sutta’ che doveva avvallare l’indicazione. In caso contrario doveva bere ‘u padruni’, ma poteva farlo anche di sua iniziativa e lo faceva pi accucchiari a tutti e per dimostrare che era un gran bevitore.
Dopo diversi giri c’era chi rimaneva asciuttu, ma c’era cu si mmirachiava.
Qualcuno faceva finta di bere ed al momento giusto versava la birra sul vaso della pianta che aveva accanto. Del resto, aveva scelto quel posto proprio per quello, ma lo capimmo dopo.
Al ritorno inevitabilmente non mancava chi era brillo o ubriaco, ma non c’era pericolo, eravamo a piedi e si smaltiva quasi subito. L’aria fresca e la camminata erano un rimedio naturale molto efficace.
Faceva pochi passi e scoppiava a ridere, e noi dietro a Lui. Una risatina stridula, contagiosa. Altri tre passi e rideva di nuovo e noi di nuovo appresso a Lui. Era ubriaco? Brillo? Fingeva? Che importava, era spensieratezza ed un attimo dopo era già memoria, ma questo lo comprendi dopo, quando ti rendi conto che non puoi più tornare indietro.
Sti cosi strani le faceva sempre un nostro compagno: u L.
La bici su cui siamo saliti per la prima volta era la sua, ovviamente cademmo più volte nel tratto di strada che c'è tra la Chiesa e la Torre, ma presto imparammo a stare in equilibrio. Poi disponemmo di una Graziella che utilizzò anche un nostro cugino.
Una sera, tornando da un Patruni e sutta fu Lui, sempre u L., a salire sulla montagna di pietre e brecciolino che c’era accanto alla strada appena fuori da Villa Margi. Furono in pochi a seguirlo.
Un pomeriggio di luglio andammo in escursione lungo la spiaggia. Non lo facevamo spesso, quella volta eravamo in tre o quattro. Giunti dopo Maccarruni all’altezza del casello della ferrovia vedemmo delle angurie mature. Il nostro compagno, sempre u stissu, ne prese una, ma il padrone se ne accorse e scappammo di corsa, ovviamente il ‘ladro’ butto l’anguria che si ridusse in pezzi.
Quel signore era lo stesso a cui in un’altra occasione uno di noi tirò una pietruzza dalla Torre mentre passava con la sua macchina e che, avendo capito da dove era partito il sassolino, riparti a razzo per venirci a rimproverare. Anche quella volta scappammo a gambe levate.
Non eravamo cattivi, ma a volte qualcuno di noi esagerava, non so spiegarmi il perché.
Del resto non avevamo altro che la nostra fantasia ... il mare ... la piazzetta ...lo spiazzale della scuola elementare ... Sant’Antonino ... il Super Santos bucato e poco altro.
Faceva pochi passi e scoppiava a ridere, e noi dietro a Lui. Una risatina stridula, contagiosa. Altri tre passi e rideva di nuovo e noi di nuovo appresso a Lui. Era ubriaco? Brillo? Fingeva? Che importava .....
Torremuzza (Sicilia) - (Foto di Antonino Ciccia) |
Sembrava grande, ma era una minicar, come diremmo oggi. Era rossa, piccola, era la Fiat 126, che tristezza averla rottamata per la Fiat Panda anch’essa rossa, anch’essa piccola, anch’essa rottamata.
In settembre non mancava mai alla processione ra Maronna che si svolge ancora oggi ad inizio settembre a Santo Stefano di Camastra. Prima ci andava a passaggi, poi usò il motorino, il Garelli. È stato l’unico mezzo di locomozione che ha guidato.
Andavamo u Paisi per prendere le lezioni per la patente con quel motorino ed un altro: il Ciao. Imparammo con una certa rapidità al punto che il nostro istruttore ridusse le ore di lezione, ovviamente ne pretese ugualmente il pagamento. Anche l’esaminatore rimase sorpreso dalla nostra abilità.
L’errore ed i pericoli sono dietro l’angolo.
All’altezza di una curva la macchina sbandò, la strada era bagnata, avevamo appena incrociato un rimorchio. Il paraurti posteriore della Fiat 126 ci protesse e tutto finì con pochi danni.
Mettemmo presto un’autoradio con le musicassette. Era un Pioneer. Allora non erano di serie. Ed erano costose. Ed erano oggetto di furto. Quando si scendeva dall’auto era consuetudine staccarla e portarsela dietro.
Vasco Rossi, Simon e Garfunkel, Joan Baez, Bob Dylan e tanti altri a tutto volume e via, ma questo non significò che potevamo prendere l'auto per andare a divertirci. No, l'auto serviva per la famiglia.
Spesso di notte aprivamo il cancello in silenzio e di nascosto, si di nascosto, la spingevamo sulla strada a motore spento per andare a Villa Margi.
Fu tutto inutile mia nonna se ne accorse subito e ci richiamò.
A volte andavamo a piedi dal 'Farmacista' per mangiare la pizza o per fare un ‘giro di birra’.
Quest’ultima fu un’abitudine che durò poco. Era un modo per stare insieme.
Non tutti erano provetti giocatori du patruni e sutta. Si distribuivano le carte e ad ogni mano c’era un ‘patruni’ che aveva a disposizione una bottiglia di birra Dreher o di birra Messina ed invitava a bere, nella quantità che stabiliva Lui, uno dei giocatori che non poteva rifiutarsi e un ‘sutta’ che doveva avvallare l’indicazione. In caso contrario doveva bere ‘u padruni’, ma poteva farlo anche di sua iniziativa e lo faceva pi accucchiari a tutti e per dimostrare che era un gran bevitore.
Dopo diversi giri c’era chi rimaneva asciuttu, ma c’era cu si mmirachiava.
Qualcuno faceva finta di bere ed al momento giusto versava la birra sul vaso della pianta che aveva accanto. Del resto, aveva scelto quel posto proprio per quello, ma lo capimmo dopo.
Al ritorno inevitabilmente non mancava chi era brillo o ubriaco, ma non c’era pericolo, eravamo a piedi e si smaltiva quasi subito. L’aria fresca e la camminata erano un rimedio naturale molto efficace.
Faceva pochi passi e scoppiava a ridere, e noi dietro a Lui. Una risatina stridula, contagiosa. Altri tre passi e rideva di nuovo e noi di nuovo appresso a Lui. Era ubriaco? Brillo? Fingeva? Che importava, era spensieratezza ed un attimo dopo era già memoria, ma questo lo comprendi dopo, quando ti rendi conto che non puoi più tornare indietro.
Sti cosi strani le faceva sempre un nostro compagno: u L.
La bici su cui siamo saliti per la prima volta era la sua, ovviamente cademmo più volte nel tratto di strada che c'è tra la Chiesa e la Torre, ma presto imparammo a stare in equilibrio. Poi disponemmo di una Graziella che utilizzò anche un nostro cugino.
Una sera, tornando da un Patruni e sutta fu Lui, sempre u L., a salire sulla montagna di pietre e brecciolino che c’era accanto alla strada appena fuori da Villa Margi. Furono in pochi a seguirlo.
Un pomeriggio di luglio andammo in escursione lungo la spiaggia. Non lo facevamo spesso, quella volta eravamo in tre o quattro. Giunti dopo Maccarruni all’altezza del casello della ferrovia vedemmo delle angurie mature. Il nostro compagno, sempre u stissu, ne prese una, ma il padrone se ne accorse e scappammo di corsa, ovviamente il ‘ladro’ butto l’anguria che si ridusse in pezzi.
Quel signore era lo stesso a cui in un’altra occasione uno di noi tirò una pietruzza dalla Torre mentre passava con la sua macchina e che, avendo capito da dove era partito il sassolino, riparti a razzo per venirci a rimproverare. Anche quella volta scappammo a gambe levate.
Non eravamo cattivi, ma a volte qualcuno di noi esagerava, non so spiegarmi il perché.
Del resto non avevamo altro che la nostra fantasia ... il mare ... la piazzetta ...lo spiazzale della scuola elementare ... Sant’Antonino ... il Super Santos bucato e poco altro.
giovedì 10 agosto 2023
È un tempo che non ci appartiene
Tentiamo di dare un senso al tempo che trascorre, e lo facciamo sempre, ma è tutto inutile, non possiamo decidere ne come ne cosa, lo subiamo soltanto, senza poter fare nulla

Torremuzza (Sicilia), 4 agosto 2023 (foto di Pippo Russo)
I giorni trascorrono lenti, ma non hanno più lo stesso colore. È un tempo che non ci appartiene. Siamo degli estranei. Manca la leggerezza. Manca quel fare o quel non fare senza chiederti il perché. Manca il decidere al momento senza programmare, senza pensare.I luoghi sono gli stessi, ma noi siamo fuori dal tempo, siamo altro.
È solo un accumulo di memoria a perdere.
Un giorno di luglio di tanti anni fa mio padre ci porto a Maccarruni. Nella parte alta della strada statale c’era u stazuni, lì imparammo a fare i tivuli. Quell’attività ci abituò al sacrificio e ci fece capire che potevamo fare tutto o quasi con un po' d’impegno e buona volontà, che a dire il vero non è mai mancata.
Quel mattino, invece, imboccammo un viottolo in terra battuta che portava nella parte bassa. Passammo sotto il ponte della ferrovia e giungemmo in riva al mare. Ovviamente non c’era nessuno. Fu lì che imparammo a nuotare o qualcosa di simile. Riuscivamo a stare a galla muovendo avanti e indietro mani e piedi. Fu l’inizio, poi, nelle settimane successive prendemmo coraggio.
Una volta rischiai di annegare.
Un giorno di luglio mia zia M. ci porto al mare. Anche se si toccava andai sott’acqua, ma non riuscivo più a riemergere. Tentai più volte ma non ci riuscivo. Un po' come succede nei sogni, provi a muoverti, ma non ci riesci. Stavo bevendo acqua salata, fu mia zia a tirarmi fuori. Lei era l’unica delle tre sorelle che ci portava al mare. Le altre due non hanno mai conosciuto il piacere di ‘fare il bagno’.
Che tristezza.
Di solito le nostre mamme andavano in spiaggia nel tardo pomeriggio o di prima mattina quando non c’era nessuno e lo facevano solo per bagnarsi i piedi, ma sempre con i vestiti addosso. Allora era così ed era considerato ‘normale’.
Il pudore ed il rispetto per la propria dignità prevalevano sui desideri.
Donne che hanno vissuto a ‘pochi’ metri dal mare; eppure, non sapevano nuotare e non hanno mai fatto un bagno. Come deve essere stato difficile per loro rinunciare ad uno dei pochi piaceri a cui potevano accedere gratuitamente. Il mare era lì, ma non potevano, non potevano. Non so perché, ma mi sento responsabile di tutte le privazioni che hanno dovuto sopportare per crescere i figli e per tenere unite le loro famiglie.
Nuotare è naturale, ma occorre non aver paura dell’acqua, non bisogna temere di andare a fondo anche se il rispetto del mare non deve venire meno, mai.
Nei mesi estivi scendere in spiaggia e fare subito un tuffo era una prassi quotidiana per noi torremuzzari, un po' meno pi nzusari. Per non sentire il freddo del primo impatto entravamo in acqua quasi di corsa o lo facevamo lentamente facendo un passo dopo l’altro fin dove si toccava e infine ci immergevamo. Ed era allora che entravi in simbiosi con l’acqua, era un leggero ondeggiare senza pensieri, senza timore.
Eri a pochi metri dalla riva, ma da lì potevi osservare tutta la borgata. La spiaggia, la ferrovia, la strada, lo stabilimento di sansa e la campagna oltre le case. A volte passava un treno e pensavi all’invidia che dovevano provare coloro che erano costretti a viaggiare in quelle bellissime giornate di luglio. I rumori e le voci giungevano quasi incomprensibili e non potevi non chiederti se sotto i ponti o là in alto sulla Torre ci fosse qualcuno che sbirciava. Il rintocco cadenzato delle campane ci indicava che era già mezzogiorno e che era ora di uscire dall’acqua, ma dovevi fare attenzione per evitare di perdere l’equilibrio sulle pietre lippose.
E com’era bello prendere il sole stando seduti sul brecciolino a pochi centimetri dall’acqua, quel tanto che bastava per evitare le onde più lunghe oppure tenendo i piedi immersi sulla battigia. Ed è in quei momenti che rimani stordito dall’immensità del mare e dal continuo ed incomprensibile movimento delle onde. L’acqua a volte sembra ritirarsi, altre ti arriva vicino e sei costretto a fare un balzo all’indietro o a bagnarti di nuovo senza volere.
Nelle giornate di maestrale solo i più temerari provavano a fare un tuffo, ma com’era bello farsi avvolgere dal vento e dalle goccioline di acqua salata. E com’era bello rimanere frastornati dal fragore delle onde che inevitabilmente si infrangevano sulla sabbia e sulle pietre emerse momentaneamente per il risucchio e che ti costringevano a tirarti indietro quando un cavallone più alto portava l’acqua a sfiorarti. Oppure ti lasciavi bagnare i piedi dalla schiuma d’acqua e sale che ti veniva incontro minacciosa, ma non avevamo paura sapevamo che era innocua.
E com’è stato bello quel giorno d’inverno fare una lezione guardando il litorale. Chissà se S. e L. lo ricordano. Il mare era agitato, lo vedevamo bene dalle finestre della nostra classe. La professoressa M. mi stava interrogando, ma si accorse delle mie difficoltà e volle aiutarmi chiedendomi come mi piaceva il mare. Risposi che è bello quando è agitato o quando è completamente piatto, che non mi piacevano le vie di mezzo. L’insegnante apprezzò la mia risposta e di certo mi valutò più del dovuto anche per quell’osservazione.
Chissà perché questi pensieri e non altri ricompaiono sempre. È il mare che li fa tornare? Sono le giornate di luglio? Ma che importa, di certo non possiamo tornare indietro e non possiamo cancellare il passato.
Siamo prigionieri.
Tentiamo di dare un senso al tempo che trascorre, e lo facciamo sempre, ma è tutto inutile, non possiamo decidere ne come ne cosa, lo subiamo soltanto, senza poter fare nulla.
E' un tempo che non ci appartiene.
Tentiamo di dare un senso al tempo che trascorre, e lo facciamo sempre, ma è tutto inutile, non possiamo decidere ne come ne cosa, lo subiamo soltanto, senza poter fare nulla
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Torremuzza (Sicilia), 4 agosto 2023 (foto di Pippo Russo) |
I giorni trascorrono lenti, ma non hanno più lo stesso colore. È un tempo che non ci appartiene. Siamo degli estranei. Manca la leggerezza. Manca quel fare o quel non fare senza chiederti il perché. Manca il decidere al momento senza programmare, senza pensare.
I luoghi sono gli stessi, ma noi siamo fuori dal tempo, siamo altro.
È solo un accumulo di memoria a perdere.
Un giorno di luglio di tanti anni fa mio padre ci porto a Maccarruni. Nella parte alta della strada statale c’era u stazuni, lì imparammo a fare i tivuli. Quell’attività ci abituò al sacrificio e ci fece capire che potevamo fare tutto o quasi con un po' d’impegno e buona volontà, che a dire il vero non è mai mancata.
Quel mattino, invece, imboccammo un viottolo in terra battuta che portava nella parte bassa. Passammo sotto il ponte della ferrovia e giungemmo in riva al mare. Ovviamente non c’era nessuno. Fu lì che imparammo a nuotare o qualcosa di simile. Riuscivamo a stare a galla muovendo avanti e indietro mani e piedi. Fu l’inizio, poi, nelle settimane successive prendemmo coraggio.
Una volta rischiai di annegare.
Un giorno di luglio mia zia M. ci porto al mare. Anche se si toccava andai sott’acqua, ma non riuscivo più a riemergere. Tentai più volte ma non ci riuscivo. Un po' come succede nei sogni, provi a muoverti, ma non ci riesci. Stavo bevendo acqua salata, fu mia zia a tirarmi fuori. Lei era l’unica delle tre sorelle che ci portava al mare. Le altre due non hanno mai conosciuto il piacere di ‘fare il bagno’.
Che tristezza.
Di solito le nostre mamme andavano in spiaggia nel tardo pomeriggio o di prima mattina quando non c’era nessuno e lo facevano solo per bagnarsi i piedi, ma sempre con i vestiti addosso. Allora era così ed era considerato ‘normale’.
Il pudore ed il rispetto per la propria dignità prevalevano sui desideri.
Donne che hanno vissuto a ‘pochi’ metri dal mare; eppure, non sapevano nuotare e non hanno mai fatto un bagno. Come deve essere stato difficile per loro rinunciare ad uno dei pochi piaceri a cui potevano accedere gratuitamente. Il mare era lì, ma non potevano, non potevano. Non so perché, ma mi sento responsabile di tutte le privazioni che hanno dovuto sopportare per crescere i figli e per tenere unite le loro famiglie.
Nuotare è naturale, ma occorre non aver paura dell’acqua, non bisogna temere di andare a fondo anche se il rispetto del mare non deve venire meno, mai.
Nei mesi estivi scendere in spiaggia e fare subito un tuffo era una prassi quotidiana per noi torremuzzari, un po' meno pi nzusari. Per non sentire il freddo del primo impatto entravamo in acqua quasi di corsa o lo facevamo lentamente facendo un passo dopo l’altro fin dove si toccava e infine ci immergevamo. Ed era allora che entravi in simbiosi con l’acqua, era un leggero ondeggiare senza pensieri, senza timore.
Eri a pochi metri dalla riva, ma da lì potevi osservare tutta la borgata. La spiaggia, la ferrovia, la strada, lo stabilimento di sansa e la campagna oltre le case. A volte passava un treno e pensavi all’invidia che dovevano provare coloro che erano costretti a viaggiare in quelle bellissime giornate di luglio. I rumori e le voci giungevano quasi incomprensibili e non potevi non chiederti se sotto i ponti o là in alto sulla Torre ci fosse qualcuno che sbirciava. Il rintocco cadenzato delle campane ci indicava che era già mezzogiorno e che era ora di uscire dall’acqua, ma dovevi fare attenzione per evitare di perdere l’equilibrio sulle pietre lippose.
E com’era bello prendere il sole stando seduti sul brecciolino a pochi centimetri dall’acqua, quel tanto che bastava per evitare le onde più lunghe oppure tenendo i piedi immersi sulla battigia. Ed è in quei momenti che rimani stordito dall’immensità del mare e dal continuo ed incomprensibile movimento delle onde. L’acqua a volte sembra ritirarsi, altre ti arriva vicino e sei costretto a fare un balzo all’indietro o a bagnarti di nuovo senza volere.
Nelle giornate di maestrale solo i più temerari provavano a fare un tuffo, ma com’era bello farsi avvolgere dal vento e dalle goccioline di acqua salata. E com’era bello rimanere frastornati dal fragore delle onde che inevitabilmente si infrangevano sulla sabbia e sulle pietre emerse momentaneamente per il risucchio e che ti costringevano a tirarti indietro quando un cavallone più alto portava l’acqua a sfiorarti. Oppure ti lasciavi bagnare i piedi dalla schiuma d’acqua e sale che ti veniva incontro minacciosa, ma non avevamo paura sapevamo che era innocua.
E com’è stato bello quel giorno d’inverno fare una lezione guardando il litorale. Chissà se S. e L. lo ricordano. Il mare era agitato, lo vedevamo bene dalle finestre della nostra classe. La professoressa M. mi stava interrogando, ma si accorse delle mie difficoltà e volle aiutarmi chiedendomi come mi piaceva il mare. Risposi che è bello quando è agitato o quando è completamente piatto, che non mi piacevano le vie di mezzo. L’insegnante apprezzò la mia risposta e di certo mi valutò più del dovuto anche per quell’osservazione.
Chissà perché questi pensieri e non altri ricompaiono sempre. È il mare che li fa tornare? Sono le giornate di luglio? Ma che importa, di certo non possiamo tornare indietro e non possiamo cancellare il passato.
Siamo prigionieri.
Tentiamo di dare un senso al tempo che trascorre, e lo facciamo sempre, ma è tutto inutile, non possiamo decidere ne come ne cosa, lo subiamo soltanto, senza poter fare nulla.
E' un tempo che non ci appartiene.
domenica 9 luglio 2023
‘I ciappuli’
Anche questi pensieri sono memoria a perdere, vani e superflui come tutto come tutti

La spiaggia di Torremuzza, tramonto agosto 2022, foto di Erina Barbera
Nel corso delle olimpiadi invernali in televisione trasmettono le gare di curling. Un gioco che si pratica sul ghiaccio ed è simile alle bocce. Da ragazzini ne facevamo uno analogo, ma sul selciato della piazzetta: ‘u iuocu ri ciappuli’.Era un gioco di strada, come tutti quelli che facevamo. Li inventavamo noi. Erano a chilometro zero e soprattutto a costo zero o quasi.
Bastava fare una passeggiata in riva al mare per procurarci quello che ci serviva. Cercavamo le pietre levigate dalla sabbia e dall’acqua. Sceglievamo quelle piatte e con una forma rotonda, dovevano essere adatte a scorrere sull’asfalto o sulle mattonelle di pece della piazzetta appena pavimentata.
E dovevano essere un po' più grandi di quelle che usavamo per farle scivolare sull’acqua. Un gioco questo che facevamo spesso quando eravamo in riva al mare.
L’abilità consisteva nel farle andare lontano facendole rimbalzare più volte. Ci abbassavamo da un lato per lanciarle. Una volta uno di noi per sbaglio colpì il compagno che gli stava accanto. Non so se e quanti punti ci siano voluti per sanare la ferita. E non so perché mi torna in mente chi subì le conseguenze di quel gesto involontario, ma non chi lo colpì.
Era un gioco semplice come gli altri. Avevamo il mare, le pietre e la spensieratezza necessaria. Capivamo i rischi, ma stavamo attenti, quell’incidente capitò solo quella volta.
Un’estate vidi un ragazzino che faceva quel gioco con il mare pieno di bagnanti e quel che è peggio con la mamma che lo lasciava fare indifferente del pericolo. Non successe nulla, ma fu solo fortuna.
A ciappuli giocavamo nella piazzetta o sotto i ponti.
Non ricordo se c’era un pallino come nelle bocce o se esso consistesse nel posizionarsi il più vicino possibile ad un punto prestabilito che poteva essere lo scalino del marciapiede o un’altra pietra, comunque era simile al curling.
Giocavamo per strada .. e lo facevamo in tutte le stagioni … eravamo liberi di muoverci … di partecipare … di guardare … eravamo felici … facevamo un gioco inventato da noi … non copiavamo la fantasia di un altro … gli influencer eravamo noi … e non avevamo bisogno d’altro.
Se una ‘ciappula’ si rompeva bastava fare una passeggiata in riva al mare per trovarne un’altra … non c’erano limiti.
Una pietra piatta, la piazzetta, un compagno di giochi, nient’altro. E non c’era nessuna costrizione, solo voglia di misurarsi e non importava vincere bastava partecipare, eravamo una comunità.
Anche questi pensieri sono memoria a perdere, vani e superflui come tutto come tutti
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La spiaggia di Torremuzza, tramonto agosto 2022, foto di Erina Barbera |
Era un gioco di strada, come tutti quelli che facevamo. Li inventavamo noi. Erano a chilometro zero e soprattutto a costo zero o quasi.
Bastava fare una passeggiata in riva al mare per procurarci quello che ci serviva. Cercavamo le pietre levigate dalla sabbia e dall’acqua. Sceglievamo quelle piatte e con una forma rotonda, dovevano essere adatte a scorrere sull’asfalto o sulle mattonelle di pece della piazzetta appena pavimentata.
E dovevano essere un po' più grandi di quelle che usavamo per farle scivolare sull’acqua. Un gioco questo che facevamo spesso quando eravamo in riva al mare.
L’abilità consisteva nel farle andare lontano facendole rimbalzare più volte. Ci abbassavamo da un lato per lanciarle. Una volta uno di noi per sbaglio colpì il compagno che gli stava accanto. Non so se e quanti punti ci siano voluti per sanare la ferita. E non so perché mi torna in mente chi subì le conseguenze di quel gesto involontario, ma non chi lo colpì.
Era un gioco semplice come gli altri. Avevamo il mare, le pietre e la spensieratezza necessaria. Capivamo i rischi, ma stavamo attenti, quell’incidente capitò solo quella volta.
Un’estate vidi un ragazzino che faceva quel gioco con il mare pieno di bagnanti e quel che è peggio con la mamma che lo lasciava fare indifferente del pericolo. Non successe nulla, ma fu solo fortuna.
A ciappuli giocavamo nella piazzetta o sotto i ponti.
Non ricordo se c’era un pallino come nelle bocce o se esso consistesse nel posizionarsi il più vicino possibile ad un punto prestabilito che poteva essere lo scalino del marciapiede o un’altra pietra, comunque era simile al curling.
Giocavamo per strada .. e lo facevamo in tutte le stagioni … eravamo liberi di muoverci … di partecipare … di guardare … eravamo felici … facevamo un gioco inventato da noi … non copiavamo la fantasia di un altro … gli influencer eravamo noi … e non avevamo bisogno d’altro.
Se una ‘ciappula’ si rompeva bastava fare una passeggiata in riva al mare per trovarne un’altra … non c’erano limiti.
Una pietra piatta, la piazzetta, un compagno di giochi, nient’altro. E non c’era nessuna costrizione, solo voglia di misurarsi e non importava vincere bastava partecipare, eravamo una comunità.
sabato 11 febbraio 2023
Due ragionieri in cerca d’autore
Breve dialogo tra un ragioniere vecchio stampo e una giovane commercialista che tenta di convincerlo ad utilizzare le nuove tecnologie informatiche
Personaggi:
- Il ragioniere vecchio stampo
- La neodiplomata in amministrazione, finanza e marketing
Ambientazione:
- Uno studio di consulenza amministrativa e finanziaria
Descrizione personaggi:
Il ragioniere si presenta come un contabile di altri tempi. Con biro, registri di carta, calcolatrice con il rullino, occhiali con fondo di bottiglia, telefono anni Ottanta, Codice civile e manuale Iva, carta carbone per doppiare le fatture, lampada da tavolo.
La commercialista entra in scena come una donna in carriera, con borsa per il computer, cellulare ultimo modello e un altro da polso.
Dialogo:
Il ragioniere entra in scena stanco e con passo lento, si ferma un attimo, alza lo sguardo in avanti e si lamenta …. ancora due passi e poggia con veemenza la vecchia borsa sul tavolo da lavoro facendo alzare un velo di polvere, tossisce ed impreca in siciliano:
‘Ahi .. Ahhi.. Comu è brutta a vicchiaia …. U sapiti comu si rici: Lu pisu di l'anni, è lu pisu cchiù granni’
Si siede con fatica, apre la borsa ed estrae i copri gomiti ed esclama:
‘Si nun mi mettu sti così cu a senti a me mugghieri .. mi pozzu macchiari a camicia pulita ca mi stirau ieri .. e cu ciu rici si si macchia … chidra è capaci ca mi lassa senza manciari stasira …. mitteminilli ca è megghiu’.’
Guarda i registri di contabilità, il blocco di fatture e mormora sconsolato:
‘U misi di dicembri e di giugnu l’avissuru a cancillari ru calendariu … non se ne po chiu… cunti … cunti … e ancora cunti…basta ….. arriva Natali e iu sugnu ca a cuntari u cuntu ….. fatturi… bilanci … liquidazioni … che non c’azzeccano mai sì prima ni fazzu quattro voti … ‘
Mette le mani sulla testa, la scuote lentamente e impreca ad alta voce:
‘Nun ni pozzu cchiù …U sapiti chi dici u proverbiu Sarba a pezza pi quannu veni u purtusu.
A malincuore comincia a lavorare.
‘Cuminciamu chi fatture di sta simana….’
Prende una biro, prova a scrivere ma la penna non ne vuole sapere.
‘Puru chistu ci vulia …. Ma pirchi nun voli scriviri ….
Trattiene una imprecazione …. riscalda la penna con le mani …tenta di scrivere di nuovo, la alza, la guarda perplesso:
‘Nenti … muriu o u fa pi favìrimi ncazzari …..?
Alzando il tono della voce:
‘A mecchiu pinna ru munnu, ricunu, ma quannnu mai … fasulla è …. Basta… ‘
Con un gesto di rabbia getta la penna nel cestino mancandolo …. Si alza la raccoglie e con rabbia la butta nel cestino …si fa il segno della croce ed in tono solenne:
‘Addio pinna mecchiu ru munnu…. e diri ca l’accattai unni me cucino chidru bravu … ca avi un negozio di cartulibreria chinu ri cosi muderni, mah ... E’ propriu veru, tra amici e parenti un ci accattari e vinniri nenti’.
Apre di nuovo la borsa … impreca … cerca un’altra penna … sempre una biro.. e con tono formale dice:
‘Iu nun sugno fissa … si sapi u bonu ragioniere avi na collezioni di pinni ca non finisci mai …. (pausa) Una chi funziona ci sarà ….. chista nova nova è’.
Inserisce con cura la carta carbone dopo aver guardato che sia ancora utilizzabile la inserisce tra due fogli di fatture e comincia a scrivere mentre mormora:
‘Santu l’avissura a fari cu spurmintau a carta carbuni, … scrivennu na fattura ni fazzu dui .. sissi … santu santu subutu l’avissuru a fari…’
Dopo un attimo impreca di nuovo:
‘Ma po esseri ca sbacchiu sempre u nome ru mittenti … ma come schifiu si chiama … Jacupu, Jacupo ru Duca Bianca Amatu ma chi nome è? Ru un nobili? Ma ancora ci sunnu i nobili? (pausa) Ma i francisi (sottovoce) nun l’avivano ghigliottinatu a tutti?
Entra la commercialista con passo sicuro e veloce, gli squilla il cellulare risponde:
‘Si non si preoccupi le fatture le arriveranno in giornata tramite pec … e per la pratica pensionistica ci vediamo in streaming. A presto’
Chiude lo smartphone e guarda incuriosita il ragioniere… lo scruta … esclama con accento milanese:
‘Ma Lei chi è?’
Intanto, il ragioniere mormora a sé stesso:
‘Ah nun è un nobili e cu è allura?’
C: ‘Ma dove sono? Questo straparla ma di cosa? Qui non vedo nobili, non vedo altri. Scusi buon uomo di quale nobile parla?’
R: ‘Ma chi vuoli chista? Ma cu si? Ma cu ti canusci?’
Poi rivolto al pubblico: ‘U sapiti comu si rici: Unn’è vilenu chiddu c’agghiutti, ma è vilenu chiddu ca ietti ..’
C: ‘Sono la nuova commercialista del Duca’
R: ‘Ca nobili nun cinni sunnu’
C: ‘Cheee? Ma come parla?’
R: ‘Cu è lei? Chi voli?’
C: ‘Io sono la nuova commercialista del Duca’
R: ‘Ma ri quali Duca parla? Ca non si cì sunnu nobili, u capisti?’
C: ‘C’è di sicuro un equivoco, buon uomo. Io sono la nuova commercialista dello Jacopo del Duca … trattino (con due dita fa il segno del trattino) .. Bianca Amato’
R: ‘Buon uomo a chi? E poi iu sugnu u ragioniere e nun c’è bisognu di n’autro, iu bastu e assupecchiu’
R: ‘E’ proprio veru, tri sunnu li boni muccuna, fichi persichi e muluna’.
C: ’Il Duca si sta rinnovando ed ha assunto del nuovo personale specializzato nell’amministrazione, nella finanza e nel marketing’
R: ‘Cheee, marchiting, ma che è, na cosa che si mancia? signurina aiu assai cosi a fari, La prego di rivolgersi al signor Danilu (nome bidello), le indicherà dove andare, iu ai chiffari, nu viri cai a fari sta fattura?’
La giovane donna in carriera si avvicina e guarda stupita abbassando gli occhiali.
C: ‘Perché lei le fatture le scrive ancora a penna e con la carta carbone, manco fossimo all’epoca della pietra’
R: ‘Nca certu come l’aio a scrivere, cu lapis? Signurina bedra nun mi facissi pirdiri tempu, u tempu avi l’oro na ucca, non lu sapi?’
C: ‘Le fatture ora si fanno online’
R: ’Online cheee? Ma comu parla chista’
C: ‘La fatturazione elettronica, si fa in Rete direttamente nel sito dell’Agenzia delle Entrate, quella cartacea non serve più a nulla, non è legale’
R: ‘Comu sarebbi a dire che nun è ligali’
C: ‘Oggi si fa tutto in Rete, Lei lo sa cos’è il Cloud?’
R: ‘Nu sacciu e nu vocchiu sapiri’
R: ‘U sapi comu rici u proverbiu, Cònzala comu vuoi ca sempri cucuzza è’
C: ‘Quale programma usa per la contabilità?’
R: ‘U programma è tutto na me testa signurina, al massimu uso sta bella calcolatrice, u viri c’è a carta così pozzu cuntrullari le battute e si c’è un errore lo viu subitu’
C: ‘Guardi che con i software di contabilità che si aggiornano in automatico non ha più bisogno di fare calcoli, e non farà più errori, tutto in tempo reale, subitaneo (sottolinea) come direbbe Lei’
R: ‘Ma veru è chiddu chi mi rici?’
C: ‘Certo, con le nuove tecnologie è tutto più semplice ed immediato’
R: ‘Signurina bedra, nun fa mi mmia’
C: ‘Dice?’
R: ‘Ricu’
La commercialista prende dalla borsa il Pc, lo apre, lo mostra al ragioniere vecchio stampo:
‘Non si preoccupi ora ci sono io con il mio Mac e il mio Iphone e con la mia super connessione?’
R: ‘ Connessione, meccu, fonu, ma chi dici?’
C. ‘Si le nuove tecnologie, ormai il ragioniere non è più un semplice contabile, ma un commercialista, che deve saper fare analisi di bilancio, amministrare le società, fare piani di investimento e di finanziamento, insomma è la figura più importante dell’azienda sia che essa sia piccola o di grandi dimensioni, sia che lavori per un Ente pubblico o per un’impresa privata, insomma è indispensabile’
R: ‘ Veramente u ragionieri puru prima lu era, ma ora i tempi canciaru, u sapi chi ci ricu, sbarazzu tutto e c’addumannu u signor Danilu si c’è na guardiola c'è un posticetru puru pi mmia, chisti sunnu i tempi di giovani, iu sugnu vicchiaredru e non ciaiu testa pi sti cosi, …’
Si alza lentamente e si avvia ad uscire.
C: ‘Ma dove va …perché non prova ad aggiornarsi?.. in questa bella scuola ci sono tanti laboratori: quello di Economia Aziendale, di informatica.. l'aula Cad ..che le possono permettere di acquisire una preparazione all’avanguardia…Lei che conosce tanti proverbi lo dovrebbe sapere, U lignu tortu su mancia u luci.’
R: ‘No, signurina..iu veramente un sugnu cosa..’
C: ‘Su via ci provi.. guardi è più semplice di quanto creda.’.
Il ragioniere tentenna.. ma poi si avvicina incuriosito e dà una sbirciatina al computer.
C: ‘Vede questo è un programma per la fattura elettronica..’
R: ‘Mah.. mah.. videmu sti diavulerii muderni… ‘
La commercialista lo incoraggia con un altro proverbio:
‘Lo sa cosa dicono i siciliani coscienziosi Cu ri spiranza campa e a pignata metti,quannu l’arrimina un ci trova nenti’.
Il ragioniere poco convinto si allontana ripetendo:
‘Iu sugnu vecchiu ora tocca a Lei … è propriu veru L’arbulu s’addizza quannu è nicu … me nonnu ricia sempre … testa ca nun parra si chiama cucuzza … e Cu rici “nun sacciu” si leva ru ‘mpacciu …. Cu rici “nun sacciu” si leva ru ‘mpacciu …. Cu rici “nun sacciu” si leva ru ‘mpacciu
Esce di scena ripetendo il proverbio ….
Breve dialogo tra un ragioniere vecchio stampo e una giovane commercialista che tenta di convincerlo ad utilizzare le nuove tecnologie informatiche
Personaggi:
- Il ragioniere vecchio stampo
- La neodiplomata in amministrazione, finanza e marketing
Ambientazione:
- Uno studio di consulenza amministrativa e finanziaria
Descrizione personaggi:
Il ragioniere si presenta come un contabile di altri tempi. Con biro, registri di carta, calcolatrice con il rullino, occhiali con fondo di bottiglia, telefono anni Ottanta, Codice civile e manuale Iva, carta carbone per doppiare le fatture, lampada da tavolo.
La commercialista entra in scena come una donna in carriera, con borsa per il computer, cellulare ultimo modello e un altro da polso.
Dialogo:
Il ragioniere entra in scena stanco e con passo lento, si ferma un attimo, alza lo sguardo in avanti e si lamenta …. ancora due passi e poggia con veemenza la vecchia borsa sul tavolo da lavoro facendo alzare un velo di polvere, tossisce ed impreca in siciliano:
‘Ahi .. Ahhi.. Comu è brutta a vicchiaia …. U sapiti comu si rici: Lu pisu di l'anni, è lu pisu cchiù granni’
Si siede con fatica, apre la borsa ed estrae i copri gomiti ed esclama:
‘Si nun mi mettu sti così cu a senti a me mugghieri .. mi pozzu macchiari a camicia pulita ca mi stirau ieri .. e cu ciu rici si si macchia … chidra è capaci ca mi lassa senza manciari stasira …. mitteminilli ca è megghiu’.’
Guarda i registri di contabilità, il blocco di fatture e mormora sconsolato:
‘U misi di dicembri e di giugnu l’avissuru a cancillari ru calendariu … non se ne po chiu… cunti … cunti … e ancora cunti…basta ….. arriva Natali e iu sugnu ca a cuntari u cuntu ….. fatturi… bilanci … liquidazioni … che non c’azzeccano mai sì prima ni fazzu quattro voti … ‘
Mette le mani sulla testa, la scuote lentamente e impreca ad alta voce:
‘Nun ni pozzu cchiù …U sapiti chi dici u proverbiu Sarba a pezza pi quannu veni u purtusu.
A malincuore comincia a lavorare.
‘Cuminciamu chi fatture di sta simana….’
Prende una biro, prova a scrivere ma la penna non ne vuole sapere.
‘Puru chistu ci vulia …. Ma pirchi nun voli scriviri ….
Trattiene una imprecazione …. riscalda la penna con le mani …tenta di scrivere di nuovo, la alza, la guarda perplesso:
‘Nenti … muriu o u fa pi favìrimi ncazzari …..?
Alzando il tono della voce:
‘A mecchiu pinna ru munnu, ricunu, ma quannnu mai … fasulla è …. Basta… ‘
Con un gesto di rabbia getta la penna nel cestino mancandolo …. Si alza la raccoglie e con rabbia la butta nel cestino …si fa il segno della croce ed in tono solenne:
‘Addio pinna mecchiu ru munnu…. e diri ca l’accattai unni me cucino chidru bravu … ca avi un negozio di cartulibreria chinu ri cosi muderni, mah ... E’ propriu veru, tra amici e parenti un ci accattari e vinniri nenti’.
Apre di nuovo la borsa … impreca … cerca un’altra penna … sempre una biro.. e con tono formale dice:
‘Iu nun sugno fissa … si sapi u bonu ragioniere avi na collezioni di pinni ca non finisci mai …. (pausa) Una chi funziona ci sarà ….. chista nova nova è’.
Inserisce con cura la carta carbone dopo aver guardato che sia ancora utilizzabile la inserisce tra due fogli di fatture e comincia a scrivere mentre mormora:
‘Santu l’avissura a fari cu spurmintau a carta carbuni, … scrivennu na fattura ni fazzu dui .. sissi … santu santu subutu l’avissuru a fari…’
Dopo un attimo impreca di nuovo:
‘Ma po esseri ca sbacchiu sempre u nome ru mittenti … ma come schifiu si chiama … Jacupu, Jacupo ru Duca Bianca Amatu ma chi nome è? Ru un nobili? Ma ancora ci sunnu i nobili? (pausa) Ma i francisi (sottovoce) nun l’avivano ghigliottinatu a tutti?
Entra la commercialista con passo sicuro e veloce, gli squilla il cellulare risponde:
‘Si non si preoccupi le fatture le arriveranno in giornata tramite pec … e per la pratica pensionistica ci vediamo in streaming. A presto’
Chiude lo smartphone e guarda incuriosita il ragioniere… lo scruta … esclama con accento milanese:
‘Ma Lei chi è?’
Intanto, il ragioniere mormora a sé stesso:
‘Ah nun è un nobili e cu è allura?’
C: ‘Ma dove sono? Questo straparla ma di cosa? Qui non vedo nobili, non vedo altri. Scusi buon uomo di quale nobile parla?’
R: ‘Ma chi vuoli chista? Ma cu si? Ma cu ti canusci?’
Poi rivolto al pubblico: ‘U sapiti comu si rici: Unn’è vilenu chiddu c’agghiutti, ma è vilenu chiddu ca ietti ..’
C: ‘Sono la nuova commercialista del Duca’
R: ‘Ca nobili nun cinni sunnu’
C: ‘Cheee? Ma come parla?’
R: ‘Cu è lei? Chi voli?’
C: ‘Io sono la nuova commercialista del Duca’
R: ‘Ma ri quali Duca parla? Ca non si cì sunnu nobili, u capisti?’
C: ‘C’è di sicuro un equivoco, buon uomo. Io sono la nuova commercialista dello Jacopo del Duca … trattino (con due dita fa il segno del trattino) .. Bianca Amato’
R: ‘Buon uomo a chi? E poi iu sugnu u ragioniere e nun c’è bisognu di n’autro, iu bastu e assupecchiu’
R: ‘E’ proprio veru, tri sunnu li boni muccuna, fichi persichi e muluna’.
C: ’Il Duca si sta rinnovando ed ha assunto del nuovo personale specializzato nell’amministrazione, nella finanza e nel marketing’
R: ‘Cheee, marchiting, ma che è, na cosa che si mancia? signurina aiu assai cosi a fari, La prego di rivolgersi al signor Danilu (nome bidello), le indicherà dove andare, iu ai chiffari, nu viri cai a fari sta fattura?’
La giovane donna in carriera si avvicina e guarda stupita abbassando gli occhiali.
C: ‘Perché lei le fatture le scrive ancora a penna e con la carta carbone, manco fossimo all’epoca della pietra’
R: ‘Nca certu come l’aio a scrivere, cu lapis? Signurina bedra nun mi facissi pirdiri tempu, u tempu avi l’oro na ucca, non lu sapi?’
C: ‘Le fatture ora si fanno online’
R: ’Online cheee? Ma comu parla chista’
C: ‘La fatturazione elettronica, si fa in Rete direttamente nel sito dell’Agenzia delle Entrate, quella cartacea non serve più a nulla, non è legale’
R: ‘Comu sarebbi a dire che nun è ligali’
C: ‘Oggi si fa tutto in Rete, Lei lo sa cos’è il Cloud?’
R: ‘Nu sacciu e nu vocchiu sapiri’
R: ‘U sapi comu rici u proverbiu, Cònzala comu vuoi ca sempri cucuzza è’
C: ‘Quale programma usa per la contabilità?’
R: ‘U programma è tutto na me testa signurina, al massimu uso sta bella calcolatrice, u viri c’è a carta così pozzu cuntrullari le battute e si c’è un errore lo viu subitu’
C: ‘Guardi che con i software di contabilità che si aggiornano in automatico non ha più bisogno di fare calcoli, e non farà più errori, tutto in tempo reale, subitaneo (sottolinea) come direbbe Lei’
R: ‘Ma veru è chiddu chi mi rici?’
C: ‘Certo, con le nuove tecnologie è tutto più semplice ed immediato’
R: ‘Signurina bedra, nun fa mi mmia’
C: ‘Dice?’
R: ‘Ricu’
La commercialista prende dalla borsa il Pc, lo apre, lo mostra al ragioniere vecchio stampo:
‘Non si preoccupi ora ci sono io con il mio Mac e il mio Iphone e con la mia super connessione?’
R: ‘ Connessione, meccu, fonu, ma chi dici?’
C. ‘Si le nuove tecnologie, ormai il ragioniere non è più un semplice contabile, ma un commercialista, che deve saper fare analisi di bilancio, amministrare le società, fare piani di investimento e di finanziamento, insomma è la figura più importante dell’azienda sia che essa sia piccola o di grandi dimensioni, sia che lavori per un Ente pubblico o per un’impresa privata, insomma è indispensabile’
R: ‘ Veramente u ragionieri puru prima lu era, ma ora i tempi canciaru, u sapi chi ci ricu, sbarazzu tutto e c’addumannu u signor Danilu si c’è na guardiola c'è un posticetru puru pi mmia, chisti sunnu i tempi di giovani, iu sugnu vicchiaredru e non ciaiu testa pi sti cosi, …’
Si alza lentamente e si avvia ad uscire.
C: ‘Ma dove va …perché non prova ad aggiornarsi?.. in questa bella scuola ci sono tanti laboratori: quello di Economia Aziendale, di informatica.. l'aula Cad ..che le possono permettere di acquisire una preparazione all’avanguardia…Lei che conosce tanti proverbi lo dovrebbe sapere, U lignu tortu su mancia u luci.’
R: ‘No, signurina..iu veramente un sugnu cosa..’
C: ‘Su via ci provi.. guardi è più semplice di quanto creda.’.
Il ragioniere tentenna.. ma poi si avvicina incuriosito e dà una sbirciatina al computer.
C: ‘Vede questo è un programma per la fattura elettronica..’
R: ‘Mah.. mah.. videmu sti diavulerii muderni… ‘
La commercialista lo incoraggia con un altro proverbio:
‘Lo sa cosa dicono i siciliani coscienziosi Cu ri spiranza campa e a pignata metti,quannu l’arrimina un ci trova nenti’.
Il ragioniere poco convinto si allontana ripetendo:
‘Iu sugnu vecchiu ora tocca a Lei … è propriu veru L’arbulu s’addizza quannu è nicu … me nonnu ricia sempre … testa ca nun parra si chiama cucuzza … e Cu rici “nun sacciu” si leva ru ‘mpacciu …. Cu rici “nun sacciu” si leva ru ‘mpacciu …. Cu rici “nun sacciu” si leva ru ‘mpacciu
Esce di scena ripetendo il proverbio ….
giovedì 11 agosto 2022
Brezza marina e 100 ml di succo di frutta alla pera
Un sorso basta per farti tornare indietro nel tempo, quando il poco che c’era era tutto

Torremuzza (Sicilia), 26 luglio 2022 (foto di Barbera Erina)
Nei pomeriggi di luglio non potevamo non goderci la brezza marina, il mare appena increspato dal venticello di levante si colorava di un blu intenso, e, là in fondo, il cielo azzurro tracciava una linea intervallata dalle sagome quasi trasparenti delle isole Eolie, in quell’infinito di sfumature si perdevano i nostri sguardi di adolescenti ed i nostri inutili pensieri.Stavamo così, seduti a leggere un libro o ad assaggiare dalla mini-bottiglietta il succo di frutta alla pera, a volte era una gazzosa, frizzante e dolce, a volte era altro, assaporavamo quelle bibite appena uscite dall’indistruttibile ’Indesit’, lo facevamo con lentezza, un poco per volta, per farli durare di più, per gustarli fino all’ultima goccia …
Li vendeva il fruttivendolo di Reitano, non ricordo il nome, di certo gli avevamo dato un soprannome curioso, forse era ‘u pisiedru’, ma non sono sicuro. Passava ogni settimana con il suo camioncino carico di frutta, ortaggi e verdure di ogni tipo. M. lo chiamava le tre P perché per richiamare l’attenzione delle casalinghe gridava: ‘pummaruoro, patati, pisedri’.
In frigorifero ce n’era sempre una confezione da sei. Erano cento ml di succo alla pera, non alla pesca, ma rigorosamente alla pera. Poco? Questo era, ma bastava. Aveva un sapore dolce ed intenso, di quelli che ti rimangono impressi nella memoria come uno sguardo, una parola non detta, un gesto involontario, un vuoto che non potrai mai colmare.
Ed ora è ancora lì, aspetta per tornare ancora una volta, come tutto come tutti, ... come la frase di una canzone, di quelle che segnano il trascorrere del tempo ...
‘Vorrei dirti le stesse cose .. ma come fan presto amore ad appassir le rose … e quando ti troverai in mano quei fiori appassiti al sole di un aprile ormai lontano … li rimpiangerai ma sarà la prima che incontri per strada che tu coprirai d’oro per un bacio mai dato per un amore nuovo …’
......
Un sorso basta per farti tornare indietro nel tempo, quando il poco che c’era era tutto
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Torremuzza (Sicilia), 26 luglio 2022 (foto di Barbera Erina) |
Stavamo così, seduti a leggere un libro o ad assaggiare dalla mini-bottiglietta il succo di frutta alla pera, a volte era una gazzosa, frizzante e dolce, a volte era altro, assaporavamo quelle bibite appena uscite dall’indistruttibile ’Indesit’, lo facevamo con lentezza, un poco per volta, per farli durare di più, per gustarli fino all’ultima goccia …
Li vendeva il fruttivendolo di Reitano, non ricordo il nome, di certo gli avevamo dato un soprannome curioso, forse era ‘u pisiedru’, ma non sono sicuro. Passava ogni settimana con il suo camioncino carico di frutta, ortaggi e verdure di ogni tipo. M. lo chiamava le tre P perché per richiamare l’attenzione delle casalinghe gridava: ‘pummaruoro, patati, pisedri’.
In frigorifero ce n’era sempre una confezione da sei. Erano cento ml di succo alla pera, non alla pesca, ma rigorosamente alla pera. Poco? Questo era, ma bastava. Aveva un sapore dolce ed intenso, di quelli che ti rimangono impressi nella memoria come uno sguardo, una parola non detta, un gesto involontario, un vuoto che non potrai mai colmare.
Ed ora è ancora lì, aspetta per tornare ancora una volta, come tutto come tutti, ... come la frase di una canzone, di quelle che segnano il trascorrere del tempo ...
‘Vorrei dirti le stesse cose .. ma come fan presto amore ad appassir le rose … e quando ti troverai in mano quei fiori appassiti al sole di un aprile ormai lontano … li rimpiangerai ma sarà la prima che incontri per strada che tu coprirai d’oro per un bacio mai dato per un amore nuovo …’
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giovedì 28 luglio 2022
Erano 'torremuzzari' a tempo determinato
Se pensi a quello che è stato ed a quello che è, ti rendi conto che sei in un luogo che non esiste più, vivi un tempo che non ti appartiene

Via San Giuseppe, Torremuzza (Me), 10 marzo 2008 - (foto di Giovanni Pulvino)
La via San Giuseppe per un breve periodo divenne la ‘pista’ dei nostri 'monopattini'. Erano 'giocattoli' rudimentali, da non confondere con quelli elettrici di oggi. Li costruivamo noi, erano fatti con una tavola di legno inchiodata su due barre anch'esse di legno su cui avevamo fissato quattro 'cuscinetti' in acciaio. Scendevamo stando seduti a pochi centimetri da terra, davamo la direzione manovrando con i piedi le rotelle che erano nella parte anteriore (i più coraggiosi usavano le mani), il freno era un listello sempre di legno inchiodato su un lato. Ne avevamo diversi, poi ne costruimmo uno grande, c’era posto per tre o quattro persone o forse più. 
Foto da it.wikipedia.org
Una volta rischiammo l’impatto con una delle poche automobili che circolavano allora. Il gioco consisteva nel fare la discesa di via San Giuseppe ad alta velocità, ovviamente senza cadere. Quel giorno, quando giungemmo vicino alla cappella di Sant’Antonino, ci venne incontro un’auto, non ricordo chi c’era alla guida, forse Pasquale il figlio di uno dei due fratelli Giannì, i proprietari della raffineria; ci buttammo di lato appena in tempo, evitammo l’urto per ‘miracolo’, ma il monopattino, finito sotto l’auto, si ridusse in pezzi. Provammo paura e vergogna per la bravata che avevamo fatto, ma durò un attimo, eravamo senza pensieri, a quelli pensavano altri, c’erano i nostri genitori, le zie e gli zii, ed era tutto scontato. Il Borgo era un’oasi felice, continuammo ad inventare giochi ed a costruire ‘giocattoli’, bastava un poco di inventiva e la voglia di fare che, del resto, non è mai venuta meno.Da quel giorno tornammo al super Santos ed ai tuffi dallo scoglio.
Ora dalla stessa strada scendono persone che non conosci, qualcuno parla straniero, li guardi attraversare la statale ed imboccare a vanedra per andare al mare e ti chiedi, ma chi sono? Poi passa un’auto, ma non sai di chi è e non riconosci chi c’è alla guida e quel che è peggio è che non sei curioso di sapere e non ti importa di conoscere i nuovi arrivati.
Se non senti più questo bisogno vuol dire che vivi un tempo che non ti appartiene, che non è più tuo.
Quando notavamo un volto nuovo cercavamo di capire chi fosse, per quanto tempo rimaneva, di chi era parente. Era solo una questione di tempo, sapevamo che, in un modo o in un altro, avrebbero fatto parte della comunità, sarebbero entrati per sempre nel nostro piccolo ed inutile mondo di borgatari. Di solito erano torremuzzari emigrati o loro parenti che passavano le vacanze nella frazione. Erano milanesi, genovesi, torinesi, catanesi, ma anche messinesi, tedeschi, argentini, vicentini o semplici villeggianti entrati per sempre nel nostro immaginario.
Ancora oggi questo rituale estivo si ripete, ma allora aveva un altro sapore. Attendevamo con gioia il loro arrivo, si era creato un legame sincero destinato a durare, almeno così pensavamo allora e, di certo, così sarà fino a quando resterà nella memoria di chi c’è ancora.
E non c’era bisogno di parole, bastava riconoscersi.
Erano torremuzzari a tempo determinato, ma pur sempre torremuzzari. Eravamo divisi, con caratteri diversi, con idealità contrapposte, ma nello stesso tempo legati alle stesse strade, allo stesso mare, ai ponti della ferrovia, allo stabilimento, eravamo una grande famiglia litigiosa, ma con radici comuni indissolubili ... avevamo una unità di intenti nella vita come nella morte ... eravamo una comunità.
Ora quel che era non esiste più, è un’altra cosa, è un altro tempo, un altro luogo, non tuo, lo vivi, ma non sai il perché.
Se pensi a quello che è stato ed a quello che è, ti rendi conto che sei in un luogo che non esiste più, vivi un tempo che non ti appartiene
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Via San Giuseppe, Torremuzza (Me), 10 marzo 2008 - (foto di Giovanni Pulvino) |
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Foto da it.wikipedia.org |
Una volta rischiammo l’impatto con una delle poche automobili che circolavano allora. Il gioco consisteva nel fare la discesa di via San Giuseppe ad alta velocità, ovviamente senza cadere. Quel giorno, quando giungemmo vicino alla cappella di Sant’Antonino, ci venne incontro un’auto, non ricordo chi c’era alla guida, forse Pasquale il figlio di uno dei due fratelli Giannì, i proprietari della raffineria; ci buttammo di lato appena in tempo, evitammo l’urto per ‘miracolo’, ma il monopattino, finito sotto l’auto, si ridusse in pezzi. Provammo paura e vergogna per la bravata che avevamo fatto, ma durò un attimo, eravamo senza pensieri, a quelli pensavano altri, c’erano i nostri genitori, le zie e gli zii, ed era tutto scontato. Il Borgo era un’oasi felice, continuammo ad inventare giochi ed a costruire ‘giocattoli’, bastava un poco di inventiva e la voglia di fare che, del resto, non è mai venuta meno.
Da quel giorno tornammo al super Santos ed ai tuffi dallo scoglio.
Ora dalla stessa strada scendono persone che non conosci, qualcuno parla straniero, li guardi attraversare la statale ed imboccare a vanedra per andare al mare e ti chiedi, ma chi sono? Poi passa un’auto, ma non sai di chi è e non riconosci chi c’è alla guida e quel che è peggio è che non sei curioso di sapere e non ti importa di conoscere i nuovi arrivati.
Se non senti più questo bisogno vuol dire che vivi un tempo che non ti appartiene, che non è più tuo.
Quando notavamo un volto nuovo cercavamo di capire chi fosse, per quanto tempo rimaneva, di chi era parente. Era solo una questione di tempo, sapevamo che, in un modo o in un altro, avrebbero fatto parte della comunità, sarebbero entrati per sempre nel nostro piccolo ed inutile mondo di borgatari. Di solito erano torremuzzari emigrati o loro parenti che passavano le vacanze nella frazione. Erano milanesi, genovesi, torinesi, catanesi, ma anche messinesi, tedeschi, argentini, vicentini o semplici villeggianti entrati per sempre nel nostro immaginario.
Ancora oggi questo rituale estivo si ripete, ma allora aveva un altro sapore. Attendevamo con gioia il loro arrivo, si era creato un legame sincero destinato a durare, almeno così pensavamo allora e, di certo, così sarà fino a quando resterà nella memoria di chi c’è ancora.
E non c’era bisogno di parole, bastava riconoscersi.
Erano torremuzzari a tempo determinato, ma pur sempre torremuzzari. Eravamo divisi, con caratteri diversi, con idealità contrapposte, ma nello stesso tempo legati alle stesse strade, allo stesso mare, ai ponti della ferrovia, allo stabilimento, eravamo una grande famiglia litigiosa, ma con radici comuni indissolubili ... avevamo una unità di intenti nella vita come nella morte ... eravamo una comunità.
Ora quel che era non esiste più, è un’altra cosa, è un altro tempo, un altro luogo, non tuo, lo vivi, ma non sai il perché.
venerdì 11 febbraio 2022
Gli zii e le zie di Torremuzza (parte sesta)
Per una questione di privacy i nomi ed i soprannomi sono indicati con le iniziali. Chi li ha conosciuti o li conosce certamente capirà di chi si tratta

Torremuzza, piazza Marina
La gentilezza e la pazienza sono rareA za B. non ha mai perso il suo accento calabrese. Riservata e di poche parole come suo marito, era una delle mamme a cui non dava fastidio il fatto che giocassimo in piazza Marina.
A za R., era sempre sorridente, non ebbe mai a lamentarsi del fatto che giocavamo sul lato alto di piazza Marina, anzi apprezzava la nostra presenza. Una mamma sempre allegra, che ha saputo gestire con parsimonia e leggerezza una famiglia numerosa. Era una presenza rassicurante. Le nostre zie e zii ci proteggevano, non correvamo pericoli se non quelli dovuti alla nostra presunzione ed esuberanza. L’infanzia dei giovani torremuzzari è stata felice, ma di questo ti rendi conto dopo.
A za C. d’estate ci faceva alzare alle sette del mattino con la scusa di offrirci la granita nel bar/tabacchino, poi ci portava a ‘Maccarruni’ dove c’era un altro ‘stazuni’, lì mio padre svolgeva uno dei suoi tanti lavori. ‘Giocando’ con il tornio di legno imparammo a fare i ‘tivuli’. Nelle fosse pestavamo l’argilla per renderla idonea alla lavorazione, allora non si comprava, si estraeva dalle cave che si trovavano in prossimità dei laboratori. Eravamo bambini, per noi era quasi un gioco, ma lì capimmo l’importanza del lavoro e dell’impegno che, dopo, non sono mai venuti meno
I doveri fanno parte della vita della maggior parte delle persone. Solo ‘i figli di papà’ non vivono queste necessità e non acquisiscono queste conoscenze di vita
All’inizio dell’autunno iniziava la raccolta delle olive. Ovviamente i proprietari si limitavano a vendere la ‘raccolta’ con le ‘gabelle’; un contratto basato sulla parola e sancito con una stretta di mano. Di solito un’oliva su tre andava al latifondista, la seconda al frantoio e quella che rimaneva a chi effettivamente si spaccava la schiena e le mani a raccoglierle. Tra i ‘gabelloti’ più bravi c’era u zu P., mio nonno. Quindi, ogni autunno ed inizio inverno, tutta la famiglia era impegnata in questa attività. Passavamo due volte: prima prendevamo quelle che c’erano a terra e, dopo, quelle che ancora erano sugli alberi. Per un certo periodo c’erano anche gli stagionali, anzi le stagionali che mio nonno ingaggiava nei paesi vicini. Coordinava e dirigeva, non faceva altro, ma era bravo in quel ruolo.
Ci sono ricordi senza nome, solo immagini in bianco e nero che non hanno un titolo, ma sono lì, come gli altri non vanno via, aspettano il loro turno per essere ridestati, ancora una volta, l’ultima
A za N. della Marina era una presenza continua. Una vicina di casa sempre attenta e rigorosa non mancava mai di rimproverarti quando c’era qualcosa che secondo Lei non andava bene. Nella sua casa, dove accedevo raramente, si entrava o usciva dalla ‘Vanedra’ e si poteva farlo anche dal lato opposto, salendo e scendendo una scala ‘ripida’ che dà sul cortile Marina.
I pensieri a volte riemergono per circostanze bizzarre, inconsuete, ma ci aiutano a fare memoria, a mantenere vivi certi visi e certi ricordi
C’era una zia che aveva una strana abitudine, scriveva i suoi pensierini ovunque le capitasse, almeno così si diceva. Non ne ho mai visti e, pertanto, non ne conosco il contenuto, ma di certo quella signora era gentile ed esprimeva un forte desiderio di comunicare. Non c’era nulla di male, oggi quella strana ‘mania’ è la fonte del ricordo. Forse era questo il suo modo di lasciare una testimonianza, un modo semplice per farsi ricordare.
A za F. la vedevamo ogni tanto affacciata sulla ringhiera della sua abitazione. Poi un giorno non la vedemmo più, visse gli ultimi anni della sua vita a letto. Tutti i giorni uno dei figli andava a portare il pranzo o la cena, fu assistita fino all’ultimo. Allora i genitori ed i nonni nell’ultima fase della loro esistenza si accudivano in famiglia.
U zu N. aveva una disabilità importante ma, nonostante ciò, tutti i giorni si recava con la sua vespa a Villa Margi, lì gestiva il rifornimento di benzina ed un piccolo bar ed era bravo anche nelle piccole riparazioni. Allora non c’erano le pensioni di invalidità o di accompagnamento, occorreva darsi da fare. È Lui non si tirò mai indietro.
A signorina B. la vedevamo ogni tanto seduta sul balconcino di casa che dà sulla ‘Vanedra’. Stava seduta a godersi la brezza estiva del primo pomeriggio. Era raro vederla, ma sapevi che c’era. Una volta entrai in casa sua, era un ambiente di stile antico, con i colori tenui e con gli odori di stoffe vecchie e di mobili impolverati, per un attimo mi sembrò di essere trasportato ad inizio secolo. Era una signora gentile, ma teneva le distanze, ‘noblesse obblige’, ma noi che vivevamo proprio di fronte, per Lei eravamo tutto o quasi, eravamo uno dei pochi contatti con il mondo esterno.
A proposito della signorina B. ci sono alcuni ricordi di due mie coetanea. Ecco quello di R.. ‘A proposito del gelato... Il mio preferito era il fortunello! E se la signorina B. malauguratamente mi avesse beccato sarebbero stati guai, cominciava a farmi l'interrogatorio di terzo grado, e cominciava a toccare il mio fortunello... dicendo: "viremu chi gelatu t'accattasti” e lo palpava tutto con le sue mani. Ma io mi vergognavo a dire di non toccarlo, e lo mangiavo lo stesso schifata e arrabbiata. Un'altra volta si ripeté la stessa storia, ma stavolta ero in compagnia di mia sorella S. e strappandomi nuovamente il fortunello dalle mani... Mia sorella rispose irritata ... “adesso se lo mangia lei!”. Da allora in poi si tolse il vizio di toccarlo! Grazie a mia sorella che ebbe il coraggio di rispondere!’. Ed ancora: ‘La signorina B., mi regalava sempre delle bellissime immaginette sacre, stampate su una carta elegante che oggi non viene più usata. Le conservavo gelosamente’.
Ecco quello di L. ‘Il mio gelato preferito era tutto al cioccolato. Costava 20 Lire. Lo acquistavo nella “putia" da za' P. Era un locale vicino alla vanedra’.
Il mio ricordo ‘ra putia’ è sfocato, ma è lì
C’erano degli scalini se non sbaglio ed il locale era spoglio, o comunque poco accogliente. Sì, lì comperavamo il gelato che era al cioccolato, ma non ricordo il nome, era uno dei nostri preferiti, ma forse lo era solo perché c’erano solo quelli e poco altro.
I pensieri degli zii e delle zie per ora si fermano qui, almeno fino a quando non ne verranno altri e non sentirò il bisogno di condividerli con chi li ha conosciuti
Graie zii e zie, sarete con noi fino a quando noi saremo
Per una questione di privacy i nomi ed i soprannomi sono indicati con le iniziali. Chi li ha conosciuti o li conosce certamente capirà di chi si tratta
Torremuzza, piazza Marina |
A za B. non ha mai perso il suo accento calabrese. Riservata e di poche parole come suo marito, era una delle mamme a cui non dava fastidio il fatto che giocassimo in piazza Marina.
A za R., era sempre sorridente, non ebbe mai a lamentarsi del fatto che giocavamo sul lato alto di piazza Marina, anzi apprezzava la nostra presenza. Una mamma sempre allegra, che ha saputo gestire con parsimonia e leggerezza una famiglia numerosa. Era una presenza rassicurante. Le nostre zie e zii ci proteggevano, non correvamo pericoli se non quelli dovuti alla nostra presunzione ed esuberanza. L’infanzia dei giovani torremuzzari è stata felice, ma di questo ti rendi conto dopo.
A za C. d’estate ci faceva alzare alle sette del mattino con la scusa di offrirci la granita nel bar/tabacchino, poi ci portava a ‘Maccarruni’ dove c’era un altro ‘stazuni’, lì mio padre svolgeva uno dei suoi tanti lavori. ‘Giocando’ con il tornio di legno imparammo a fare i ‘tivuli’. Nelle fosse pestavamo l’argilla per renderla idonea alla lavorazione, allora non si comprava, si estraeva dalle cave che si trovavano in prossimità dei laboratori. Eravamo bambini, per noi era quasi un gioco, ma lì capimmo l’importanza del lavoro e dell’impegno che, dopo, non sono mai venuti meno
I doveri fanno parte della vita della maggior parte delle persone. Solo ‘i figli di papà’ non vivono queste necessità e non acquisiscono queste conoscenze di vita
All’inizio dell’autunno iniziava la raccolta delle olive. Ovviamente i proprietari si limitavano a vendere la ‘raccolta’ con le ‘gabelle’; un contratto basato sulla parola e sancito con una stretta di mano. Di solito un’oliva su tre andava al latifondista, la seconda al frantoio e quella che rimaneva a chi effettivamente si spaccava la schiena e le mani a raccoglierle. Tra i ‘gabelloti’ più bravi c’era u zu P., mio nonno. Quindi, ogni autunno ed inizio inverno, tutta la famiglia era impegnata in questa attività. Passavamo due volte: prima prendevamo quelle che c’erano a terra e, dopo, quelle che ancora erano sugli alberi. Per un certo periodo c’erano anche gli stagionali, anzi le stagionali che mio nonno ingaggiava nei paesi vicini. Coordinava e dirigeva, non faceva altro, ma era bravo in quel ruolo.
Ci sono ricordi senza nome, solo immagini in bianco e nero che non hanno un titolo, ma sono lì, come gli altri non vanno via, aspettano il loro turno per essere ridestati, ancora una volta, l’ultima
A za N. della Marina era una presenza continua. Una vicina di casa sempre attenta e rigorosa non mancava mai di rimproverarti quando c’era qualcosa che secondo Lei non andava bene. Nella sua casa, dove accedevo raramente, si entrava o usciva dalla ‘Vanedra’ e si poteva farlo anche dal lato opposto, salendo e scendendo una scala ‘ripida’ che dà sul cortile Marina.
I pensieri a volte riemergono per circostanze bizzarre, inconsuete, ma ci aiutano a fare memoria, a mantenere vivi certi visi e certi ricordi
C’era una zia che aveva una strana abitudine, scriveva i suoi pensierini ovunque le capitasse, almeno così si diceva. Non ne ho mai visti e, pertanto, non ne conosco il contenuto, ma di certo quella signora era gentile ed esprimeva un forte desiderio di comunicare. Non c’era nulla di male, oggi quella strana ‘mania’ è la fonte del ricordo. Forse era questo il suo modo di lasciare una testimonianza, un modo semplice per farsi ricordare.
A za F. la vedevamo ogni tanto affacciata sulla ringhiera della sua abitazione. Poi un giorno non la vedemmo più, visse gli ultimi anni della sua vita a letto. Tutti i giorni uno dei figli andava a portare il pranzo o la cena, fu assistita fino all’ultimo. Allora i genitori ed i nonni nell’ultima fase della loro esistenza si accudivano in famiglia.
U zu N. aveva una disabilità importante ma, nonostante ciò, tutti i giorni si recava con la sua vespa a Villa Margi, lì gestiva il rifornimento di benzina ed un piccolo bar ed era bravo anche nelle piccole riparazioni. Allora non c’erano le pensioni di invalidità o di accompagnamento, occorreva darsi da fare. È Lui non si tirò mai indietro.
A signorina B. la vedevamo ogni tanto seduta sul balconcino di casa che dà sulla ‘Vanedra’. Stava seduta a godersi la brezza estiva del primo pomeriggio. Era raro vederla, ma sapevi che c’era. Una volta entrai in casa sua, era un ambiente di stile antico, con i colori tenui e con gli odori di stoffe vecchie e di mobili impolverati, per un attimo mi sembrò di essere trasportato ad inizio secolo. Era una signora gentile, ma teneva le distanze, ‘noblesse obblige’, ma noi che vivevamo proprio di fronte, per Lei eravamo tutto o quasi, eravamo uno dei pochi contatti con il mondo esterno.
A proposito della signorina B. ci sono alcuni ricordi di due mie coetanea. Ecco quello di R.. ‘A proposito del gelato... Il mio preferito era il fortunello! E se la signorina B. malauguratamente mi avesse beccato sarebbero stati guai, cominciava a farmi l'interrogatorio di terzo grado, e cominciava a toccare il mio fortunello... dicendo: "viremu chi gelatu t'accattasti” e lo palpava tutto con le sue mani. Ma io mi vergognavo a dire di non toccarlo, e lo mangiavo lo stesso schifata e arrabbiata. Un'altra volta si ripeté la stessa storia, ma stavolta ero in compagnia di mia sorella S. e strappandomi nuovamente il fortunello dalle mani... Mia sorella rispose irritata ... “adesso se lo mangia lei!”. Da allora in poi si tolse il vizio di toccarlo! Grazie a mia sorella che ebbe il coraggio di rispondere!’. Ed ancora: ‘La signorina B., mi regalava sempre delle bellissime immaginette sacre, stampate su una carta elegante che oggi non viene più usata. Le conservavo gelosamente’.
Ecco quello di L. ‘Il mio gelato preferito era tutto al cioccolato. Costava 20 Lire. Lo acquistavo nella “putia" da za' P. Era un locale vicino alla vanedra’.
Il mio ricordo ‘ra putia’ è sfocato, ma è lì
C’erano degli scalini se non sbaglio ed il locale era spoglio, o comunque poco accogliente. Sì, lì comperavamo il gelato che era al cioccolato, ma non ricordo il nome, era uno dei nostri preferiti, ma forse lo era solo perché c’erano solo quelli e poco altro.
I pensieri degli zii e delle zie per ora si fermano qui, almeno fino a quando non ne verranno altri e non sentirò il bisogno di condividerli con chi li ha conosciuti
Graie zii e zie, sarete con noi fino a quando noi saremo
sabato 1 gennaio 2022
Pane, formaggio, pomodori e ‘passuluna’ cotti nella brace …
Era un pasto semplice, ma gustoso, sfizioso. Per un momento non sentivi più la fatica del lavoro, dimenticavi l’assurdità di compiere un atto che rendeva meno di quello che riuscivi a produrre

Foto di Giovanni Pulvino
‘I passuluni’ così li chiamavamo. Sono olive nere e mature. Le raccoglievamo da terra mischiate tra le altre, una ad una, la prima era del proprietario del terreno, la seconda del frantoio e la terza per chi come noi chino sulla terra umida si spaccava la schiena. Dovevi dividerle dalle erbacce e dai sassolini che eri costretto a spostare con un dito. Usavamo entrambe le mani. Quando queste erano piene di olive le gettavamo dentro i ‘panari’ che di tanto in tanto dovevi spostare e quando si riempivano svuotarli nei sacchi di plastica o di juta. A sera con l’aiuto di un asinello o a spalla li portavamo nel magazzino, dove venivano adagiate sul pavimento a finire la maturazione. Dopo pochi giorni, si riponevano di nuovo nei sacchi per portale al frantoio.Le giornate in campagna passavano così, lente e leggere, faticando ed a volte giocando a chi riempiva per primo ‘i panari’ e, inevitabilmente, discutevamo su chi ne aveva svuotato di più nei sacchi, ma durava poco, non era un gioco era un lavoro.
Stavamo curvi o inginocchiati a individuare e raccogliere le olive mature cadute per terra. Tutto era naturale, inevitabile, poetico. Ed era così per settimane e mesi, si iniziava in autunno e durava fino all’arrivo dei primi freddi invernali.
Il lavoro che stavamo facendo non era ripagato dall’olio estratto dalle olive, ma alla fine della stagione un pensiero era stato tolto: avevamo la riserva per tutto l’anno.
Pane, formaggio, pomodori e ‘passuluna’ cotti nella brace, questo era il nostro pranzo. Seduti sotto gli alberi di ulivo, su una pietra o sull’erba, con un tenue odore di zagara, con la schiena indolenzita e le mani ancora sporche di terra, stavamo lì in attesa di tirare fuori dalla brace le olive nere mature, si erano un po' bruciate, quasi tutte odoravano di affumicato, ma avevano un sapore antico, impossibile da definire, che ti rimane impresso, che ti porti fino alla fine e non puoi non ricordarlo.
Un morso al pane fatto in casa, uno al pomodoro, un altro al formaggio ed un ‘passuluni’, nient’altro. Toglierli dalla brace in cui erano stati cotti e ripulirli non era complicato, avevano perso l’amaro tipico delle olive ed il loro sapore si combinava perfettamente con gli altri ingredienti. Era un pasto semplice, ma gustoso, sfizioso. Per un momento non sentivi più la fatica del lavoro, dimenticavi l’assurdità di compiere un atto che rendeva meno di quello che riuscivi a produrre.
Ogni tanto facevamo la stessa cosa con il braciere di casa, unica modalità di riscaldamento che c’era allora, ma il loro sapore era diverso, mancava l’odore dell’erba e della terra umida e soprattutto la fatica fatta nella raccolta delle olive.
A sera restavano la fragranza ed i colori degli ulivi, degli agrumeti, dell’erba ed in particolare degli ‘airiaruci’. Lì chiamavamo così perché il loro stelo aveva un sapore agrodolce; ogni tanto, con l’incoscienza tipica degli adolescenti, li raccoglievamo per masticarli e succhiarli, ma poi li sputavamo.
In quei giorni, tra alberi e sterpaglie di ogni genere, chino sulla terra umida, immerso nei colori autunnali della campagna, lontano dal perenne ondeggiare del mare, non sentivi il trascorrere lento della vita che ti prende ogni volta che non stai facendo nulla di concreto, quando stai a pensare e non sai il perché lo fai, quando subisci le immagini ed i luoghi dove sei stato e che sai che non torneranno più, mai più.
Come i giorni di festa che ora non hanno più lo stesso ‘senso’, ma che sei costretto a vivere anche se non vorresti, almeno non così.
Pane, formaggio, pomodori e i ‘passuluna’ cotti nella brace, nient'altro che un vuoto a perdere, come tutto, come sempre.
E non so perché sto qui a scriverne, a correggerne, a ….
Era un pasto semplice, ma gustoso, sfizioso. Per un momento non sentivi più la fatica del lavoro, dimenticavi l’assurdità di compiere un atto che rendeva meno di quello che riuscivi a produrre
Foto di Giovanni Pulvino |
Le giornate in campagna passavano così, lente e leggere, faticando ed a volte giocando a chi riempiva per primo ‘i panari’ e, inevitabilmente, discutevamo su chi ne aveva svuotato di più nei sacchi, ma durava poco, non era un gioco era un lavoro.
Stavamo curvi o inginocchiati a individuare e raccogliere le olive mature cadute per terra. Tutto era naturale, inevitabile, poetico. Ed era così per settimane e mesi, si iniziava in autunno e durava fino all’arrivo dei primi freddi invernali.
Il lavoro che stavamo facendo non era ripagato dall’olio estratto dalle olive, ma alla fine della stagione un pensiero era stato tolto: avevamo la riserva per tutto l’anno.
Pane, formaggio, pomodori e ‘passuluna’ cotti nella brace, questo era il nostro pranzo. Seduti sotto gli alberi di ulivo, su una pietra o sull’erba, con un tenue odore di zagara, con la schiena indolenzita e le mani ancora sporche di terra, stavamo lì in attesa di tirare fuori dalla brace le olive nere mature, si erano un po' bruciate, quasi tutte odoravano di affumicato, ma avevano un sapore antico, impossibile da definire, che ti rimane impresso, che ti porti fino alla fine e non puoi non ricordarlo.
Un morso al pane fatto in casa, uno al pomodoro, un altro al formaggio ed un ‘passuluni’, nient’altro. Toglierli dalla brace in cui erano stati cotti e ripulirli non era complicato, avevano perso l’amaro tipico delle olive ed il loro sapore si combinava perfettamente con gli altri ingredienti. Era un pasto semplice, ma gustoso, sfizioso. Per un momento non sentivi più la fatica del lavoro, dimenticavi l’assurdità di compiere un atto che rendeva meno di quello che riuscivi a produrre.
Ogni tanto facevamo la stessa cosa con il braciere di casa, unica modalità di riscaldamento che c’era allora, ma il loro sapore era diverso, mancava l’odore dell’erba e della terra umida e soprattutto la fatica fatta nella raccolta delle olive.
A sera restavano la fragranza ed i colori degli ulivi, degli agrumeti, dell’erba ed in particolare degli ‘airiaruci’. Lì chiamavamo così perché il loro stelo aveva un sapore agrodolce; ogni tanto, con l’incoscienza tipica degli adolescenti, li raccoglievamo per masticarli e succhiarli, ma poi li sputavamo.
In quei giorni, tra alberi e sterpaglie di ogni genere, chino sulla terra umida, immerso nei colori autunnali della campagna, lontano dal perenne ondeggiare del mare, non sentivi il trascorrere lento della vita che ti prende ogni volta che non stai facendo nulla di concreto, quando stai a pensare e non sai il perché lo fai, quando subisci le immagini ed i luoghi dove sei stato e che sai che non torneranno più, mai più.
Come i giorni di festa che ora non hanno più lo stesso ‘senso’, ma che sei costretto a vivere anche se non vorresti, almeno non così.
Pane, formaggio, pomodori e i ‘passuluna’ cotti nella brace, nient'altro che un vuoto a perdere, come tutto, come sempre.
E non so perché sto qui a scriverne, a correggerne, a ….
sabato 13 novembre 2021
Gli zii e le zie di Torremuzza (parte quinta)
Per una questione di privacy i nomi ed i soprannomi sono indicati con le iniziali. Chi li ha conosciuti o li conosce certamente capirà di chi si tratta

La fontanella di via San Giuseppe
Negli anni Sessanta e Settanta spostarsi non era facile. Le strade non erano asfaltate, in compenso c’era la stazione della ferrovia, ci lavorava un zu L.. Gli unici treni che si fermavano erano gli ‘accelerati’. Erano molto lenti, ma sarebbe stato complicato per i borgatari andare e venire da Messina o Palermo senza quei treni.Solo G. C. aveva la macchina, una Seicento beige ultimo modello. Con quell’auto una volta mi porto a Villa Margi per offrirmi un gelato, era il mio padrino, ma solo sulla carta, non feci mai la comunione. I contrasti politici che abbiamo avuto negli anni dell’adolescenza si sanarono in parte solo tre decenni più tardi, anche se ognuno rimase sempre della sua idea, la solidarietà del Borgo vinceva su tutto.
Quando si è giovani non si pensa al pericolo e alle conseguenze dei nostri comportamenti, le precauzioni arrivano con la consapevolezza che ti conferisce l’età e l’esperienza, ma a volte è troppo tardi, non fu così per noi
Andavamo a scuola a Santo Stefano di Camastra con gli autobus. Allora erano pieni di ragazzi e ragazze del Borgo. C’è stato un periodo in cui utilizzammo il servizio di noleggio ru zu C.. Viaggiavamo su una Fiat 750. Il costo era sovvenzionato dal Comune. Agevolazione questa che è stata mantenuta anche nei decenni successivi. Quando uscivamo tardi per tornare a casa facevamo la strada a piedi. Oggi sarebbe assurdo e pericoloso. Scendevamo da porta Palermo verso il campo da calcio ed attraversavamo di corsa il ponte della ferrovia. Lo facevamo con trepidazione. Il timore era di essere sorpresi dal passaggio di un treno. Ai lati dei binari c’erano delle postazioni di sicurezza, si fa per dire, da utilizzare in caso di necessità. Non le adoperammo mai, almeno non ricordo, ma quanta paura quando eravamo sul ponte. Guardavamo con preoccupazione davanti e dietro di noi, ma anche sotto dove scorreva il torrente. Non eravamo degli irresponsabili, capivamo il pericolo, ma non c’erano alternative se volevamo evitare di fare il giro lunga la statale.
Nel Borgo non mancavano mai le dispute e le piccole beghe, ma non c’era cattiveria ed erano il ‘sale’ ed un motivo di ‘pettegolezzo’
In via Nazionale, in prossimità ‘ru stazuni’, c’era un albero di fichi. Quando maturavano i frutti cominciavano le dispute su chi avesse diritto a coglierli. La controversia finì quando a za P. T. e la sua famiglia ci costruirono la loro casa. Fu subito rimpiazzato con un altro e, ovviamente, le dispute ripresero. Allora su quel lato della strada non c’erano abitazioni, solo ‘u stazuni’. Nel Borgo ce n’erano due, anzi tre se consideriamo anche quello di ‘Maccaruni’. Immaginavamo che in quel posto potesse essere costruito un campo da calcio, lo stadio dei torremuzzari. Erano solo fantasie, e non erano le sole. Sognavamo di fare una squadra di soli borgatari e di vincere le varie divisioni, non ci ponevamo limiti, persino di giungere in Serie A. Eravamo bravi con il pallone, ma queste erano solo illusioni adolescenziali e come tante altre non furono mai realizzate.
Eppure erano dolci pensieri ...
All’inizio di via San Giuseppe c’era una fontanella. Una foto in bianco e nero, scattata proprio in quel punto della strada, ritrae un soldato (americano?) che aiuta delle giovani borgatare a riempire 'u bummulu' d’acqua. Non ho mai capito chi fossero. Rimarrà una curiosità inappagata e non è la sola. Salendo quella via che allora era in terra battuta si arrivava Nzusu, dove c'è la Chiesa. Qui le case erano di proprietà del principe di Torremuzza e successivamente dei fratelli F.. La parte bassa e quella alta della frazione erano, per noi, due entità distinte e separate.
Torremuzza il paese della ‘puzza’, dicevano, ma non era vero, il vento di maestrale spingeva quasi sempre i cattivi odori dovuti alla lavorazione della sansa verso est, il lato opposto al Borgo
La vita della frazione è cambiata completamente dopo la Seconda guerra mondiale. Fino ad allora le attività principali erano state la pesca e, in parte, la campagna e l'artigianato. Le case di piazza Marina venivano adibite anche per salare e mettere sottovuoto nei ‘varaluocchi’ le acciughe pescate dagli zii durante la notte. Non ho ricordi specifici di quest’attività, ma, probabilmente, è continuata fino agli anni Cinquanta.
Nel nostro immaginario non c’è una Torremuzza senza la 'Raffineria', per noi era un ‘mostro’ parlante, familiare, faceva parte del nostro quotidiano, ha accompagnato la nostra adolescenza
All’inizio del Novecento in prossimità del mare c’era una fornace per la fabbricazione di materiale edile. La struttura per la raffinazione della sansa fu edificata proprio in quel posto. L’idea dei fratelli G. fu dirimente per i borgatari e non solo. Lo ‘Stabilimento’, come lo chiamavamo noi, funzionava bene perché utilizzava i residui dei frantoi d’olio. Attività questa molto prospera nel dopoguerra. L'olio prodotto non era di altissima qualità e gran parte di esso veniva esportato.
La sicurezza economica che quel 'lavoro' assicurò per oltre tre decenni permise la nascita di una comunità coesa e solidale
Di tanto in tanto sentivamo come un boato, sapevamo che dalla ciminiera ru Stabilimento stava uscendo a ‘nuzzulina’. Era il residuo della lavorazione della sansa. Si spargeva ovunque per le strade della frazione. Noi correvamo sotto i ponti o a casa per evitare di essere sporcati da questa specie di polvere che cadeva dal cielo. Durava pochi minuti, per noi non era inquinamento, ma un evento fastidioso e divertente nello stesso tempo. Non era così per le nostre mamme che avevano steso i panni ad asciugare al sole.
Le famiglie dei borgatari, in particolare dei dipendenti della Raffineria, utilizzavano quei residui della lavorazione per il riscaldamento invernale. I bracieri a forma di cerchio o di quadrato riscaldavano le case, si fa per dire, ma quello c’era e si poteva avere. Il combustibile era il carbone, residuo della cottura del pane cotto nel forno a legna, o come avveniva più spesso ‘a nuzzulina’ dello 'Stabilimento' che durava di meno, ma riscaldava di più.
Di notte gli operai scaricavano a mare anche i residui d’olio e delle sostanze che utilizzavano per la lavorazione della sansa. Non era raro d’estate vedere in prossimità della riva queste chiazze d’olio. Per fortuna i venti allontanavano l’odore e questi sversamenti ‘illegali’ verso il lato opposto alla spiaggia del Borgo. Nonostante ciò, ci consideravano il Paese della ‘puzza’, ma non era vero.
Non rinunciammo mai a giocare all’aperto e d’estate a fare il bagno.
Per una questione di privacy i nomi ed i soprannomi sono indicati con le iniziali. Chi li ha conosciuti o li conosce certamente capirà di chi si tratta
La fontanella di via San Giuseppe |
Solo G. C. aveva la macchina, una Seicento beige ultimo modello. Con quell’auto una volta mi porto a Villa Margi per offrirmi un gelato, era il mio padrino, ma solo sulla carta, non feci mai la comunione. I contrasti politici che abbiamo avuto negli anni dell’adolescenza si sanarono in parte solo tre decenni più tardi, anche se ognuno rimase sempre della sua idea, la solidarietà del Borgo vinceva su tutto.
Quando si è giovani non si pensa al pericolo e alle conseguenze dei nostri comportamenti, le precauzioni arrivano con la consapevolezza che ti conferisce l’età e l’esperienza, ma a volte è troppo tardi, non fu così per noi
Andavamo a scuola a Santo Stefano di Camastra con gli autobus. Allora erano pieni di ragazzi e ragazze del Borgo. C’è stato un periodo in cui utilizzammo il servizio di noleggio ru zu C.. Viaggiavamo su una Fiat 750. Il costo era sovvenzionato dal Comune. Agevolazione questa che è stata mantenuta anche nei decenni successivi. Quando uscivamo tardi per tornare a casa facevamo la strada a piedi. Oggi sarebbe assurdo e pericoloso. Scendevamo da porta Palermo verso il campo da calcio ed attraversavamo di corsa il ponte della ferrovia. Lo facevamo con trepidazione. Il timore era di essere sorpresi dal passaggio di un treno. Ai lati dei binari c’erano delle postazioni di sicurezza, si fa per dire, da utilizzare in caso di necessità. Non le adoperammo mai, almeno non ricordo, ma quanta paura quando eravamo sul ponte. Guardavamo con preoccupazione davanti e dietro di noi, ma anche sotto dove scorreva il torrente. Non eravamo degli irresponsabili, capivamo il pericolo, ma non c’erano alternative se volevamo evitare di fare il giro lunga la statale.
Nel Borgo non mancavano mai le dispute e le piccole beghe, ma non c’era cattiveria ed erano il ‘sale’ ed un motivo di ‘pettegolezzo’
In via Nazionale, in prossimità ‘ru stazuni’, c’era un albero di fichi. Quando maturavano i frutti cominciavano le dispute su chi avesse diritto a coglierli. La controversia finì quando a za P. T. e la sua famiglia ci costruirono la loro casa. Fu subito rimpiazzato con un altro e, ovviamente, le dispute ripresero. Allora su quel lato della strada non c’erano abitazioni, solo ‘u stazuni’. Nel Borgo ce n’erano due, anzi tre se consideriamo anche quello di ‘Maccaruni’. Immaginavamo che in quel posto potesse essere costruito un campo da calcio, lo stadio dei torremuzzari. Erano solo fantasie, e non erano le sole. Sognavamo di fare una squadra di soli borgatari e di vincere le varie divisioni, non ci ponevamo limiti, persino di giungere in Serie A. Eravamo bravi con il pallone, ma queste erano solo illusioni adolescenziali e come tante altre non furono mai realizzate.
Eppure erano dolci pensieri ...
All’inizio di via San Giuseppe c’era una fontanella. Una foto in bianco e nero, scattata proprio in quel punto della strada, ritrae un soldato (americano?) che aiuta delle giovani borgatare a riempire 'u bummulu' d’acqua. Non ho mai capito chi fossero. Rimarrà una curiosità inappagata e non è la sola. Salendo quella via che allora era in terra battuta si arrivava Nzusu, dove c'è la Chiesa. Qui le case erano di proprietà del principe di Torremuzza e successivamente dei fratelli F.. La parte bassa e quella alta della frazione erano, per noi, due entità distinte e separate.
Torremuzza il paese della ‘puzza’, dicevano, ma non era vero, il vento di maestrale spingeva quasi sempre i cattivi odori dovuti alla lavorazione della sansa verso est, il lato opposto al Borgo
La vita della frazione è cambiata completamente dopo la Seconda guerra mondiale. Fino ad allora le attività principali erano state la pesca e, in parte, la campagna e l'artigianato. Le case di piazza Marina venivano adibite anche per salare e mettere sottovuoto nei ‘varaluocchi’ le acciughe pescate dagli zii durante la notte. Non ho ricordi specifici di quest’attività, ma, probabilmente, è continuata fino agli anni Cinquanta.
Nel nostro immaginario non c’è una Torremuzza senza la 'Raffineria', per noi era un ‘mostro’ parlante, familiare, faceva parte del nostro quotidiano, ha accompagnato la nostra adolescenza
All’inizio del Novecento in prossimità del mare c’era una fornace per la fabbricazione di materiale edile. La struttura per la raffinazione della sansa fu edificata proprio in quel posto. L’idea dei fratelli G. fu dirimente per i borgatari e non solo. Lo ‘Stabilimento’, come lo chiamavamo noi, funzionava bene perché utilizzava i residui dei frantoi d’olio. Attività questa molto prospera nel dopoguerra. L'olio prodotto non era di altissima qualità e gran parte di esso veniva esportato.
La sicurezza economica che quel 'lavoro' assicurò per oltre tre decenni permise la nascita di una comunità coesa e solidale
Di tanto in tanto sentivamo come un boato, sapevamo che dalla ciminiera ru Stabilimento stava uscendo a ‘nuzzulina’. Era il residuo della lavorazione della sansa. Si spargeva ovunque per le strade della frazione. Noi correvamo sotto i ponti o a casa per evitare di essere sporcati da questa specie di polvere che cadeva dal cielo. Durava pochi minuti, per noi non era inquinamento, ma un evento fastidioso e divertente nello stesso tempo. Non era così per le nostre mamme che avevano steso i panni ad asciugare al sole.
Le famiglie dei borgatari, in particolare dei dipendenti della Raffineria, utilizzavano quei residui della lavorazione per il riscaldamento invernale. I bracieri a forma di cerchio o di quadrato riscaldavano le case, si fa per dire, ma quello c’era e si poteva avere. Il combustibile era il carbone, residuo della cottura del pane cotto nel forno a legna, o come avveniva più spesso ‘a nuzzulina’ dello 'Stabilimento' che durava di meno, ma riscaldava di più.
Di notte gli operai scaricavano a mare anche i residui d’olio e delle sostanze che utilizzavano per la lavorazione della sansa. Non era raro d’estate vedere in prossimità della riva queste chiazze d’olio. Per fortuna i venti allontanavano l’odore e questi sversamenti ‘illegali’ verso il lato opposto alla spiaggia del Borgo. Nonostante ciò, ci consideravano il Paese della ‘puzza’, ma non era vero.
Non rinunciammo mai a giocare all’aperto e d’estate a fare il bagno.
venerdì 8 ottobre 2021
Gli zii e le zie di Torremuzza (parte quarta)
Per una questione di privacy i nomi ed i soprannomi sono indicati con le iniziali. Chi li ha conosciuti o li conosce certamente capirà di chi si tratta

Torremuzza, 'Nzusu' - (foto di Giovanni Pulvino)
Sembrerà strano, ma pur essendo un Borgo marinaro c’era chi viveva in e di ‘campagna’
U zu C. era uno dei pochi torremuzzari che sapesse fare il ‘malocchio’. Gli bastava poggiare sopra la testa dell’infermo, si fa per dire, un piatto riempito di acqua macchiata con qualche goccia di olio e ripetere sottovoce qualche preghiera. Il rimedio era ‘miracoloso’, faceva passare il mal di testa o almeno così ci si illudeva che fosse. Lui, insieme a za N. di Nzusu, vivevano in ‘campagna’ che per noi era la parte alta della frazione. I loro figli, nostri coetanei, non li vedevamo quasi mai, anche quando si facevano iniziative collettive come quella del gruppo folcloristico. Una volta un nostro amico, sempre quello che mi faceva vincere le partite anche se giocavo da solo, si recò nella loro abitazione, non ricordo il perché, ma non importa. Fu morso dal cane che avevano addestrato per fare la guardia e che per questo era legato, ma non bastò per evitare l’aggressione. Non ci andò mai più.
Per una questione di sicurezza ne avevano sempre uno davanti casa. Per un certo periodo adottarono un pastore tedesco, stava davanti all’uscio, quando ti vedeva arrivare ti ‘osservava’ con diffidenza, non so quante volte ho rischiato di essere azzannato, ma per loro era innocuo.
'Noblesse oblige', ma non per noi, la loro indifferenza era anche la nostra
I fratelli F. erano i proprietari della Torre. Acquistarono la struttura insieme al latifondo dagli eredi del principe di Torremuzza diventato dopo l’unità d’Italia senatore del Regno. Erano i latifondisti del Borgo. Ogni tanto li vedevamo passare, ma non davano confidenza a nessuno o quasi. Si comportavano da ‘nobili’, almeno questa era la nostra impressione. Nonostante ciò, un nostro coetaneo si invaghi della figlia di uno di questi proprietari. Una volta eravamo in spiaggia e notai che non distoglieva mai lo sguardo in direzione della Torre. Non credo che successe mai ‘nulla’, la distanza tra i borgatari e i presunti ‘nobili’ era tanta. Fu un amore platonico, uno dei tanti.
A za R. e suo marito non li vedevamo quasi mai. Vivevano anche loro di e in ‘campagna’. Una volta entrai nella loro casa, non so perché lo feci, era una dimora modesta, un unico ambiente, ma pulito ed accogliente come una reggia. La dignità e la serietà delle persone si misurano da queste piccole cose, il denaro conta, facilita la nostra breve esistenza, ma non è tutto.
La musica ed i balli sono una fonte infinita di ricordi, uno di questi è il Fox, ma non sono sicuro che sia questo il nome giusto
C’è stato un periodo in cui organizzavamo le serate del cenone nella sede dell’Associazione culturale di Torremuzza. In una di queste decidemmo di comprare dei piccoli regali per i membri più anziani. Spendemmo poche Lire, ma quel pensierino Li colse di sorpresa. Tra loro c’era u zu V.. Stava seduto a capotavola e, come tutti gli altri, stava trascorrendo un fine anno tra i più belli della sua vita. Raramente lo vedevi per le strade del Borgo, ma quando si organizzava un’attività di gruppo era sempre presente. Era bravo a ballare il Fox. Ovviamente ci insegnò le figure più significative. Quel ballo, poi, lo ripetemmo tante volte. Ed era uno di quelli messi in scena con il gruppo folcloristico. Imparavamo dalle persone più grandi.
La cultura di un popolo si trasmette così, oggi è solo memoria a perdere, come tutto
Nel 1970 non avevamo ancora la televisione, ma questo non ci impedì di vedere la semifinale dei mondiali del Messico. Eravamo in casa ru zu C. che allora abitava nel cortile Marina. La partita Italia - Germania federale fu trasmessa di sera tardi e, ad un certo punto, ci addormentammo. Rimangono solo alcune immagini scolorite, ma sono lì e non vanno via, non per me almeno. Il gol del pareggio ad oltre due minuti dal termine dei tempi regolamentari del milanista Schnellinger con Gianni Rivera che abbraccia il palo in segno di disperazione e nel secondo tempo supplementare la rete decisiva del 4 a 3 che sembra un calcio di rigore in movimento realizzato dallo stesso campione del Milan sono impresse nella mia memoria. Quante emozioni quella sera e ogni volta che vediamo le repliche della partita considerata da molti come la più bella di tutti i tempi.
Tutto era in bianco e nero, nulla era dovuto, era poco ma tutto era più vero
Le prime trasmissioni televisive i torremuzzari le hanno viste in un locale che probabilmente era di un’associazione, ‘a pignone’, ma non sono sicuro che sia questo il nome giusto. È un ricordo scolorito, molto. Una volta ci andammo con mio padre, ma non riesco a rammentare quale trasmissione vedemmo.
Durò poco. Presto in tutte le case trovò posto un televisore, eravamo in pieno boom economico e la vita degli italiani, anche dei meridionali, cambiò. Non era più il tempo della ‘parsimonia’ contadina e marinara, ma era iniziato quello del consumismo, del superfluo e dello spreco.
In quel luogo aprì poco tempo dopo l’ufficio postale, uno dei due locali pubblici che i borgatari frequentavano, l’altro era ‘u tabacchinu’. Quest’ultimo fungeva anche da generi alimentari e da bar. A za R. e u zu V. lo gestivano anche a credito. Allora occorreva aspettare la paga mensile o settimanale anche per fare la spesa o per pagare il debito accumulato. D'estate lì compravamo il gelato. Una 'scaletta' (cremino) costava poche 'lire', aveva un sapore indefinibile, forse perché i nostri genitori non ci viziavano, era come la carne o il pranzo della domenica. Era un'abitudine settimanale, l'attesa accresceva il desiderio e il piacere di gustare lentamente il sapore della crema al latte ricoperta da un sottile strato di cioccolata. O semplicemente era un ghiacciolo, potevi scegliere il gusto che volevi, stando attento a godertelo prima che si sciogliesse. Oppure era un 'fortunello', metà biscotto e metà gelato. Il cornetto dell'Algida o il croccante dell'Eldorado vennero dopo, ma in un certo senso erano i gelati dei ricchi, perché costavano di più, ma a noi non importava, preferivamo sempre la 'scaletta', quella della nostra infanzia, degli anni perduti e del tempo andato, dei ricordi a perdere, come tutto.
Al posto della piazzetta che c'è davanti al tabacchino c’era una specie di viottolo in terra battuta. Prima di sbucare 'na Vanedra', girava ad angolo e c’era sempre il rischio di scivolare. Mi capitò di cadere, la suola degli zoccoli era di gomma dura e scivolare era quasi inevitabile, ma non mi feci nulla. Una volta su quello spiazzo assistetti ad una disputa ‘politica’ tra S. e G., durò poco ma fu molto accesa, allora si viveva di ideali e le opinioni erano inconciliabili.
Chissà perché questo ricordo torna sempre ed altri invece no. La nostra mente è incomprensibile, non possiamo farci nulla, solo subire
Una volta per comprare le sigarette lì, al tabacchino, si fermò un cantante famoso, fu semplice riconoscerlo, era Nicola di Bari. La voce si sparse subito. Per i pochi borgatari che accorsero nello spiazzo davanti all’entrata del tabacchino fu un momento di euforia e novità.
Quante volte abbiamo cantato le sue canzoni e non solo, in quegli anni bastava una chitarra per fare gruppo. Quando andavo a Messina per gli esami universitari mi ritagliavo un momento per comprare uno spartito o le corde di ricambio. Lo percepivo come un impegno anche se nessuno mi obbligava. Per mesi ho strimpellato le tonalità del Re e del Sol fino a farmi venire i calli sui polpastrelli delle dita. Eravamo autodidatti, imparavamo in fretta. Lo facevamo per il desiderio di conoscenza e per acquisire competenze nuove. Nello stesso tempo ci serviva per socializzare. Per noi era una necessità ineludibile ed ineliminabile. Spesso suonavo da solo, ma ogni occasione era buona per condividere qualche canzone. In riva al mare, sulle panchine della piazzetta o quelle di via nazionale e in tutte le occasioni in cui c’era convivialità e voglia di cantare, bastava una chitarra e …
'Questa di Marinella è la storia vera, che scivolò sul fiume a primavera, ma il vento che la vide così bella, dal fiume la portò sopra una stella' ...
Per una questione di privacy i nomi ed i soprannomi sono indicati con le iniziali. Chi li ha conosciuti o li conosce certamente capirà di chi si tratta
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Torremuzza, 'Nzusu' - (foto di Giovanni Pulvino) |
U zu C. era uno dei pochi torremuzzari che sapesse fare il ‘malocchio’. Gli bastava poggiare sopra la testa dell’infermo, si fa per dire, un piatto riempito di acqua macchiata con qualche goccia di olio e ripetere sottovoce qualche preghiera. Il rimedio era ‘miracoloso’, faceva passare il mal di testa o almeno così ci si illudeva che fosse. Lui, insieme a za N. di Nzusu, vivevano in ‘campagna’ che per noi era la parte alta della frazione. I loro figli, nostri coetanei, non li vedevamo quasi mai, anche quando si facevano iniziative collettive come quella del gruppo folcloristico. Una volta un nostro amico, sempre quello che mi faceva vincere le partite anche se giocavo da solo, si recò nella loro abitazione, non ricordo il perché, ma non importa. Fu morso dal cane che avevano addestrato per fare la guardia e che per questo era legato, ma non bastò per evitare l’aggressione. Non ci andò mai più.
Per una questione di sicurezza ne avevano sempre uno davanti casa. Per un certo periodo adottarono un pastore tedesco, stava davanti all’uscio, quando ti vedeva arrivare ti ‘osservava’ con diffidenza, non so quante volte ho rischiato di essere azzannato, ma per loro era innocuo.
'Noblesse oblige', ma non per noi, la loro indifferenza era anche la nostra
I fratelli F. erano i proprietari della Torre. Acquistarono la struttura insieme al latifondo dagli eredi del principe di Torremuzza diventato dopo l’unità d’Italia senatore del Regno. Erano i latifondisti del Borgo. Ogni tanto li vedevamo passare, ma non davano confidenza a nessuno o quasi. Si comportavano da ‘nobili’, almeno questa era la nostra impressione. Nonostante ciò, un nostro coetaneo si invaghi della figlia di uno di questi proprietari. Una volta eravamo in spiaggia e notai che non distoglieva mai lo sguardo in direzione della Torre. Non credo che successe mai ‘nulla’, la distanza tra i borgatari e i presunti ‘nobili’ era tanta. Fu un amore platonico, uno dei tanti.
A za R. e suo marito non li vedevamo quasi mai. Vivevano anche loro di e in ‘campagna’. Una volta entrai nella loro casa, non so perché lo feci, era una dimora modesta, un unico ambiente, ma pulito ed accogliente come una reggia. La dignità e la serietà delle persone si misurano da queste piccole cose, il denaro conta, facilita la nostra breve esistenza, ma non è tutto.
La musica ed i balli sono una fonte infinita di ricordi, uno di questi è il Fox, ma non sono sicuro che sia questo il nome giusto
C’è stato un periodo in cui organizzavamo le serate del cenone nella sede dell’Associazione culturale di Torremuzza. In una di queste decidemmo di comprare dei piccoli regali per i membri più anziani. Spendemmo poche Lire, ma quel pensierino Li colse di sorpresa. Tra loro c’era u zu V.. Stava seduto a capotavola e, come tutti gli altri, stava trascorrendo un fine anno tra i più belli della sua vita. Raramente lo vedevi per le strade del Borgo, ma quando si organizzava un’attività di gruppo era sempre presente. Era bravo a ballare il Fox. Ovviamente ci insegnò le figure più significative. Quel ballo, poi, lo ripetemmo tante volte. Ed era uno di quelli messi in scena con il gruppo folcloristico. Imparavamo dalle persone più grandi.
La cultura di un popolo si trasmette così, oggi è solo memoria a perdere, come tutto
Nel 1970 non avevamo ancora la televisione, ma questo non ci impedì di vedere la semifinale dei mondiali del Messico. Eravamo in casa ru zu C. che allora abitava nel cortile Marina. La partita Italia - Germania federale fu trasmessa di sera tardi e, ad un certo punto, ci addormentammo. Rimangono solo alcune immagini scolorite, ma sono lì e non vanno via, non per me almeno. Il gol del pareggio ad oltre due minuti dal termine dei tempi regolamentari del milanista Schnellinger con Gianni Rivera che abbraccia il palo in segno di disperazione e nel secondo tempo supplementare la rete decisiva del 4 a 3 che sembra un calcio di rigore in movimento realizzato dallo stesso campione del Milan sono impresse nella mia memoria. Quante emozioni quella sera e ogni volta che vediamo le repliche della partita considerata da molti come la più bella di tutti i tempi.
Tutto era in bianco e nero, nulla era dovuto, era poco ma tutto era più vero
Le prime trasmissioni televisive i torremuzzari le hanno viste in un locale che probabilmente era di un’associazione, ‘a pignone’, ma non sono sicuro che sia questo il nome giusto. È un ricordo scolorito, molto. Una volta ci andammo con mio padre, ma non riesco a rammentare quale trasmissione vedemmo.
Durò poco. Presto in tutte le case trovò posto un televisore, eravamo in pieno boom economico e la vita degli italiani, anche dei meridionali, cambiò. Non era più il tempo della ‘parsimonia’ contadina e marinara, ma era iniziato quello del consumismo, del superfluo e dello spreco.
In quel luogo aprì poco tempo dopo l’ufficio postale, uno dei due locali pubblici che i borgatari frequentavano, l’altro era ‘u tabacchinu’. Quest’ultimo fungeva anche da generi alimentari e da bar. A za R. e u zu V. lo gestivano anche a credito. Allora occorreva aspettare la paga mensile o settimanale anche per fare la spesa o per pagare il debito accumulato. D'estate lì compravamo il gelato. Una 'scaletta' (cremino) costava poche 'lire', aveva un sapore indefinibile, forse perché i nostri genitori non ci viziavano, era come la carne o il pranzo della domenica. Era un'abitudine settimanale, l'attesa accresceva il desiderio e il piacere di gustare lentamente il sapore della crema al latte ricoperta da un sottile strato di cioccolata. O semplicemente era un ghiacciolo, potevi scegliere il gusto che volevi, stando attento a godertelo prima che si sciogliesse. Oppure era un 'fortunello', metà biscotto e metà gelato. Il cornetto dell'Algida o il croccante dell'Eldorado vennero dopo, ma in un certo senso erano i gelati dei ricchi, perché costavano di più, ma a noi non importava, preferivamo sempre la 'scaletta', quella della nostra infanzia, degli anni perduti e del tempo andato, dei ricordi a perdere, come tutto.
Al posto della piazzetta che c'è davanti al tabacchino c’era una specie di viottolo in terra battuta. Prima di sbucare 'na Vanedra', girava ad angolo e c’era sempre il rischio di scivolare. Mi capitò di cadere, la suola degli zoccoli era di gomma dura e scivolare era quasi inevitabile, ma non mi feci nulla. Una volta su quello spiazzo assistetti ad una disputa ‘politica’ tra S. e G., durò poco ma fu molto accesa, allora si viveva di ideali e le opinioni erano inconciliabili.
Chissà perché questo ricordo torna sempre ed altri invece no. La nostra mente è incomprensibile, non possiamo farci nulla, solo subire
Una volta per comprare le sigarette lì, al tabacchino, si fermò un cantante famoso, fu semplice riconoscerlo, era Nicola di Bari. La voce si sparse subito. Per i pochi borgatari che accorsero nello spiazzo davanti all’entrata del tabacchino fu un momento di euforia e novità.
Quante volte abbiamo cantato le sue canzoni e non solo, in quegli anni bastava una chitarra per fare gruppo. Quando andavo a Messina per gli esami universitari mi ritagliavo un momento per comprare uno spartito o le corde di ricambio. Lo percepivo come un impegno anche se nessuno mi obbligava. Per mesi ho strimpellato le tonalità del Re e del Sol fino a farmi venire i calli sui polpastrelli delle dita. Eravamo autodidatti, imparavamo in fretta. Lo facevamo per il desiderio di conoscenza e per acquisire competenze nuove. Nello stesso tempo ci serviva per socializzare. Per noi era una necessità ineludibile ed ineliminabile. Spesso suonavo da solo, ma ogni occasione era buona per condividere qualche canzone. In riva al mare, sulle panchine della piazzetta o quelle di via nazionale e in tutte le occasioni in cui c’era convivialità e voglia di cantare, bastava una chitarra e …
'Questa di Marinella è la storia vera, che scivolò sul fiume a primavera, ma il vento che la vide così bella, dal fiume la portò sopra una stella' ...
sabato 11 settembre 2021
Gli zii e le zie di Torremuzza (parte terza)
Per una questione di privacy i nomi ed i soprannomi sono indicati con le iniziali. Chi li ha conosciuti o li conosce certamente capirà di chi si tratta

Torremuzza, l'arco centrale del ponte della ferrovia - (foto di Antonino Ciccia)
Il super Santos bucato o sgonfio a noi bastava.
Quante partite a tennis o qualcosa di simile abbiamo fatto sotto i ponti della ferrovia, da un lato il mare dall’altro le case del Borgo, in mezzo noi al riparo dal sole o dalla pioggia. Lì giocavamo spensierati con un pallone di plastica che per noi era tutto, non avevamo bisogno d’altro.
Piazza Marina era ancora in terra battuta e, nonostante le pietre e la polvere, ci giocavamo sempre, sembrava un campo di calcetto. Nella parte alta c’era pure una fontanella, lì vicino caddi e mi spaccai la testa, non fu l'unica volta che successe. Un giorno ero con la bici, vidi un pezzetto di legno o qualcosa del genere, pensai, è un rialzo perfetto per fare impennare la ruota davanti, ma esagerai e finì per terra. Per fortuna quelle botte sulla nuca non mi provocarono molti danni, almeno così ricordo. Quegli episodi si limitarono ad un pò di paura e qualche goccia di sangue. Non fu così tanti anni dopo.
Il tempo passa, gli ambienti si modificano, ma le abitudini ed i pensieri restano, non puoi evitarli, stanno lì che aspettano, inesorabili anche se non vuoi
Avevamo l’abitudine di fare le partite nella parte alta di piazza Marina. Era stata pavimentata da poco, si sentiva ancora ‘l’odore’ delle mattonelle, non c’era una crepa o un avvallamento. Era adatta per correre con la bici, noi ne avevamo una, ma bastava per tutti.
Un dolce pensiero torna sempre
E' l'immagine di un'amica, nostra coetanea. Spesso La vedevo girare con la sua graziella tra i ponti e lo spiazzo davanti alle case, non correva, pedalava leggera, scivolava inconsapevole negli anni più belli della sua esistenza, probabilmente ha goduto di quei momenti, di quell'adolescenza che non tornerà più, mai più. Chissà se anche Lei ricorda quella felicità e quella spensieratezza che ora restano 'fissate' per sempre nella mia memoria.
Ed era perfetto per giocare a calcetto, allora non c'erano macchine
Le porte erano delimitate da due pietre. Le linee laterali erano il marciapiede che divideva la parte alta da quella bassa della piazza e quello che correva lungo gli ingressi delle case. L’uscio di una di queste veniva aperto ‘apposta’ ogni volta che iniziavamo una partita. Era la casetta da za P.. Di solito stava seduta, in compagnie delle sorelle a za C. e za A., di fronte al forno per fare il pane che c’era all’inizio della piazza e che tutti quelli che abitavano in quella parte del Borgo usavano a turno. Una specie di bene ad uso comune. Allora era possibile anche questo.
Nella porta accanto a quella da za P. ci abitava a za V.. Anche Lei non gradiva molto la nostra presenza, ma i suoi sguardi di rimprovero erano bonari, in fondo, in fondo Le faceva piacere vederci giocare vicino all’uscio di casa sua.
Ancora oggi non capisco il perché di quel comportamento, eravamo bambini buoni che rincorrevano un pallone di plastica, subivamo quell’astio senza reagire, era rispetto ed educazione.
Quando iniziavamo a giocare a za P. si alzava e quasi di corsa andava ad aprire la porta di casa. Il suo intento era quello di sequestrarci il super Santos nel caso in cui questo fosse entrato nella sua abitazione. Difficilmente questo avveniva, eppure quella zia non sopportava che giocassimo su quel lato della piazza. Alla fine, decidemmo di spostarci nella parte bassa.
Ci sono ricordi sbiaditi che vorresti cancellare, ma anch’essi ritornano sempre senza volere
Le illusioni ed i sogni adolescenziali andarono via quel giorno
Qui il rettangolo era più piccolo ed era delimitato dai ponti della ferrovia, ci giocammo fino a quando non fui vittima di due gravi infortuni. Causai e mi causai un enorme dolore, ma quando si è giovani non si è cauti e non si pensa alle conseguenze degli atti che si compiono. Oltre ai sacrifici che già dovevano sopportare gliene arrecai un altro. Non c’era nulla di male nel desiderio di giocare a pallone, ma a volte anche i gesti più innocenti segnano la nostra vita e quella degli altri. Per anni salì i gradini, anche quelli bassi, con il timore di cadere e di farmi male di nuovo. Poi ricominciai a giocare, ma, nonostante facessi attenzione, ho rischiato tante volte un altro infortunio grave.
Ricordo con precisone quell’anno perché il professore di Educazione fisica, allora si chiamava così, mi fece fare il salto in alto con il gesso all’avanbraccio sinistro, erano gli esami di terza Media.
Una volta, durante l’anno scolastico, lo stesso insegnante ci propose una corsa di resistenza. Ben presto rimanemmo in due. Il mio compagno, ad un giro dalla fine, mi propose di tagliare il traguardo insieme. Accettai. Quando arrivammo all’ultima curva tentò di distanziarmi tradendo il nostro piccolo patto, ma ero più forte e più bravo, lo passai di nuovo prima dell’arrivo. In seguito, non mostrai rancore per quel gesto, a cosa sarebbe servito?
La gentilezza e la tolleranza sono sempre importanti, anche quando ritieni di avere ragione o pensi di aver subito un torto
Lo stesso compagno, anche lui gemello, ma quante differenze di carattere e di ideali tra noi, era bravissimo nella pallavolo. Quando qualche settimana dopo partecipammo alle gare dei giochi della Gioventù che si svolserò a Messina il professore per impedirci di vincere ed andare alle finali a Roma lo tolse di squadre facendoci perdere.
Per una questione di privacy i nomi ed i soprannomi sono indicati con le iniziali. Chi li ha conosciuti o li conosce certamente capirà di chi si tratta
Torremuzza, l'arco centrale del ponte della ferrovia - (foto di Antonino Ciccia) |
Il super Santos bucato o sgonfio a noi bastava.
Quante partite a tennis o qualcosa di simile abbiamo fatto sotto i ponti della ferrovia, da un lato il mare dall’altro le case del Borgo, in mezzo noi al riparo dal sole o dalla pioggia. Lì giocavamo spensierati con un pallone di plastica che per noi era tutto, non avevamo bisogno d’altro.
Piazza Marina era ancora in terra battuta e, nonostante le pietre e la polvere, ci giocavamo sempre, sembrava un campo di calcetto. Nella parte alta c’era pure una fontanella, lì vicino caddi e mi spaccai la testa, non fu l'unica volta che successe. Un giorno ero con la bici, vidi un pezzetto di legno o qualcosa del genere, pensai, è un rialzo perfetto per fare impennare la ruota davanti, ma esagerai e finì per terra. Per fortuna quelle botte sulla nuca non mi provocarono molti danni, almeno così ricordo. Quegli episodi si limitarono ad un pò di paura e qualche goccia di sangue. Non fu così tanti anni dopo.
Il tempo passa, gli ambienti si modificano, ma le abitudini ed i pensieri restano, non puoi evitarli, stanno lì che aspettano, inesorabili anche se non vuoi
Avevamo l’abitudine di fare le partite nella parte alta di piazza Marina. Era stata pavimentata da poco, si sentiva ancora ‘l’odore’ delle mattonelle, non c’era una crepa o un avvallamento. Era adatta per correre con la bici, noi ne avevamo una, ma bastava per tutti.
Un dolce pensiero torna sempre
E' l'immagine di un'amica, nostra coetanea. Spesso La vedevo girare con la sua graziella tra i ponti e lo spiazzo davanti alle case, non correva, pedalava leggera, scivolava inconsapevole negli anni più belli della sua esistenza, probabilmente ha goduto di quei momenti, di quell'adolescenza che non tornerà più, mai più. Chissà se anche Lei ricorda quella felicità e quella spensieratezza che ora restano 'fissate' per sempre nella mia memoria.
Ed era perfetto per giocare a calcetto, allora non c'erano macchine
Le porte erano delimitate da due pietre. Le linee laterali erano il marciapiede che divideva la parte alta da quella bassa della piazza e quello che correva lungo gli ingressi delle case. L’uscio di una di queste veniva aperto ‘apposta’ ogni volta che iniziavamo una partita. Era la casetta da za P.. Di solito stava seduta, in compagnie delle sorelle a za C. e za A., di fronte al forno per fare il pane che c’era all’inizio della piazza e che tutti quelli che abitavano in quella parte del Borgo usavano a turno. Una specie di bene ad uso comune. Allora era possibile anche questo.
Nella porta accanto a quella da za P. ci abitava a za V.. Anche Lei non gradiva molto la nostra presenza, ma i suoi sguardi di rimprovero erano bonari, in fondo, in fondo Le faceva piacere vederci giocare vicino all’uscio di casa sua.
Ancora oggi non capisco il perché di quel comportamento, eravamo bambini buoni che rincorrevano un pallone di plastica, subivamo quell’astio senza reagire, era rispetto ed educazione.
Quando iniziavamo a giocare a za P. si alzava e quasi di corsa andava ad aprire la porta di casa. Il suo intento era quello di sequestrarci il super Santos nel caso in cui questo fosse entrato nella sua abitazione. Difficilmente questo avveniva, eppure quella zia non sopportava che giocassimo su quel lato della piazza. Alla fine, decidemmo di spostarci nella parte bassa.
Ci sono ricordi sbiaditi che vorresti cancellare, ma anch’essi ritornano sempre senza volere
Qui il rettangolo era più piccolo ed era delimitato dai ponti della ferrovia, ci giocammo fino a quando non fui vittima di due gravi infortuni. Causai e mi causai un enorme dolore, ma quando si è giovani non si è cauti e non si pensa alle conseguenze degli atti che si compiono. Oltre ai sacrifici che già dovevano sopportare gliene arrecai un altro. Non c’era nulla di male nel desiderio di giocare a pallone, ma a volte anche i gesti più innocenti segnano la nostra vita e quella degli altri. Per anni salì i gradini, anche quelli bassi, con il timore di cadere e di farmi male di nuovo. Poi ricominciai a giocare, ma, nonostante facessi attenzione, ho rischiato tante volte un altro infortunio grave.
Ricordo con precisone quell’anno perché il professore di Educazione fisica, allora si chiamava così, mi fece fare il salto in alto con il gesso all’avanbraccio sinistro, erano gli esami di terza Media.
Una volta, durante l’anno scolastico, lo stesso insegnante ci propose una corsa di resistenza. Ben presto rimanemmo in due. Il mio compagno, ad un giro dalla fine, mi propose di tagliare il traguardo insieme. Accettai. Quando arrivammo all’ultima curva tentò di distanziarmi tradendo il nostro piccolo patto, ma ero più forte e più bravo, lo passai di nuovo prima dell’arrivo. In seguito, non mostrai rancore per quel gesto, a cosa sarebbe servito?
La gentilezza e la tolleranza sono sempre importanti, anche quando ritieni di avere ragione o pensi di aver subito un torto
Lo stesso compagno, anche lui gemello, ma quante differenze di carattere e di ideali tra noi, era bravissimo nella pallavolo. Quando qualche settimana dopo partecipammo alle gare dei giochi della Gioventù che si svolserò a Messina il professore per impedirci di vincere ed andare alle finali a Roma lo tolse di squadre facendoci perdere.
lunedì 16 agosto 2021
Gli zii e le zie di Torremuzza (parte seconda)
Per una questione di privacy i nomi ed i soprannomi sono indicati con le iniziali. Chi li ha conosciuti o li conosce certamente capirà di chi si tratta
Ci sono pensieri che è difficile riportare, anche se ritornano con più continuità degli altriA za R., così la chiamavano tutti, ma non noi, i suoi figli. È difficile parlare e scrivere di Lei. Come è difficile parlare e scrivere du zu S., mio padre. Sono vissuti per mettere al mondo e per crescere nel migliore dei modi sei figli. Con i loro sacrifici ci hanno garantito un futuro sereno. Non avevano vizi, svolgevano due o tre lavori contemporaneamente ed avevano un senso della famiglia e della comunità che non è mai venuto meno. La loro gioia erano i nostri capricci, la nostra immaturità. Purtroppo, anche questo lo comprendi solo dopo. Quel giorno nell’aula magna dell’Università avevano gli occhi lucidi. Gli anni di studio sarebbero stati utili anche se fossero serviti solo per quel momento di commozione.
A volte di sera dovevo portare la cena a mio padre, operaio nello stabilimento dei fratelli G.. La strada era al buio e le uniche luci erano quelle della raffineria. All’arrivo gridavo per far sentire la mia presenza e per accelerare il ritorno a casa. Capitò poche volte, ma quanta paura ad andare e venire e soprattutto che impressione l’aspetto tetro della struttura ed il rumore cupo dei compressori. Allora non esisteva nessun obbligo sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, l’incendio che divampò quel giorno ci sorprese, ma considerata la precarietà dell'edificio fu un evento quasi annunciato. Certo fu dovuto ad un errore umano, ma in quelle condizioni era quasi inevitabile. Chi era di turno quella notte si salvò per 'miracolo', purtroppo non fu così per tutti. L'attività riprese poche settimane dopo, come se non fosse successo nulla.
Il richiamo delle terra natia è per noi borgatari irresistibile ed è lì che vuoi vivere gli ultimi giorni della tua vita
Chi non lavorava nello stabilimento o non riusciva a vivere in modo dignitoso del poco che dava la pesca era costretto a partire. Ancora oggi è così. All’inizio degli anni Settanta le famiglie emigravano anche dal Borgo. Una di queste fu quella ru zu F. e da za C.. Partì tutta la famiglia. Erano stati preceduti da un fratello, il più giovane: S.. Non hanno mai dimenticato la ‘leggerezza’ del Borgo, i tramonti, il mare, la pesca. Sono tornati da pensionati.
U T. e a za M. li vedevamo solo d’estate. Erano anche loro 'torremuzzari' migranti. Appartenevano a quei milioni di meridionali che negli anni Sessanta e Settanta hanno permesso con i loro sacrifici il boom economico in Italia ed in Europa. Hanno vissuto in Germania oltre due decenni. Anche loro sono rientrati in Sicilia da pensionati. Con il frutto del loro lavoro hanno comprato una casa nel Borgo. E non sono stati i soli. Allora anche con il salario di un operaio era possibile farlo, ma occorrevano tanti sacrifici. Era una generazione parsimoniosa, che sapeva trasformare una Lira in un patrimonio. Dobbiamo molto a quegli uomini e a quelle donne. Lo hanno fatto per noi.
Un'altra famiglia che emigrò fu quella du L.. che aveva la mia età. Prima di partire fece in tempo ad insegnarci ad andare in bicicletta. Era uno dei pochi a possederla. Nzusu’, dove abitava, non c’erano auto e non c’era pericolo di finire contro un muro, ma le cadute ci furono lo stesso. Imparammo in un pomeriggio. La bici che ci comprarono qualche mese dopo i nostri genitori servì per sei figli e per qualche cugino, era la mitica ‘Graziella’.
Un Borgo marinaro, Torremuzza era questo
U zu P. (e a za R.). Come tutti i 'torremuzzari' aveva una passione senza se e senza ma per il calcio e per il gioco del Totocalcio. Essendo un pescatore non mancava mai di ascoltare il bollettino meteorologico trasmesso dalla radio. Per essere sicuri delle previsioni bastava chiedere a Lui. La sua giornata o nottata lavorativa dipendevano dal tempo. In particolare, dal vento e dalle condizioni del mare. Quello dei pescatori è un lavoro precario, dipende dalle condizioni meteorologiche e dalla ‘fortuna’ di aver ‘calato’ le reti nel posto giusto. Allora era così ed i sussidi statali non c’erano.
Sulla spiaggia c’erano i relitti dei pescarecci che di certo gli zii pescatori del Borgo avevano utilizzato da giovani. Erano ‘lupi di mare’ e non era raro vederli seduti su un marciapiede intenti a rammendare le reti che qualche pesce che non voleva morire aveva bucato. Nella cattiva stagione li vedevi intenti ad assemblarle in cataste ben ordinate ed a riporle nei magazzini o a spostare le barche sotto i ponti, al riparo dalle piogge invernali.
Pescatori, erano solo pescatori. Eppure, sono stati capaci di garantire una vita dignitosa alle loro famiglie, allora assai numerose
In fondo a piazza Marina c’è una casa che sembra una villetta. Il pergolato, uno spazio per l’orto, un giardinetto ben curato ed una stradina per arrivarci. Un posto quasi isolato, almeno così ci sembrava allora. Ci andavamo solo per recuperare il pallone quando varcava involontariamente il cortile di quell’abitazione. Ci abitava u zu R. e la sua famiglia. Lo vedevi passare sotto i ponti per recarsi in spiaggia o seduto davanti casa a riparare le reti per la pesca. Era una figura minuta, non ricordo il tono della sua voce e, come per la maggior parte dei borgatari, è vissuto per il mare e per la famiglia.
Per una questione di privacy i nomi ed i soprannomi sono indicati con le iniziali. Chi li ha conosciuti o li conosce certamente capirà di chi si tratta
Ci sono pensieri che è difficile riportare, anche se ritornano con più continuità degli altriA za R., così la chiamavano tutti, ma non noi, i suoi figli. È difficile parlare e scrivere di Lei. Come è difficile parlare e scrivere du zu S., mio padre. Sono vissuti per mettere al mondo e per crescere nel migliore dei modi sei figli. Con i loro sacrifici ci hanno garantito un futuro sereno. Non avevano vizi, svolgevano due o tre lavori contemporaneamente ed avevano un senso della famiglia e della comunità che non è mai venuto meno. La loro gioia erano i nostri capricci, la nostra immaturità. Purtroppo, anche questo lo comprendi solo dopo. Quel giorno nell’aula magna dell’Università avevano gli occhi lucidi. Gli anni di studio sarebbero stati utili anche se fossero serviti solo per quel momento di commozione.
A volte di sera dovevo portare la cena a mio padre, operaio nello stabilimento dei fratelli G.. La strada era al buio e le uniche luci erano quelle della raffineria. All’arrivo gridavo per far sentire la mia presenza e per accelerare il ritorno a casa. Capitò poche volte, ma quanta paura ad andare e venire e soprattutto che impressione l’aspetto tetro della struttura ed il rumore cupo dei compressori. Allora non esisteva nessun obbligo sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, l’incendio che divampò quel giorno ci sorprese, ma considerata la precarietà dell'edificio fu un evento quasi annunciato. Certo fu dovuto ad un errore umano, ma in quelle condizioni era quasi inevitabile. Chi era di turno quella notte si salvò per 'miracolo', purtroppo non fu così per tutti. L'attività riprese poche settimane dopo, come se non fosse successo nulla.
Il richiamo delle terra natia è per noi borgatari irresistibile ed è lì che vuoi vivere gli ultimi giorni della tua vita
Chi non lavorava nello stabilimento o non riusciva a vivere in modo dignitoso del poco che dava la pesca era costretto a partire. Ancora oggi è così. All’inizio degli anni Settanta le famiglie emigravano anche dal Borgo. Una di queste fu quella ru zu F. e da za C.. Partì tutta la famiglia. Erano stati preceduti da un fratello, il più giovane: S.. Non hanno mai dimenticato la ‘leggerezza’ del Borgo, i tramonti, il mare, la pesca. Sono tornati da pensionati.
U T. e a za M. li vedevamo solo d’estate. Erano anche loro 'torremuzzari' migranti. Appartenevano a quei milioni di meridionali che negli anni Sessanta e Settanta hanno permesso con i loro sacrifici il boom economico in Italia ed in Europa. Hanno vissuto in Germania oltre due decenni. Anche loro sono rientrati in Sicilia da pensionati. Con il frutto del loro lavoro hanno comprato una casa nel Borgo. E non sono stati i soli. Allora anche con il salario di un operaio era possibile farlo, ma occorrevano tanti sacrifici. Era una generazione parsimoniosa, che sapeva trasformare una Lira in un patrimonio. Dobbiamo molto a quegli uomini e a quelle donne. Lo hanno fatto per noi.
Un'altra famiglia che emigrò fu quella du L.. che aveva la mia età. Prima di partire fece in tempo ad insegnarci ad andare in bicicletta. Era uno dei pochi a possederla. Nzusu’, dove abitava, non c’erano auto e non c’era pericolo di finire contro un muro, ma le cadute ci furono lo stesso. Imparammo in un pomeriggio. La bici che ci comprarono qualche mese dopo i nostri genitori servì per sei figli e per qualche cugino, era la mitica ‘Graziella’.
Un Borgo marinaro, Torremuzza era questo
U zu P. (e a za R.). Come tutti i 'torremuzzari' aveva una passione senza se e senza ma per il calcio e per il gioco del Totocalcio. Essendo un pescatore non mancava mai di ascoltare il bollettino meteorologico trasmesso dalla radio. Per essere sicuri delle previsioni bastava chiedere a Lui. La sua giornata o nottata lavorativa dipendevano dal tempo. In particolare, dal vento e dalle condizioni del mare. Quello dei pescatori è un lavoro precario, dipende dalle condizioni meteorologiche e dalla ‘fortuna’ di aver ‘calato’ le reti nel posto giusto. Allora era così ed i sussidi statali non c’erano.
Sulla spiaggia c’erano i relitti dei pescarecci che di certo gli zii pescatori del Borgo avevano utilizzato da giovani. Erano ‘lupi di mare’ e non era raro vederli seduti su un marciapiede intenti a rammendare le reti che qualche pesce che non voleva morire aveva bucato.
Pescatori, erano solo pescatori. Eppure, sono stati capaci di garantire una vita dignitosa alle loro famiglie, allora assai numerose
In fondo a piazza Marina c’è una casa che sembra una villetta. Il pergolato, uno spazio per l’orto, un giardinetto ben curato ed una stradina per arrivarci. Un posto quasi isolato, almeno così ci sembrava allora. Ci andavamo solo per recuperare il pallone quando varcava involontariamente il cortile di quell’abitazione. Ci abitava u zu R. e la sua famiglia. Lo vedevi passare sotto i ponti per recarsi in spiaggia o seduto davanti casa a riparare le reti per la pesca. Era una figura minuta, non ricordo il tono della sua voce e, come per la maggior parte dei borgatari, è vissuto per il mare e per la famiglia.
lunedì 2 agosto 2021
Gli zii e le zie di Torremuzza (parte prima)
Per una questione di privacy i nomi ed i soprannomi sono indicati con le iniziali. Chi li ha conosciuti o li conosce certamente capirà di chi si tratta

Nei piccoli paesi non puoi sceglierti gli amici, quelli sono. E non può sceglierti neanche gli anziani o comunque quelli che da adolescenti ti sembrano tali. Ti rimangono impressi nella memoria. Sono lì a suggerirti un ricordo, un momento di vita che non va via. Stanno in un angolo della memoria pronti a ridestarsi senza volere, basta una parola o un’immagine per farli riapparire scoloriti ed incerti come tutto, come tutti, ma ritornano sempre.Un sorriso ed un saluto a volte valgono più di ogni altra cosa
U zu P. e a za R. d’estate stavano quasi sempre in piazza Marina davanti all’uscio di casa ed era inevitabile ricevere il loro saluto dal ritorno dalla spiaggia. Poi un giorno non li vedi più, se n’erano andati. Erano una casalinga ed un pescatore come allora ce n’erano tanti nel piccolo Borgo marinaro. Chi non lavorava nello stabilimento di raffinazione della sansa, viveva di pesca e di poco altro.
Le tragedie non guardano in faccia a nessuno, puoi solo subirle con dignità e con la consapevolezza che si possono verificare in qualunque momento e che, anche se vorresti, non puoi impedirle
C. lo incontravi appoggiato su una barca o seduto sulla sabbia o su una pietra su un lato della stessa per coprirsi dal sole di luglio. Stava lì a godersi il mare e non solo. Guardando i bagnanti gli scappava sempre una battuta un po' ‘malandrina’ e noi per pudore non dicevamo nulla, anche se non eravamo convinti di quelle parole. Viveva in una casetta di fronte allo stabilimento. Chissà cosa avranno provato lui e la moglie quando scoppiò l’incendio. Due operai rimasero carbonizzati. Uno fu trovato sotto la scala di ferro rannicchiato nel vano tentativo di proteggersi dal fumo e dalle fiamme. Almeno questo si disse. Quella notte ci fu chi si salvò saltando il muretto che delimitava lo stabilimento e che costeggiava la spiaggia. Tra il suono delle sirene dei vigili del fuoco e il crepitare del fuoco alto decine di metri, scappammo da Torremuzza. Il pericolo che tutto il Borgo potesse esplodere da un momento all’altro era concreto. Mia nonna per sicurezza ci portò a Caronia montagna dove vivevano i suoi parenti.
Noi eravamo troppo piccoli per capire il senso di quella tragedia. Un nostro amico è cresciuto senza il papà, ma non ricordo una nostra battuta o invettiva che glielo ricordasse. Eravamo bambini buoni. L’amicizia era vera e sincera. Allora non sapevamo nulla delle morti sul lavoro, di padri di famiglia che escono di casa per non farvi più ritorno. Anche queste sono consapevolezza che si acquisiscono da adulti.
Nel Borgo non c’era quello che a torto o a ragione viene definito come ‘lo scemo del villaggio’, in compenso non mancavano certi comportamenti e certe abitudini che ci sembravano delle ‘stranezze’
Una volta entrai nell’abitazione di una signora che allora mi parse molto anziana. Viveva sola. Non ricordo perché ci andai, ma non importa. Era gentile, ma era, a detta di tutti, diciamo così poco attenta alle pulizie. La chiamavamo a F. Non so se il nome derivasse da questa sua caratteristica ‘particolare’ o se fosse invece il diminutivo di uno vero. Il mio ricordo nasce probabilmente da questa sua scarsa attenzione all’ordine e alla pulizia o più semplicemente dalla nomina che si era fatta. Nelle borgate basta poco per essere tacciati di questo o quel ‘vizio’, vero o falso che sia.
I pizzicotti sulle guance erano fastidiosi, ma tant’è li subivamo senza nessuna lamentela
C’era il papà di un mio amico, quello che mi faceva vincere le partite a calcio anche se giocavo da solo, che aveva la brutta abitudine di salutarci con un bacio e un pizzicotto sulla guancia. U zu V. aveva i capelli bianchi, ma proprio tutti, almeno così lo ricordo. Era un pescatore ed era un appassionato del gioco dello scopone, delle bocce e del ballo liscio, in particolare della mazurca. Per tenere il ritmo batteva il piede destro sul pavimento facendo uno strano rumore che richiamava l’attenzione di tutti.
A za M. era una persona paziente e buona di carattere, del resto chi altri avrebbe potuto stare accanto ad un uomo misogino ed irriverente? La sua fiducia sulle mie capacità contabili era senza se e senza ma. Non l’ho mai ringraziata per questo. Lo faccio ora anche se non serve a nulla.
Il nonno di N. aveva una caratteristica inconfondibile. Quando doveva chiamare il nipote lo faceva con un fischio. Si metteva sulla postazione che si trova nella parte alta del borgo e cominciava il richiamo. Non ci colpiva solo quella specie di sibilo ma anche il fatto che il nostro amico andasse via subito. Bastava quel segnale ed era già a casa.
La mamma è sempre la mamma, lo imparammo quel giorno
La mamma di P. ogni tanto arrivava con una fetta di pane enorme, di quello fatto in casa, era colma di nutella. Era la merendina, si fa per dire, di P.. Non c’era giorno che la scena non si ripetesse. Non avevamo invidia, piuttosto non capivamo quel rapporto tra madre e figlio. Noi, pur essendo piccoli, ci sentivamo già grandi ed autonomi. Nella nostra presunzione di adolescenti mai avremmo accettato un gesto simile dalla nostra mamma, infatti non successe mai o quasi. Solo una volta. Mi vergogno ancora oggi della mia reazione. In Lei c’era un forte senso di colpa per aver ritardato il suo compito mattutino e soprattutto per aver compiuto un’esagerazione nel tentativo di porvi rimedio. Oggi capisco il senso di quel comportamento, era amore materno, nient’altro. Il mio gesto di stizza fu una stupidaggine, quando si è giovani si considerano più importanti i giudizi dei coetanei anziché quelli degli affetti più cari. Purtroppo, questo lo capisci dopo quando non puoi più porvi rimedio.
Continua ….
Per una questione di privacy i nomi ed i soprannomi sono indicati con le iniziali. Chi li ha conosciuti o li conosce certamente capirà di chi si tratta
Un sorriso ed un saluto a volte valgono più di ogni altra cosa
U zu P. e a za R. d’estate stavano quasi sempre in piazza Marina davanti all’uscio di casa ed era inevitabile ricevere il loro saluto dal ritorno dalla spiaggia. Poi un giorno non li vedi più, se n’erano andati. Erano una casalinga ed un pescatore come allora ce n’erano tanti nel piccolo Borgo marinaro. Chi non lavorava nello stabilimento di raffinazione della sansa, viveva di pesca e di poco altro.
Le tragedie non guardano in faccia a nessuno, puoi solo subirle con dignità e con la consapevolezza che si possono verificare in qualunque momento e che, anche se vorresti, non puoi impedirle
C. lo incontravi appoggiato su una barca o seduto sulla sabbia o su una pietra su un lato della stessa per coprirsi dal sole di luglio. Stava lì a godersi il mare e non solo. Guardando i bagnanti gli scappava sempre una battuta un po' ‘malandrina’ e noi per pudore non dicevamo nulla, anche se non eravamo convinti di quelle parole. Viveva in una casetta di fronte allo stabilimento. Chissà cosa avranno provato lui e la moglie quando scoppiò l’incendio. Due operai rimasero carbonizzati. Uno fu trovato sotto la scala di ferro rannicchiato nel vano tentativo di proteggersi dal fumo e dalle fiamme. Almeno questo si disse. Quella notte ci fu chi si salvò saltando il muretto che delimitava lo stabilimento e che costeggiava la spiaggia. Tra il suono delle sirene dei vigili del fuoco e il crepitare del fuoco alto decine di metri, scappammo da Torremuzza. Il pericolo che tutto il Borgo potesse esplodere da un momento all’altro era concreto. Mia nonna per sicurezza ci portò a Caronia montagna dove vivevano i suoi parenti.
Noi eravamo troppo piccoli per capire il senso di quella tragedia. Un nostro amico è cresciuto senza il papà, ma non ricordo una nostra battuta o invettiva che glielo ricordasse. Eravamo bambini buoni. L’amicizia era vera e sincera. Allora non sapevamo nulla delle morti sul lavoro, di padri di famiglia che escono di casa per non farvi più ritorno. Anche queste sono consapevolezza che si acquisiscono da adulti.
Nel Borgo non c’era quello che a torto o a ragione viene definito come ‘lo scemo del villaggio’, in compenso non mancavano certi comportamenti e certe abitudini che ci sembravano delle ‘stranezze’
Una volta entrai nell’abitazione di una signora che allora mi parse molto anziana. Viveva sola. Non ricordo perché ci andai, ma non importa. Era gentile, ma era, a detta di tutti, diciamo così poco attenta alle pulizie. La chiamavamo a F. Non so se il nome derivasse da questa sua caratteristica ‘particolare’ o se fosse invece il diminutivo di uno vero. Il mio ricordo nasce probabilmente da questa sua scarsa attenzione all’ordine e alla pulizia o più semplicemente dalla nomina che si era fatta. Nelle borgate basta poco per essere tacciati di questo o quel ‘vizio’, vero o falso che sia.
I pizzicotti sulle guance erano fastidiosi, ma tant’è li subivamo senza nessuna lamentela
C’era il papà di un mio amico, quello che mi faceva vincere le partite a calcio anche se giocavo da solo, che aveva la brutta abitudine di salutarci con un bacio e un pizzicotto sulla guancia. U zu V. aveva i capelli bianchi, ma proprio tutti, almeno così lo ricordo. Era un pescatore ed era un appassionato del gioco dello scopone, delle bocce e del ballo liscio, in particolare della mazurca. Per tenere il ritmo batteva il piede destro sul pavimento facendo uno strano rumore che richiamava l’attenzione di tutti.
A za M. era una persona paziente e buona di carattere, del resto chi altri avrebbe potuto stare accanto ad un uomo misogino ed irriverente? La sua fiducia sulle mie capacità contabili era senza se e senza ma. Non l’ho mai ringraziata per questo. Lo faccio ora anche se non serve a nulla.
Il nonno di N. aveva una caratteristica inconfondibile. Quando doveva chiamare il nipote lo faceva con un fischio. Si metteva sulla postazione che si trova nella parte alta del borgo e cominciava il richiamo. Non ci colpiva solo quella specie di sibilo ma anche il fatto che il nostro amico andasse via subito. Bastava quel segnale ed era già a casa.
La mamma è sempre la mamma, lo imparammo quel giorno
La mamma di P. ogni tanto arrivava con una fetta di pane enorme, di quello fatto in casa, era colma di nutella. Era la merendina, si fa per dire, di P.. Non c’era giorno che la scena non si ripetesse. Non avevamo invidia, piuttosto non capivamo quel rapporto tra madre e figlio. Noi, pur essendo piccoli, ci sentivamo già grandi ed autonomi. Nella nostra presunzione di adolescenti mai avremmo accettato un gesto simile dalla nostra mamma, infatti non successe mai o quasi. Solo una volta. Mi vergogno ancora oggi della mia reazione. In Lei c’era un forte senso di colpa per aver ritardato il suo compito mattutino e soprattutto per aver compiuto un’esagerazione nel tentativo di porvi rimedio. Oggi capisco il senso di quel comportamento, era amore materno, nient’altro. Il mio gesto di stizza fu una stupidaggine, quando si è giovani si considerano più importanti i giudizi dei coetanei anziché quelli degli affetti più cari. Purtroppo, questo lo capisci dopo quando non puoi più porvi rimedio.
Continua ….
sabato 15 maggio 2021
Il super Santos era bucato o sgonfio, ma a noi bastava
Il calcio era il nostro gioco. Quello parlato e radiotrasmesso da ‘Tutto il calcio minuto per minuto’ era fantasia. Era, cioè, quello che avremmo tentato di ripetere nei campetti di periferia con la vana illusione di esserne un giorno protagonisti
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Il super Santos - (foto di Giovanni Pulvino)
Tutto avveniva con semplicità. Bastava poco. La strada o il cortile erano il campo da gioco, due sassi i pali delle porte, un super Santos sgonfio o bucato era il pallone. Una volta uno di noi ne comprò uno di quelli buoni, costosi, almeno così ci sembrò. Quel pallone durò ventiquattro ore. Durante l’unica partita che disputammo in piazza Marina, allora era ancora in terra battuta, finì nel cortile di una signora che lo sequestrò e lo bucò. Per il nostro amico fu un piccolo dramma, fu la prima e l’ultima volta che i suoi familiari gli acquistarono un pallone. Lo sostituimmo con un super Santos bucato o comunque sgonfio. Proprio per questo raramente raggiungeva il cortile di quella signora. In ogni caso era facile trovarne un altro, sempre sgonfio ovviamente. Non potevamo permetterci altro. Le priorità per le famiglie allora erano altre. Non eravamo bambini impertinenti o maleducati, e, raramente, il pallone giungeva nei pressi di quell’abitazione. Quello ci arrivò perché era nuovo e gonfio. Non ho mai capito il perché di quel comportamento. Il rancore di quella signora rimase nel tempo, chissà perché. Non c’era cattiveria, noi in fondo non facevamo nulla di male, giocavamo con quel poco che avevamo. La nostra gioia era correre dietro ad un pallone di plastica, nient’altro.Ci bastava poco per riempiere di allegria i nostri pomeriggi, sempre gli stessi, ma erano spensieratezza e felicità. Si erano felicità.
Per un breve periodo giocammo in un campo in erba, si fa per dire. Era fuori dal paese. Era un rettangolo grande, almeno così ci sembrò a quell’età, aveva qualche buca, ma ci bastò alzare i pali delle porte o mettere due pietre per dargli un aspetto verosimile a quelli della Serie A. Era piacevole fare persino il portiere. Facevamo i tuffi e divenne interessante fare un ruolo che nessuno voleva ricoprire. Di solito in porta ci andavano i ‘più scarsi’ o si giocava senza portiere. Quella piacevole sensazione di giocare su un campo in erba durò poco, il proprietario del terreno lo fece arare e lo adibì a pascolo.
I pensieri sono impressi in qualche angolo della nostra memoria. Quelli che ritornano con continuazione sono scoloriti, ma poi se ne aggiungono altri, ed altri ancora, ma sono anch’essi in bianco e nero.
I giocatori eravamo solo tre, ma non rinunciammo a fare una partita. Giocai contro due avversari. Ebbene per me fu agevole vincere, perché uno dei due rivali era così ‘scarso’ che era semplice rubargli la palla quando il suo compagno per altruismo gliela passava. Andare a segnare nella porta vuota era facile. Non ero io che ero bravo, ma era uno dei miei due avversari ad essere ‘titubante’ con il pallone tra i piedi. Io ne approfittai soltanto.
Un altro pensiero torna sempre … non riesco a fermarlo ….
Chissà quanti vasi ho rotto e quanta pazienza hanno avuto i vicini di casa. Avevo l’abitudine di giocare da solo. Andavo avanti e indietro calciando il super Santos sul muro o sui gradini delle case di piazza Marina che sono attaccate le une con le altre. L’abilità consisteva nel tirare calci di prima con entrambi i piedi senza far cadere la palla giù dal marciapiede, ovviamente c’erano gli ingressi delle case e i vasi terracotta come ostacoli da evitare, dovevo stare attento, ma credo che ci volle molta pazienza per chi ci abitava. Li ho imparato a giocare, li è nata probabilmente la passione per il calcio, mantenuta per sempre, anche ora che non ci potrà più essere nessun paragone o critica, non più almeno come avveniva allora.
Nei piccoli paesi non puoi sceglierti i compagni di gioco, quelli sono, non possono essere altri, sono loro che segnano gli anni dell’adolescenza, quelli della gioia e della spensieratezza, dei ricordi inconsapevoli.
Ci ritrovavamo quasi sempre nel primo pomeriggio. Il pallone non mancava mai. A volte ci inventavamo i giochi. Uno di questi era a chi faceva più palleggi. Di solito a vincere erano quelli che consideravamo più scarsi. Uno di noi fece mille palleggi senza far cadere il pallone per terra. Ancora oggi facciamo fatica a crederci, ma avvenne veramente. Quel nostro amico era imbattibile, ma a calcio era una ‘schiappa’.
Quando eravamo in tanti facevamo le partite. Tutti partecipavano, torremuzzari e ‘nzusari di ogni età, anche chi non aveva nessuna voglia di giocare, ma per non essere escluso dal gruppo si cimentava lo stesso o finiva in porta. Le squadre erano sempre diverse, ma cercavamo di farle bilanciate. Due di noi sceglievano i compagni, uno per volta, l’equilibrio era facile da realizzare.
Spesso giocavamo nello spiazzale della scuola elementare. Pochi metri, con restringimenti dei muri ed una specie di discesa. Capitava che erano di più i giocatori che i metri quadrati del ‘campo’, se così possiamo chiamarlo. Erano partitelle combattute come se fossimo stati dei veri professionisti. Le regole erano quelle del buon senso, ma spesso non contavano. Non erano partite a tempo, ma a chi faceva più gol o a chi arrivava per primo a dieci. A volte finivamo di giocare con il buio, con la tenue luce che veniva dalla strada adiacente. Una volta eravamo in tanti in pochi metri quadrati. Le mischie erano inevitabili. I difensori tentavano di impedire che la palla toccasse il muro che faceva da porta e gli attaccanti con spinte e calci tentavano invece di fare gol. Le loro grida stavano ad indicare che ci erano riusciti, ma i difendenti di solito non erano d’accordo, reclamavano una spinta di troppo o che la palla fosse uscita fuori dalla porta. Tutto era aleatorio anche i pali, quindi spesso non c’era certezza sull’esito dei tiri e dei gol.
Un’altra volta giocammo sotto la pioggia battente. Il pallone non ribalzava nelle pozzanghere anche se il campetto era in mattonelle. Ci sembrò di essere dei veri calciatori che, si sa, giocano con qualunque condizione atmosferica. Il Cortile marina era stato pavimentato da poco. Non c’erano macchine. Sembrava un campo di calcetto. Sembrava un palazzetto dello sport. Lì sfidammo i ragazzi della colonia di Reitano che ogni estate venivano in gita nella piccola borgata. Li battemmo tra gli applausi di chi ci stava guardando, sembrava di essere in uno stadio vero o almeno così mi piace ricordarlo. Per noi giocare a calcio era naturale. Vincevamo quasi sempre. L’intesa era istintiva. Probabilmente perché conoscevamo ogni metro quadrato di quelle piazze o forse perché eravamo veramente bravi.
E non importava chi vincesse, ormai avevamo dato sfogo alle nostre fantasie. Il calcio era ed è il nostro gioco, quello dell’adolescenza, quello che segna i pensieri e la vita di chi nell’infanzia disponeva solo di un super Santos bucato.
Il calcio era il nostro gioco. Quello parlato e radiotrasmesso da ‘Tutto il calcio minuto per minuto’ era fantasia. Era, cioè, quello che avremmo tentato di ripetere nei campetti di periferia con la vana illusione di esserne un giorno protagonisti
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
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Il super Santos - (foto di Giovanni Pulvino) |
Ci bastava poco per riempiere di allegria i nostri pomeriggi, sempre gli stessi, ma erano spensieratezza e felicità. Si erano felicità.
Per un breve periodo giocammo in un campo in erba, si fa per dire. Era fuori dal paese. Era un rettangolo grande, almeno così ci sembrò a quell’età, aveva qualche buca, ma ci bastò alzare i pali delle porte o mettere due pietre per dargli un aspetto verosimile a quelli della Serie A. Era piacevole fare persino il portiere. Facevamo i tuffi e divenne interessante fare un ruolo che nessuno voleva ricoprire. Di solito in porta ci andavano i ‘più scarsi’ o si giocava senza portiere. Quella piacevole sensazione di giocare su un campo in erba durò poco, il proprietario del terreno lo fece arare e lo adibì a pascolo.
I pensieri sono impressi in qualche angolo della nostra memoria. Quelli che ritornano con continuazione sono scoloriti, ma poi se ne aggiungono altri, ed altri ancora, ma sono anch’essi in bianco e nero.
I giocatori eravamo solo tre, ma non rinunciammo a fare una partita. Giocai contro due avversari. Ebbene per me fu agevole vincere, perché uno dei due rivali era così ‘scarso’ che era semplice rubargli la palla quando il suo compagno per altruismo gliela passava. Andare a segnare nella porta vuota era facile. Non ero io che ero bravo, ma era uno dei miei due avversari ad essere ‘titubante’ con il pallone tra i piedi. Io ne approfittai soltanto.
Un altro pensiero torna sempre … non riesco a fermarlo ….
Chissà quanti vasi ho rotto e quanta pazienza hanno avuto i vicini di casa. Avevo l’abitudine di giocare da solo. Andavo avanti e indietro calciando il super Santos sul muro o sui gradini delle case di piazza Marina che sono attaccate le une con le altre. L’abilità consisteva nel tirare calci di prima con entrambi i piedi senza far cadere la palla giù dal marciapiede, ovviamente c’erano gli ingressi delle case e i vasi terracotta come ostacoli da evitare, dovevo stare attento, ma credo che ci volle molta pazienza per chi ci abitava. Li ho imparato a giocare, li è nata probabilmente la passione per il calcio, mantenuta per sempre, anche ora che non ci potrà più essere nessun paragone o critica, non più almeno come avveniva allora.
Nei piccoli paesi non puoi sceglierti i compagni di gioco, quelli sono, non possono essere altri, sono loro che segnano gli anni dell’adolescenza, quelli della gioia e della spensieratezza, dei ricordi inconsapevoli.
Ci ritrovavamo quasi sempre nel primo pomeriggio. Il pallone non mancava mai. A volte ci inventavamo i giochi. Uno di questi era a chi faceva più palleggi. Di solito a vincere erano quelli che consideravamo più scarsi. Uno di noi fece mille palleggi senza far cadere il pallone per terra. Ancora oggi facciamo fatica a crederci, ma avvenne veramente. Quel nostro amico era imbattibile, ma a calcio era una ‘schiappa’.
Quando eravamo in tanti facevamo le partite. Tutti partecipavano, torremuzzari e ‘nzusari di ogni età, anche chi non aveva nessuna voglia di giocare, ma per non essere escluso dal gruppo si cimentava lo stesso o finiva in porta. Le squadre erano sempre diverse, ma cercavamo di farle bilanciate. Due di noi sceglievano i compagni, uno per volta, l’equilibrio era facile da realizzare.
Spesso giocavamo nello spiazzale della scuola elementare. Pochi metri, con restringimenti dei muri ed una specie di discesa. Capitava che erano di più i giocatori che i metri quadrati del ‘campo’, se così possiamo chiamarlo. Erano partitelle combattute come se fossimo stati dei veri professionisti. Le regole erano quelle del buon senso, ma spesso non contavano. Non erano partite a tempo, ma a chi faceva più gol o a chi arrivava per primo a dieci. A volte finivamo di giocare con il buio, con la tenue luce che veniva dalla strada adiacente. Una volta eravamo in tanti in pochi metri quadrati. Le mischie erano inevitabili. I difensori tentavano di impedire che la palla toccasse il muro che faceva da porta e gli attaccanti con spinte e calci tentavano invece di fare gol. Le loro grida stavano ad indicare che ci erano riusciti, ma i difendenti di solito non erano d’accordo, reclamavano una spinta di troppo o che la palla fosse uscita fuori dalla porta. Tutto era aleatorio anche i pali, quindi spesso non c’era certezza sull’esito dei tiri e dei gol.
Un’altra volta giocammo sotto la pioggia battente. Il pallone non ribalzava nelle pozzanghere anche se il campetto era in mattonelle. Ci sembrò di essere dei veri calciatori che, si sa, giocano con qualunque condizione atmosferica. Il Cortile marina era stato pavimentato da poco. Non c’erano macchine. Sembrava un campo di calcetto. Sembrava un palazzetto dello sport. Lì sfidammo i ragazzi della colonia di Reitano che ogni estate venivano in gita nella piccola borgata. Li battemmo tra gli applausi di chi ci stava guardando, sembrava di essere in uno stadio vero o almeno così mi piace ricordarlo. Per noi giocare a calcio era naturale. Vincevamo quasi sempre. L’intesa era istintiva. Probabilmente perché conoscevamo ogni metro quadrato di quelle piazze o forse perché eravamo veramente bravi.
E non importava chi vincesse, ormai avevamo dato sfogo alle nostre fantasie. Il calcio era ed è il nostro gioco, quello dell’adolescenza, quello che segna i pensieri e la vita di chi nell’infanzia disponeva solo di un super Santos bucato.
giovedì 15 aprile 2021
‘Scusa Ciotti … la Fiorentina è passata in vantaggio …’
Ad un certo punto della radiocronaca irrompeva la voce rauca di Sandro Ciotti: ‘Scusa Ameri, scusa Ameri … la Pistoiese è passata in vantaggio ...’
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Schedina del 17/09/1981
da vigevano24.it
La domenica pomeriggio era nostra abitudine seguire le partite di calcio alla radio. Ascoltavamo ‘Tutto il calcio minuto per minuto’. Bastava una radiolina ed era subito condivisione. Allora gli incontri si svolgevano in contemporanea. Alle ore 15.00, puntuale come un orologio svizzero, la sigla della trasmissione annunciava l’inizio delle partite. Dallo studio a coordinare gli interventi dei vari cronisti c’era la voce di Roberto Bortoluzzi.‘Gentili ascoltatori buongiorno, stiamo per collegarci con san Siro per Milan-Perugia, con Torino per Torino-Napoli, con Ascoli per Ascoli-Internazionale, con Bergamo per Atalanta-Juventus e con Lecce per Lecce-Pescara. Ai microfoni sono i colleghi Enrico Ameri, Sandro Ciotti, Claudio Ferretti, Alfredo Provenzali ed Ezio Luzzi. Cominciamo con i primi tempi, la linea a Milano’.
Tra un collegamento e l’altro non mancavano i commenti, ma, di solito, si ascoltava senza parlare. Ognuno di noi poteva immaginare le azioni ed i gol descritti dai commentatori. Non c’erano vincoli alla nostra fantasia se non quelli delle parole usate con grande stile e competenza dai radiocronisti. Ci facevamo un film delle partite. Era come ascoltare una radio in bianco e nero. I nostri ‘replay’ erano pure essi senza colore. Le poche immagini televisive trasmesse in prima serata dalla Rai erano anch’esse in bianco e nero. Solo allora potevamo confrontare quanto avevamo immaginato con quanto era realmente accaduto qualche ora prima sui vari campi di calcio.
Quando si è giovani è bello sognare, non costa nulla, un futuro c’è sempre, poi, più tardi, capisci che così non è. I domani diventano sempre di meno e ti rendi conto che presto non ci saranno più neanche quelli.
Le parole giungevano estemporanee dall’etere, si sapeva che venivano da lontano, ma erano diventate familiari. Erano un appuntamento domenicale a cui nessuno di noi poteva mancare. Durante la settimana c’erano anche le partite della Coppa delle Coppe, della Coppa Uefa o della Coppa dei Campioni, ma si svolgevano di sera e la condivisione non era possibile. Avevano un altro sapore ed un altro colore, sapevano di solitudine e malinconia anche se ti 'immergevi' in una dimensione internazionale. La domenica pomeriggio invece ovunque ci fosse qualcuno con la radio accesa si formava un campanello intento ad ascoltare. Stavamo seduti a Sant’Antonino, sul muretto di piazza Marina, in piedi nel cortiletto della scuola elementare o davanti al tabacchino.
‘Scusa Ciotti … la Fiorentina è passata in vantaggio…’
Uno, ics o due? Nel quadratino della schedina si poteva indicare solo uno dei tre risultati possibili delle tredici partite da pronosticare. Lo facevamo praticamente tutti. Due colonne erano il minimo. Il sistema, invece, ci consentiva di giocare le triple e le doppie. Costava di più, pertanto eravamo costretti a condividere la spesa per giocarlo, era un altro modo di essere comunità. Pochi di noi avevano le disponibilità finanziare o l’intenzione di spendere tanti soldi per giocare da soli.
‘Ed ora un breve riepilogo dai campi … Roma 1 - Lecce 2, Juventus 3 - Catania 1, … in serie C la Carrarese è passata in vantaggio sulla Cremonese…’
Una volta mancammo un tredici milionario per un nulla. Altre volte facemmo undici o dodici, quel poco che ci fruttarono lo utilizzammo per le schedine successive. Il difficile era combinare i risultati più probabili con le ‘sorprese’, cioè quelli delle partite ‘scontate’ con quelli inverosimili. Spesso capitava di indovinare i primi e non i secondi o viceversa. E poi c’erano gli incontri di Serie C ed a volte di Serie D. Erano squadre sconosciute, il pronostico era difficile da fare. Non tutti erano d’accordo con le triple o le doppie da inserire o con i pronostici da fare, ma si fidavano sempre di chi faceva il sistema o la schedina. Non ho mai capito a cosa fosse dovuta tanta fiducia, ma c’era e ci sarebbe stata sempre. Questo bastava ed incentivava a fare meglio.
‘Linea a Napoli fino al termine, i colleghi possono interrompere solo per i risultati finali’ ….
Spesso i gol arrivavano in zona cesarini ed erano quelli che decidevano le sorti della schedina. Allo scadere del novantesimo minuto il recupero non era indicato dalla lavagna luminosa, solo l’arbitro sapeva quanto doveva durare. Al termine delle partite restava sempre un po' di delusione, ma non importava. Quello che contava era che alle tre della domenica successiva saremmo stati di nuovo tutti lì a tifare ed a sperare in un gol o in un interruzione da Milano o dal Cibali di Catania che ci raccontasse la buona notizia. E se questo non fosse avvenuto pazienza, ci saremmo rifatti la volta dopo.
‘Bene gentili ascoltatori abbiamo terminato, vi ricordiamo che su Radio 2 andrà in onda la seconda parte di ‘Domenica sport’, assistenza tecnica di ….
Finite le partite ed in attesa delle immagini televisive era tempo dei commenti. Tutti esperti, si sa. In fondo il calcio è un gioco semplice ed è democratico, chiunque poteva dire la sua ed era comunque un giudizio valido. I tifosi eravamo tutti sullo stesso piano, le squadre un po' meno, lì contavano i soldi. Ancora oggi è così, anzi oggi lo è ancora di più. E non ci importava e non ci importa che il Sud anche nello sport era ed è un passo indietro rispetto al resto del Paese. La passione per il calcio non ci faceva e non ci fa ‘vedere’ questa discriminazione economica e sportiva. Lo davamo e lo diamo per scontato, ma, a pensarci bene, era ed è una grande ingiustizia.
Intanto, un’altra domenica pomeriggio era trascorsa. Altra memoria a perdere era nata, inutile ed effimera come tutto, come sempre.
Ad un certo punto della radiocronaca irrompeva la voce rauca di Sandro Ciotti: ‘Scusa Ameri, scusa Ameri … la Pistoiese è passata in vantaggio ...’
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
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Schedina del 17/09/1981 da vigevano24.it |
‘Gentili ascoltatori buongiorno, stiamo per collegarci con san Siro per Milan-Perugia, con Torino per Torino-Napoli, con Ascoli per Ascoli-Internazionale, con Bergamo per Atalanta-Juventus e con Lecce per Lecce-Pescara. Ai microfoni sono i colleghi Enrico Ameri, Sandro Ciotti, Claudio Ferretti, Alfredo Provenzali ed Ezio Luzzi. Cominciamo con i primi tempi, la linea a Milano’.
Tra un collegamento e l’altro non mancavano i commenti, ma, di solito, si ascoltava senza parlare. Ognuno di noi poteva immaginare le azioni ed i gol descritti dai commentatori. Non c’erano vincoli alla nostra fantasia se non quelli delle parole usate con grande stile e competenza dai radiocronisti. Ci facevamo un film delle partite. Era come ascoltare una radio in bianco e nero. I nostri ‘replay’ erano pure essi senza colore. Le poche immagini televisive trasmesse in prima serata dalla Rai erano anch’esse in bianco e nero. Solo allora potevamo confrontare quanto avevamo immaginato con quanto era realmente accaduto qualche ora prima sui vari campi di calcio.
Quando si è giovani è bello sognare, non costa nulla, un futuro c’è sempre, poi, più tardi, capisci che così non è. I domani diventano sempre di meno e ti rendi conto che presto non ci saranno più neanche quelli.
Le parole giungevano estemporanee dall’etere, si sapeva che venivano da lontano, ma erano diventate familiari. Erano un appuntamento domenicale a cui nessuno di noi poteva mancare. Durante la settimana c’erano anche le partite della Coppa delle Coppe, della Coppa Uefa o della Coppa dei Campioni, ma si svolgevano di sera e la condivisione non era possibile. Avevano un altro sapore ed un altro colore, sapevano di solitudine e malinconia anche se ti 'immergevi' in una dimensione internazionale. La domenica pomeriggio invece ovunque ci fosse qualcuno con la radio accesa si formava un campanello intento ad ascoltare. Stavamo seduti a Sant’Antonino, sul muretto di piazza Marina, in piedi nel cortiletto della scuola elementare o davanti al tabacchino.
‘Scusa Ciotti … la Fiorentina è passata in vantaggio…’
Uno, ics o due? Nel quadratino della schedina si poteva indicare solo uno dei tre risultati possibili delle tredici partite da pronosticare. Lo facevamo praticamente tutti. Due colonne erano il minimo. Il sistema, invece, ci consentiva di giocare le triple e le doppie. Costava di più, pertanto eravamo costretti a condividere la spesa per giocarlo, era un altro modo di essere comunità. Pochi di noi avevano le disponibilità finanziare o l’intenzione di spendere tanti soldi per giocare da soli.
‘Ed ora un breve riepilogo dai campi … Roma 1 - Lecce 2, Juventus 3 - Catania 1, … in serie C la Carrarese è passata in vantaggio sulla Cremonese…’
Una volta mancammo un tredici milionario per un nulla. Altre volte facemmo undici o dodici, quel poco che ci fruttarono lo utilizzammo per le schedine successive. Il difficile era combinare i risultati più probabili con le ‘sorprese’, cioè quelli delle partite ‘scontate’ con quelli inverosimili. Spesso capitava di indovinare i primi e non i secondi o viceversa. E poi c’erano gli incontri di Serie C ed a volte di Serie D. Erano squadre sconosciute, il pronostico era difficile da fare. Non tutti erano d’accordo con le triple o le doppie da inserire o con i pronostici da fare, ma si fidavano sempre di chi faceva il sistema o la schedina. Non ho mai capito a cosa fosse dovuta tanta fiducia, ma c’era e ci sarebbe stata sempre. Questo bastava ed incentivava a fare meglio.
‘Linea a Napoli fino al termine, i colleghi possono interrompere solo per i risultati finali’ ….
Spesso i gol arrivavano in zona cesarini ed erano quelli che decidevano le sorti della schedina. Allo scadere del novantesimo minuto il recupero non era indicato dalla lavagna luminosa, solo l’arbitro sapeva quanto doveva durare. Al termine delle partite restava sempre un po' di delusione, ma non importava. Quello che contava era che alle tre della domenica successiva saremmo stati di nuovo tutti lì a tifare ed a sperare in un gol o in un interruzione da Milano o dal Cibali di Catania che ci raccontasse la buona notizia. E se questo non fosse avvenuto pazienza, ci saremmo rifatti la volta dopo.
‘Bene gentili ascoltatori abbiamo terminato, vi ricordiamo che su Radio 2 andrà in onda la seconda parte di ‘Domenica sport’, assistenza tecnica di ….
Finite le partite ed in attesa delle immagini televisive era tempo dei commenti. Tutti esperti, si sa. In fondo il calcio è un gioco semplice ed è democratico, chiunque poteva dire la sua ed era comunque un giudizio valido. I tifosi eravamo tutti sullo stesso piano, le squadre un po' meno, lì contavano i soldi. Ancora oggi è così, anzi oggi lo è ancora di più. E non ci importava e non ci importa che il Sud anche nello sport era ed è un passo indietro rispetto al resto del Paese. La passione per il calcio non ci faceva e non ci fa ‘vedere’ questa discriminazione economica e sportiva. Lo davamo e lo diamo per scontato, ma, a pensarci bene, era ed è una grande ingiustizia.
Intanto, un’altra domenica pomeriggio era trascorsa. Altra memoria a perdere era nata, inutile ed effimera come tutto, come sempre.
venerdì 26 marzo 2021
‘Ma voi siete comunisti?’, per noi la risposta era ovvia
‘Ma voi siete comunisti?’. La domanda ci parse strana e superflua nello stesso tempo, per noi la risposta era ovvia: ‘Noi siamo figli di un operaio e di una casalinga, cos’altro possiamo essere se non questo?’
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Tessere del PCI 1983 e 1985
Foto di Giovanni Pulvino
Non avevamo scelta, non era solo una questione di condizione sociale, era piuttosto una predisposizione caratteriale. Per indole non potevamo che stare dalla parte dei lavoratori. Con chi, cioè, doveva svolgere due o tre occupazioni per mantenere la famiglia e per garantire un futuro decoroso ai propri figli. Per tanti ancora oggi è così, ma la scelta ‘ideale’ non è più la stessa, chissà perché.Quando si è ‘giovani’ non si pensa alla fine del mese, tutto ci sembra dovuto. Solo dopo, quando giungono i giorni più difficili ci si rende conto di quanti sacrifici siano stati fatti per garantirci un’adolescenza serena.
Per tanti padri e madri di famiglia, allora, l’unica soddisfazione era il ‘pezzo di carta’. Gli occhi quel giorno nell'aula magna dell'Università erano lucidi, era la loro piccola/grande ricompensa ai tanti sacrifici fatti, nient’altro.
Nulla avviene per caso. Il bisogno di conoscenza era tutto o quasi. Era una necessità ‘fisica’ che si è mantenuta nel tempo. Fino ad oggi, fino alla fine. Non era un atto egoistico. Capire e comprendere per condividere quanto appreso e per accrescere il bene comune. Lo scopo era questo.
È il Dna che ci fa andare in una direzione piuttosto che in un’altra? È la cultura acquisita? È l’ambiente sociale di provenienza? Chissà, ma che importa. Di certo è una opzione individuale. Ogni giorno ognuno di noi deve decidere da che parte stare. Lo si fa anche inconsciamente, quasi senza volere, ma è inevitabile.
Per noi e per tanti altri la scelta era ovvia, era una condizione di vita. Ed era una inevitabile conseguenza del nostro modo di intendere la ‘comunità’.
Ancora oggi è così, al di là dei nomi e delle etichette.
Ognuno può agire nel solo interesse personale, rimanendo intrappolato nel proprio ego, oppure può operare nell’interesse comune, nella consapevolezza che il bene altrui è anche il nostro. Noi sentivamo quest'ultima esigenza, era la nostra ‘diversità’.
Il senso di giustizia e del dovere era innato. Non era solo una questione ideologica o di condizione sociale, era una predisposizione ‘genetica’.
Dare a tutti le stesse opportunità senza dover sottostare alla volontà altrui, senza dover chiedere per ottenere un diritto. Liberi di decidere e di dire di no. Con l’impegno di non lasciare indietro chi non riesce ad essere autonomo. La vita è una ed il tempo scorre uguale per tutti. Troppo spesso lo dimentichiamo. Un'esistenza trascorsa senza mai dire di no, senza egoismi. Intelligenze fuori dal comune, ma senza presunzione o prosopopea ed un impegno continuo messi a disposizione di tutti. Ecco questo eravamo e siamo, almeno fino a quando resteremo nella memoria di coloro che abbiamo incontrato nella nostra strada.
La risposta a quella domanda ancora oggi è la stessa: ‘cos’altro possiamo essere se non questo?’
‘Ma voi siete comunisti?’. La domanda ci parse strana e superflua nello stesso tempo, per noi la risposta era ovvia: ‘Noi siamo figli di un operaio e di una casalinga, cos’altro possiamo essere se non questo?’
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
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Tessere del PCI 1983 e 1985 Foto di Giovanni Pulvino |
Quando si è ‘giovani’ non si pensa alla fine del mese, tutto ci sembra dovuto. Solo dopo, quando giungono i giorni più difficili ci si rende conto di quanti sacrifici siano stati fatti per garantirci un’adolescenza serena.
Per tanti padri e madri di famiglia, allora, l’unica soddisfazione era il ‘pezzo di carta’. Gli occhi quel giorno nell'aula magna dell'Università erano lucidi, era la loro piccola/grande ricompensa ai tanti sacrifici fatti, nient’altro.
Nulla avviene per caso. Il bisogno di conoscenza era tutto o quasi. Era una necessità ‘fisica’ che si è mantenuta nel tempo. Fino ad oggi, fino alla fine. Non era un atto egoistico. Capire e comprendere per condividere quanto appreso e per accrescere il bene comune. Lo scopo era questo.
È il Dna che ci fa andare in una direzione piuttosto che in un’altra? È la cultura acquisita? È l’ambiente sociale di provenienza? Chissà, ma che importa. Di certo è una opzione individuale. Ogni giorno ognuno di noi deve decidere da che parte stare. Lo si fa anche inconsciamente, quasi senza volere, ma è inevitabile.
Per noi e per tanti altri la scelta era ovvia, era una condizione di vita. Ed era una inevitabile conseguenza del nostro modo di intendere la ‘comunità’.
Ancora oggi è così, al di là dei nomi e delle etichette.
Ognuno può agire nel solo interesse personale, rimanendo intrappolato nel proprio ego, oppure può operare nell’interesse comune, nella consapevolezza che il bene altrui è anche il nostro. Noi sentivamo quest'ultima esigenza, era la nostra ‘diversità’.
Il senso di giustizia e del dovere era innato. Non era solo una questione ideologica o di condizione sociale, era una predisposizione ‘genetica’.
Dare a tutti le stesse opportunità senza dover sottostare alla volontà altrui, senza dover chiedere per ottenere un diritto. Liberi di decidere e di dire di no. Con l’impegno di non lasciare indietro chi non riesce ad essere autonomo. La vita è una ed il tempo scorre uguale per tutti. Troppo spesso lo dimentichiamo. Un'esistenza trascorsa senza mai dire di no, senza egoismi. Intelligenze fuori dal comune, ma senza presunzione o prosopopea ed un impegno continuo messi a disposizione di tutti. Ecco questo eravamo e siamo, almeno fino a quando resteremo nella memoria di coloro che abbiamo incontrato nella nostra strada.
La risposta a quella domanda ancora oggi è la stessa: ‘cos’altro possiamo essere se non questo?’
venerdì 5 marzo 2021
Ad un certo punto dello spettacolo andò via la luce
A volte basta uno sguardo, un’immagine o il ritornello di una canzone perché i pensieri comincino a muoversi, ora corrono a quando ad un certo punto della serata restammo al buio
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Il gruppo folcloristico di Torremuzza (Me)
Ad un certo punto dello spettacolo andò via la luce, nella sala ci fu sorpresa e sbigottimento, proprio nel più bello della rappresentazione si erano spente le luci, ma non ci volle molto tempo per capire che non era stato un problema di 'Rete'. Il Parroco aveva chiuso volutamente l’interruttore della corrente elettrica. Il suo scopo era quello di impedire l’esecuzione dell’ultima parte della canzone e soprattutto di impedire la visione dell’ultima scena che due ragazzi del gruppo folcloristico di Torremuzza stavano recitando in modo straordinario. Non c’era nulla di scandaloso, ma per il sacerdote che ci stava ospitando non era così. Le ultime battute di ‘La cammesella’ erano, per il religioso, peccaminose, ma peccaminose di cosa? Non c’era nulla di volgare se non una ingenua allusione. Era una cover, ben riuscita, di una celebra scenetta di un film di Toto, nient’altro.‘E lèvate 'a cammesella. A cammessella no, no. E lèvate …’
Lo spettacolo era stato interessante e fino a quel punto non c’erano state contestazione, ma solo apprezzamenti. Invece, l’esibizione finì con questo ‘malinteso’. Questo fatto esprimeva un pregiudizio campanilistico frequente, almeno allora, tra torremuzzari e mottesi. Del resto, si sa gli abitanti di ogni quartiere, paese, città si sentono diversi e migliori degli altri. Da qui le diffidenze ed i pregiudizi.
Ancora un pensiero e poi un altro, continuano a sovrapporsi, impedirlo è quasi impossibile.
Se non ci fosse stato il gruppo folcloristico forse nessuno di noi giovani torremuzzari avrebbe imparato a ‘ballare’. Eppure, era un’esigenza che sentivamo da sempre. Una volta organizzammo una serata danzante in un garage. Ci volle un intero pomeriggio di lavoro per ripulire e sistemare, si fa per dire, il ‘locale’. Quel giorno non ballammo, ma non ricordo il perché, probabilmente gli invitati decisero semplicemente di non venire. A quell’età si è ingenui e tutto sembra possibile e realizzabile, ma così non è. La passione per la musica era quasi naturale nei giovani del Borgo e non solo. Da sempre segna i giorni più belli, quella della gioventù. Da bambini seduti a Sant’Antonino facevano la gara a chi indovinava i titoli delle canzoni della Hit Parade. Allora era una delle trasmissioni più popolari della Radio. Nessuno di noi possedeva un giradischi e tantomeno i dischi. Potevamo ascoltarle solo per radio. Nonostante ciò, conoscevamo bene i brani di maggiore successo e le star che le interpretavano. Tutto avveniva per volontà di un torremuzzaro adulto, che anche per questo è parte ineliminabile dei nostri pensieri.
Un’immagine sfocata ritorna spesso ….
Avevamo 3, 4 o forse 5 anni, ma già sapevamo ballare. Il giradischi andava con una musica popolare siciliana, probabilmente era una tarantella e tutti ci guardavano meravigliati. Era un’attitudine naturale o la leggerezza tipica dei bambini? Molti anni dopo quell’abilità fu evidente a tutti e fu al centro dell’attenzione in tante serate danzanti e non solo.
Non ricordo come tutto ebbe iniziò. Nel corso di una serata danzante organizzata nel salone della scuola elementare il signor Mammana intrattenne tutti con la sua fisarmonica. Non so se quella festa si svolse prima o dopo che iniziassero le prove del gruppo folcloristico. Ricordo bene invece che qualcuno eccedette con gli alcolici e si senti male. E di certo a quel tempo molti di noi ancora non sapevano ballare. Forse l’idea di creare un gruppo folcloristico nacque in quell’occasione o forse no, ma non importa, l’iniziativa partì.
‘Si maritau Rosa, Saridda e Pippinedda e iu ca sugnu bedda mi vogghiu marità’
Di certo, le prime prove di canto e di ballo popolare siciliano avvennero con quella fisarmonica e con l’entusiasmo della novità e della condivisione. All’inizio alcuni di noi non c’erano, preferivamo giocare con un pallone o praticare qualche altro sport. Eravamo un po' restii a quella novità, ma una volta aggregati siamo diventati parte integrante del gruppo. Da quel momento in poi, tutti i pomeriggi o quasi la scuola elementare si riempiva di torremuzzari e nzusari di tutte le età. Bastava il suono di una fisarmonica, di una chitarra e di qualche mandolino per ‘provare’ ed imparare.
‘Sciuri, sciuri, sciuri di tuttu l'annu, l'amuri ca mi dasti ti lu tornu...’
Come sempre accadeva in quel periodo la novità fu sostenuta da quasi tutto il Borgo. Ognuno era pronto a svolgere la sua parte. Gli adolescenti eravamo i cantanti ed i ballerini. Le signorine avevano il compito di insegnarci le figure dei balli e le persone più grandi quello di organizzare e gestire il Comitato amministrativo e finanziario. Anche le mamme contribuirono. Furono loro a cucire i ‘costumi’ di scena, quelli tipici dei siciliani dell’Ottocento. Le canzoni erano quelle popolari. Andavano da ‘Vitti na crozza’, a ‘sciuri sciuri’, a ‘Avia nu sciccareddu’. E poi c’erano le musiche ed i balli come il fox, la tarantella. Per la meglio gioventù del Borgo erano pomeriggi di festa ed allegria.
‘Avia 'nu sciccareddu, ma veru sapuritu, a mia mi l'ammazzaru, poveru sceccu miu.… Chi bedda vuci avia, Pareva un gran tenuri, Sciccareddu di lu me cori, comu iu t'haiu a scurdari. E quannu cantava facia: i-ha, i-ha, i-ha…’
‘Fai finta di cantare che sei stonato’, mi disse una volta una mamma che si era intrufolata nel coro e che era accanto a me. Ci rimasi male, per tanto tempo mi venne il dubbio di essere ‘stonato’. Ma cosa vuol dire essere stonato? Nessuno in linea di principi lo è. Il problema sorge quando si usano due tonalità diverse contemporaneamente, quando cioè la musica e la voce o due musiche e/o due voci emettono suoni non ‘sincronizzati, cioè con la stessa tonalità, quindi è solo una questione di tecnica e di abilità canora e musicale. Non è un difetto naturale, non esistono le persone stonate o gli strumenti stonati. Ma solo difficoltà a prendere il tempo e la tonalità giusta. Quando si è adolescenti questi ragionamenti non si fanno, si pensa piuttosto di non essere adeguati. Come sarebbe bello essere giovani con la maturità di un anziano. Dovremmo capovolgere la scansione temporale della vita: nascere vecchi e morire giovani. Tutto sarebbe ugualmente effimero, ma sarebbe più semplice, più vero.
I pensieri si spostano, ora vanno ad una serata fatta in piccolo paesino dei Nebrodi.
Una delle prime esibizioni la facemmo a San Fratello. Un piccolo paesino di collina ad una trentina di chilometri di distanza dal Borgo. Il ricordo torna spesso a quella sera perché il pubblico, almeno una parte di esso, si comportò in modo ‘poco educato’. Di solito gli insegnanti memorizzano subito i nomi ed i volti dei ragazzi più vivaci o più preparati, mentre passano inosservati quelli più educati e silenziosi. Chissà perché è così. Il nostro cervello è pronto a memorizzare le cose belle e quelle brutte, ma stenta a ricordare quelle mediocri o che affrontiamo con indifferenza. Quella serata non è un bel ricordo, forse è per questo che ritorna spesso. Un gruppo di bambini era sotto il palco. Non erano lì per ascoltare le canzoni o per vedere i balli di coppia. No, erano lì per giocare a tiro a segno con le noccioline e per insultare i componenti del gruppo. Sono certo, che se quella sera ci fosse stato l’esibizione di veri professionisti, per quelle piccole pesti, sarebbe stato lo stesso. L’oggetto dello sberleffo non era la nostra esibizione, ma chi era sul palco. Una parte delle persone è così, dispettosa e irriguardosa. Di quell’esibizione rimane il fatto che settimane e mesi di prove e di sacrifici furono derisi da un gruppetto di bulletti di paese. Naturalmente non ci scoraggiammo, forse perché eravamo giovani e per noi era un gioco, solo un gioco, nulla poteva fermarci.
‘Vitti na crozza supra nu cannuni, fui curiuso e ci vossi spiare, idda m'arrispunniu cu gran duluri, murivi senza un tocco di campani …’
Il gruppo fece un salto di qualità quando alla guida arrivo un giovane musicista di Acquedolci. Era un professionista. Conosceva tutte le canzoni ed i balli popolari siciliani. Non ci mettemmo molto ad imparare. Diventammo bravi e ci esibimmo in diversi paesi. Poi tutto finì. Il nostro giovane maestro non venne più e non so se fu per una questione economica o per altro. Resta il fatto che un’altra stagione di condivisione e spensieratezza se ne era andata, ed ora restano questi frammenti memoria, null’altro.
A volte basta uno sguardo, un’immagine o il ritornello di una canzone perché i pensieri comincino a muoversi, ora corrono a quando ad un certo punto della serata restammo al buio
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
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Il gruppo folcloristico di Torremuzza (Me) |
‘E lèvate 'a cammesella. A cammessella no, no. E lèvate …’
Lo spettacolo era stato interessante e fino a quel punto non c’erano state contestazione, ma solo apprezzamenti. Invece, l’esibizione finì con questo ‘malinteso’. Questo fatto esprimeva un pregiudizio campanilistico frequente, almeno allora, tra torremuzzari e mottesi. Del resto, si sa gli abitanti di ogni quartiere, paese, città si sentono diversi e migliori degli altri. Da qui le diffidenze ed i pregiudizi.
Ancora un pensiero e poi un altro, continuano a sovrapporsi, impedirlo è quasi impossibile.
Se non ci fosse stato il gruppo folcloristico forse nessuno di noi giovani torremuzzari avrebbe imparato a ‘ballare’. Eppure, era un’esigenza che sentivamo da sempre. Una volta organizzammo una serata danzante in un garage. Ci volle un intero pomeriggio di lavoro per ripulire e sistemare, si fa per dire, il ‘locale’. Quel giorno non ballammo, ma non ricordo il perché, probabilmente gli invitati decisero semplicemente di non venire. A quell’età si è ingenui e tutto sembra possibile e realizzabile, ma così non è. La passione per la musica era quasi naturale nei giovani del Borgo e non solo. Da sempre segna i giorni più belli, quella della gioventù. Da bambini seduti a Sant’Antonino facevano la gara a chi indovinava i titoli delle canzoni della Hit Parade. Allora era una delle trasmissioni più popolari della Radio. Nessuno di noi possedeva un giradischi e tantomeno i dischi. Potevamo ascoltarle solo per radio. Nonostante ciò, conoscevamo bene i brani di maggiore successo e le star che le interpretavano. Tutto avveniva per volontà di un torremuzzaro adulto, che anche per questo è parte ineliminabile dei nostri pensieri.
Un’immagine sfocata ritorna spesso ….
Avevamo 3, 4 o forse 5 anni, ma già sapevamo ballare. Il giradischi andava con una musica popolare siciliana, probabilmente era una tarantella e tutti ci guardavano meravigliati. Era un’attitudine naturale o la leggerezza tipica dei bambini? Molti anni dopo quell’abilità fu evidente a tutti e fu al centro dell’attenzione in tante serate danzanti e non solo.
Non ricordo come tutto ebbe iniziò. Nel corso di una serata danzante organizzata nel salone della scuola elementare il signor Mammana intrattenne tutti con la sua fisarmonica. Non so se quella festa si svolse prima o dopo che iniziassero le prove del gruppo folcloristico. Ricordo bene invece che qualcuno eccedette con gli alcolici e si senti male. E di certo a quel tempo molti di noi ancora non sapevano ballare. Forse l’idea di creare un gruppo folcloristico nacque in quell’occasione o forse no, ma non importa, l’iniziativa partì.
‘Si maritau Rosa, Saridda e Pippinedda e iu ca sugnu bedda mi vogghiu marità’
Di certo, le prime prove di canto e di ballo popolare siciliano avvennero con quella fisarmonica e con l’entusiasmo della novità e della condivisione. All’inizio alcuni di noi non c’erano, preferivamo giocare con un pallone o praticare qualche altro sport. Eravamo un po' restii a quella novità, ma una volta aggregati siamo diventati parte integrante del gruppo. Da quel momento in poi, tutti i pomeriggi o quasi la scuola elementare si riempiva di torremuzzari e nzusari di tutte le età. Bastava il suono di una fisarmonica, di una chitarra e di qualche mandolino per ‘provare’ ed imparare.
‘Sciuri, sciuri, sciuri di tuttu l'annu, l'amuri ca mi dasti ti lu tornu...’
Come sempre accadeva in quel periodo la novità fu sostenuta da quasi tutto il Borgo. Ognuno era pronto a svolgere la sua parte. Gli adolescenti eravamo i cantanti ed i ballerini. Le signorine avevano il compito di insegnarci le figure dei balli e le persone più grandi quello di organizzare e gestire il Comitato amministrativo e finanziario. Anche le mamme contribuirono. Furono loro a cucire i ‘costumi’ di scena, quelli tipici dei siciliani dell’Ottocento. Le canzoni erano quelle popolari. Andavano da ‘Vitti na crozza’, a ‘sciuri sciuri’, a ‘Avia nu sciccareddu’. E poi c’erano le musiche ed i balli come il fox, la tarantella. Per la meglio gioventù del Borgo erano pomeriggi di festa ed allegria.
‘Avia 'nu sciccareddu, ma veru sapuritu, a mia mi l'ammazzaru, poveru sceccu miu.… Chi bedda vuci avia, Pareva un gran tenuri, Sciccareddu di lu me cori, comu iu t'haiu a scurdari. E quannu cantava facia: i-ha, i-ha, i-ha…’
‘Fai finta di cantare che sei stonato’, mi disse una volta una mamma che si era intrufolata nel coro e che era accanto a me. Ci rimasi male, per tanto tempo mi venne il dubbio di essere ‘stonato’. Ma cosa vuol dire essere stonato? Nessuno in linea di principi lo è. Il problema sorge quando si usano due tonalità diverse contemporaneamente, quando cioè la musica e la voce o due musiche e/o due voci emettono suoni non ‘sincronizzati, cioè con la stessa tonalità, quindi è solo una questione di tecnica e di abilità canora e musicale. Non è un difetto naturale, non esistono le persone stonate o gli strumenti stonati. Ma solo difficoltà a prendere il tempo e la tonalità giusta. Quando si è adolescenti questi ragionamenti non si fanno, si pensa piuttosto di non essere adeguati. Come sarebbe bello essere giovani con la maturità di un anziano. Dovremmo capovolgere la scansione temporale della vita: nascere vecchi e morire giovani. Tutto sarebbe ugualmente effimero, ma sarebbe più semplice, più vero.
I pensieri si spostano, ora vanno ad una serata fatta in piccolo paesino dei Nebrodi.
Una delle prime esibizioni la facemmo a San Fratello. Un piccolo paesino di collina ad una trentina di chilometri di distanza dal Borgo. Il ricordo torna spesso a quella sera perché il pubblico, almeno una parte di esso, si comportò in modo ‘poco educato’. Di solito gli insegnanti memorizzano subito i nomi ed i volti dei ragazzi più vivaci o più preparati, mentre passano inosservati quelli più educati e silenziosi. Chissà perché è così. Il nostro cervello è pronto a memorizzare le cose belle e quelle brutte, ma stenta a ricordare quelle mediocri o che affrontiamo con indifferenza. Quella serata non è un bel ricordo, forse è per questo che ritorna spesso. Un gruppo di bambini era sotto il palco. Non erano lì per ascoltare le canzoni o per vedere i balli di coppia. No, erano lì per giocare a tiro a segno con le noccioline e per insultare i componenti del gruppo. Sono certo, che se quella sera ci fosse stato l’esibizione di veri professionisti, per quelle piccole pesti, sarebbe stato lo stesso. L’oggetto dello sberleffo non era la nostra esibizione, ma chi era sul palco. Una parte delle persone è così, dispettosa e irriguardosa. Di quell’esibizione rimane il fatto che settimane e mesi di prove e di sacrifici furono derisi da un gruppetto di bulletti di paese. Naturalmente non ci scoraggiammo, forse perché eravamo giovani e per noi era un gioco, solo un gioco, nulla poteva fermarci.
‘Vitti na crozza supra nu cannuni, fui curiuso e ci vossi spiare, idda m'arrispunniu cu gran duluri, murivi senza un tocco di campani …’
Il gruppo fece un salto di qualità quando alla guida arrivo un giovane musicista di Acquedolci. Era un professionista. Conosceva tutte le canzoni ed i balli popolari siciliani. Non ci mettemmo molto ad imparare. Diventammo bravi e ci esibimmo in diversi paesi. Poi tutto finì. Il nostro giovane maestro non venne più e non so se fu per una questione economica o per altro. Resta il fatto che un’altra stagione di condivisione e spensieratezza se ne era andata, ed ora restano questi frammenti memoria, null’altro.
mercoledì 3 febbraio 2021
Torremuzzari, ‘nzusari, ….
I pensieri corrono dove vogliono, come sempre. Solo la stanchezza può fermali, ma è solo un attimo, poi ripartono sempre senza volere
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

La Torre (foto di Ciccia Antonino)
Durante l’estate era nostra abitudine andare alla Torre per fumare di nascosto una sigaretta o semplicemente per ammirare il panorama. Da lì potevamo distinguere le sagome delle isole Eolie, a sinistra la Rocca di Cefalù e dal lato opposto le case di Porta Palermo a Santo Stefano di Camastra. Oltre la curva c’era la campagna. Un chilometro più in là c’era ‘Maccarruni’. Per arrivarci dovevamo percorrere un sentiero in terra battuta. Ci andavamo per giocare o per 'allenarci'. Passeggiando o correndo per quella strada avevi la sensazione di essere immerso nel verde, tra alberi di ulivo, di limoni ed aranci. C'erano diverse coltivazioni accudite con cura. I solchi dell’acqua erano ben in vista e ben allineati per assicurare l’irrigazione continua delle piante. Raramente vedevamo i proprietari e, per rispetto, mai avevamo la tentazione di cogliere un frutto. Eri in mezzo alla natura, si direbbe oggi. Respiravamo aria pura ed incontaminata. Un intenso profumo di zagara e di agrumi ti avvolgeva, anche se, essendo un posto isolato, avevi la sensazione di essere in un mondo nuovo, misterioso. In alcuni punti si vedeva il mare, che era cinquanta metri più in basso, ma anche se non si scorgeva sapevi che c’era. Questo bastava a consolarti.Che belli questi pensieri, ti deviano per portarti altrove, ma ora è tempo di tornare al principio.
In due o tre stavamo seduti sul muretto in pietra ad ammirare il panorama. Subito sotto, quasi in verticale, vedevamo la strada statale, che curva in quel punto, in basso lo scoglio. Sembrava di starci sopra. Da lì potevamo distinguerne la forma, anzi nelle giornate di mare calmo si vedeva anche il fondale sabbioso o, com’era più spesso, pieno di pietre. Qualcuno o qualcuna aveva la cattiva abitudine di andare alla Torre in modo ‘furtivo’, cioè si nascondeva alla vista di chi stava sulla riva o in acqua. Lo scopo era quello di spiare chi andava a fare il bagno proprio lì sotto o nel tratto di mare subito oltre lo scoglio.
Cielo azzurro, mare piatto e là in fondo l'orizzonte che fa un tutt'uno con il cielo, nient'altro, ma questo bastava, e basta ancora oggi per non pensare, per dimenticarsi.
Una volta da quel punto uno di noi per gioco e per superficialità, quella tipica dei ragazzini, lanciò un sassolino per colpire un’auto che stava passando. Purtroppo per noi, il conducente si fermò. Sapevamo chi era. Non ci mise molto a capire da dove era arrivata la pietra e, conoscendo la strada, corse a velocità verso di noi. Scappammo via, ma richiamammo il nostro compagno: ‘sono cose che non si fanno’, gridammo. Quando si è giovani si è leggeri e ingenui. Quel giorno avremmo potuto fare un danno enorme al conducente, per fortuna fu solo paura e rabbia per Lui e per Noi che eravamo altrettanto sorpresi per quel gesto stupido e pericoloso.
Non solo i colori del cielo e del mare, ma anche leggerezza ed uno scorrere lento ed inconsapevole del tempo e della vita che in esso si manifesta e si dilegua. La Torre è un punto di osservazione perfetto, da lì si può vedere tutto il Borgo o quasi. La frazione è piccola, ma divisa in due dalla strada statale che un tempo non era asfaltata. Quelli che dimoravano nella parte bassa erano i 'torremuzzari', quelli che invece avevano l’abitazione nella parte alta erano i ‘nzusari’. Quando sei bambino anche piccole distanze ti sembrano enormi se non conosci i luoghi. Si sa, la consapevolezza abbatte i muri, sempre. Per noi era un altro paese, in realtà erano solo pochi metri, quelli necessari per attraversare la strada. Poi cresci e ti rendi conto che i ‘muntagnoli’ erano semplicemente coloro che raramente venivano al mare e che per questo avevano avuto qualche difficoltà ad imparare a nuotare, qualcuno di loro non ha mai imparato.
I ricordi seppur scoloriti non vanno via, restano lì in attesa di essere rivissuti ancora una volta, l'ultima.
Pochi passi ci separavano, ma le differenze sembravano tante. Noi 'torremuzzari' ci sentivamo privilegiati rispetto ai nostri coetanei ‘nzusari’. Due piazzette, un cortile, ‘a vanedra’, i ponti della ferrovia, lo stabilimento, la spiaggia, il mare, e, ogni tanto, le escursioni in campagna, nient’altro. Era il nostro piccolo mondo. Non c'erano pericoli, le macchine erano poche ed eravamo liberi di muoverci, di giocare, di bisticciare, di fantasticare. Quando si è piccoli si è innocenti e basta poco per essere felici. Ma il tempo non si può fermare, soprattutto quello delle piccole gioie.
È un attimo, solo un attimo. Poi il nulla, ecco cosa resterà, il nulla. Vorresti tornare indietro, ma non puoi, sei inchiodato al presente. Ed anche quando vorresti afferrare la realtà non puoi, è già oltre, è già passato. Rimane solo il ricordo, ma solo di chi c’era e c’è ancora. E tra poco neanche quello. Siamo memoria effimera. Solo un mucchio di pensieri a termine. Nient’altro.
I pensieri corrono dove vogliono, come sempre. Solo la stanchezza può fermali, ma è solo un attimo, poi ripartono sempre senza volere
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
La Torre (foto di Ciccia Antonino) |
Che belli questi pensieri, ti deviano per portarti altrove, ma ora è tempo di tornare al principio.
In due o tre stavamo seduti sul muretto in pietra ad ammirare il panorama. Subito sotto, quasi in verticale, vedevamo la strada statale, che curva in quel punto, in basso lo scoglio. Sembrava di starci sopra. Da lì potevamo distinguerne la forma, anzi nelle giornate di mare calmo si vedeva anche il fondale sabbioso o, com’era più spesso, pieno di pietre. Qualcuno o qualcuna aveva la cattiva abitudine di andare alla Torre in modo ‘furtivo’, cioè si nascondeva alla vista di chi stava sulla riva o in acqua. Lo scopo era quello di spiare chi andava a fare il bagno proprio lì sotto o nel tratto di mare subito oltre lo scoglio.
Cielo azzurro, mare piatto e là in fondo l'orizzonte che fa un tutt'uno con il cielo, nient'altro, ma questo bastava, e basta ancora oggi per non pensare, per dimenticarsi.
La Torre è un punto di osservazione perfetto, da lì si può vedere tutto il Borgo o quasi. La frazione è piccola, ma divisa in due dalla strada statale che un tempo non era asfaltata. Quelli che dimoravano nella parte bassa erano i 'torremuzzari', quelli che invece avevano l’abitazione nella parte alta erano i ‘nzusari’. Quando sei bambino anche piccole distanze ti sembrano enormi se non conosci i luoghi. Si sa, la consapevolezza abbatte i muri, sempre. Per noi era un altro paese, in realtà erano solo pochi metri, quelli necessari per attraversare la strada. Poi cresci e ti rendi conto che i ‘muntagnoli’ erano semplicemente coloro che raramente venivano al mare e che per questo avevano avuto qualche difficoltà ad imparare a nuotare, qualcuno di loro non ha mai imparato.
I ricordi seppur scoloriti non vanno via, restano lì in attesa di essere rivissuti ancora una volta, l'ultima.
Pochi passi ci separavano, ma le differenze sembravano tante. Noi 'torremuzzari' ci sentivamo privilegiati rispetto ai nostri coetanei ‘nzusari’. Due piazzette, un cortile, ‘a vanedra’, i ponti della ferrovia, lo stabilimento, la spiaggia, il mare, e, ogni tanto, le escursioni in campagna, nient’altro. Era il nostro piccolo mondo. Non c'erano pericoli, le macchine erano poche ed eravamo liberi di muoverci, di giocare, di bisticciare, di fantasticare. Quando si è piccoli si è innocenti e basta poco per essere felici. Ma il tempo non si può fermare, soprattutto quello delle piccole gioie.
È un attimo, solo un attimo. Poi il nulla, ecco cosa resterà, il nulla. Vorresti tornare indietro, ma non puoi, sei inchiodato al presente. Ed anche quando vorresti afferrare la realtà non puoi, è già oltre, è già passato. Rimane solo il ricordo, ma solo di chi c’era e c’è ancora. E tra poco neanche quello. Siamo memoria effimera. Solo un mucchio di pensieri a termine. Nient’altro.
domenica 17 gennaio 2021
Tesori di Sicilia: arcobaleni d’inverno
di Pulvino Elena
Torremuzza, 16 gennaio 2021 - (Foto di Pulvino Elena) Al centro, quasi nascosta, la fontanella di Sant'Antonino da dove una volta nei giorni di siccità arrivava l’acqua da ‘Maccarruni’, i torremuzzari rassegnati a quella condizione andavano con i bidoni, le bacinelle o i secchi a fare approvvigionamento di acqua e non importava se essa fosse controllata oppure no, la necessità, si sa, fa superare le precauzioni e le prevenzioni, la scelta era obbligata ed era consuetudine di chi tornava dalla spiaggia di usare quell'unica sorgete per togliersi di dosso un po’ di sale e di sabbia,
lì inizia ‘a vanedra’, una stradina che scende fino quasi a chiudersi, per aprirsi, infine, sulla piazza, di fronte ai ponti della ferrovia, sotto ai suoi tre archi è possibile scorgere il mare,
dall’altro lato la cabina Telecom divelta dal vento di libeccio ed ora chiusa con lo scotch, chissà per quanto tempo resterà così, ma qui siamo nel profondo Sud è tutto è incerto ed aleatorio,
accanto due panchine in pietra, occasione per una breve sosta o per incontri tra giovani innamorati che a volte non sanno di esserlo, ma che importa,
in primo piano l’ombra creata dalla luce del sole che, come ogni pomeriggio di ogni giorno non coperto dalle nuvole, disegna la sagoma di un altro edificio 'invisibile', ma che c’è, con le sue finestre, la sua scala scoperta, i suoi balconi, anch’essi intrisi di ricordi lontani, che vanno, tornano, ripartono quando e come vogliono, senza possibilità di fermarli, senza possibilità di impedirli,
tutto è protetto dai colori tenui e sfocati di due arcobaleni, sembrano un’estensione del mare, che tutto avvolge, come una mamma ed un papà che proteggono i loro figli, tutto senza sapere che tra poco sarà già passato,
è trascorso quasi un anno, tutto continua ad essere, come che se non fosse successo nulla, un tempo rubato, un tempo che non doveva esserci, non così almeno,
ora, anche questi colori di gennaio sono già passato, sono solo un ricordo a tempo determinato, destinato a rimanere intrappolato in questa immagine scolorita come lo è la nostra breve ed incerta esistenza.
di Pulvino Elena
Al centro, quasi nascosta, la fontanella di Sant'Antonino da dove una volta nei giorni di siccità arrivava l’acqua da ‘Maccarruni’, i torremuzzari rassegnati a quella condizione andavano con i bidoni, le bacinelle o i secchi a fare approvvigionamento di acqua e non importava se essa fosse controllata oppure no, la necessità, si sa, fa superare le precauzioni e le prevenzioni, la scelta era obbligata ed era consuetudine di chi tornava dalla spiaggia di usare quell'unica sorgete per togliersi di dosso un po’ di sale e di sabbia,
lì inizia ‘a vanedra’, una stradina che scende fino quasi a chiudersi, per aprirsi, infine, sulla piazza, di fronte ai ponti della ferrovia, sotto ai suoi tre archi è possibile scorgere il mare,
dall’altro lato la cabina Telecom divelta dal vento di libeccio ed ora chiusa con lo scotch, chissà per quanto tempo resterà così, ma qui siamo nel profondo Sud è tutto è incerto ed aleatorio,
accanto due panchine in pietra, occasione per una breve sosta o per incontri tra giovani innamorati che a volte non sanno di esserlo, ma che importa,
in primo piano l’ombra creata dalla luce del sole che, come ogni pomeriggio di ogni giorno non coperto dalle nuvole, disegna la sagoma di un altro edificio 'invisibile', ma che c’è, con le sue finestre, la sua scala scoperta, i suoi balconi, anch’essi intrisi di ricordi lontani, che vanno, tornano, ripartono quando e come vogliono, senza possibilità di fermarli, senza possibilità di impedirli,
tutto è protetto dai colori tenui e sfocati di due arcobaleni, sembrano un’estensione del mare, che tutto avvolge, come una mamma ed un papà che proteggono i loro figli, tutto senza sapere che tra poco sarà già passato,
è trascorso quasi un anno, tutto continua ad essere, come che se non fosse successo nulla, un tempo rubato, un tempo che non doveva esserci, non così almeno,
ora, anche questi colori di gennaio sono già passato, sono solo un ricordo a tempo determinato, destinato a rimanere intrappolato in questa immagine scolorita come lo è la nostra breve ed incerta esistenza.
lunedì 28 dicembre 2020
Tesori di Sicilia: lo scirocco
di Concetta Pulvino

Torremuzza, 28 dicembre 2020 - (foto di Pulvino Concetta)
Il vento di scirocco alza un velo di vapore acqueo impetuoso e leggero, oltre il bianco e l’azzurro le sagome delle isole Eolie, nascoste per un giorno o due da questa leggera nebbia marina, anche questo è un miracolo della natura, anche questo è un tesoro di Sicilia.Scirocco
O rabido ventare di scirocco
che l'arsiccio terreno gialloverde bruci;
e su nel cielo pieno
di smorte luci
trapassa qualche biocco
di nuvola, e si perde.
Ore perplesse, brividi
d'una vita che fugge
come acqua tra le dita;
inafferrati eventi,
luci - ombre, commovimenti
delle cose malferme della terra;
oh alide ali dell'aria
ora son io
l'agave che s'abbarbica al crepaccio
dello scoglio
e sfugge al mare da le braccia d'alghe
che spalanca ampie gole e abbranca rocce;
e nel fermento
d'ogni essenza, coi miei racchiusi bocci
che non sanno più esplodere oggi sento
la mia immobilità come un tormento.
di Eugenio Montale
di Concetta Pulvino
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Torremuzza, 28 dicembre 2020 - (foto di Pulvino Concetta) |
Scirocco
O rabido ventare di scirocco
che l'arsiccio terreno gialloverde bruci;
e su nel cielo pieno
di smorte luci
trapassa qualche biocco
di nuvola, e si perde.
Ore perplesse, brividi
d'una vita che fugge
come acqua tra le dita;
inafferrati eventi,
luci - ombre, commovimenti
delle cose malferme della terra;
oh alide ali dell'aria
ora son io
l'agave che s'abbarbica al crepaccio
dello scoglio
e sfugge al mare da le braccia d'alghe
che spalanca ampie gole e abbranca rocce;
e nel fermento
d'ogni essenza, coi miei racchiusi bocci
che non sanno più esplodere oggi sento
la mia immobilità come un tormento.
di Eugenio Montale
venerdì 11 dicembre 2020
‘Ed ora tutti allo scoglio’, gridò qualcuno
I ricordi vengono e poi, dopo un po', se ne vanno senza volere, chissà da cosa sono guidati. Una cosa è certa: una spiegazione non c’è e non ci potrà mai essere. Ora tornano indietro nel tempo, a quell’estate di tanti anni fa
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Lo scoglio (Torremuzza - Me)
Era una bellissima giornata di sole, il mare era piatto, come solo a luglio è possibile che sia. ‘Ed ora tutti allo scoglio’, gridò qualcuno. Bastava un semplice richiamo buttato lì quasi senza volere perché la ciurma di ragazzini seduti sotto una vecchia e malandata barca di pescatori incominciasse a muoversi. A piedi nudi, con le infradito o con gli zoccoli, un po' in acqua un po' fuori, tra sabbia e sassolini, in fila indiana lungo la riva andavamo cento metri più in là. Un minuto, due, ed eri di fronte allo scoglio. Da lì alzando lo sguardo avresti potuto vedere in tutta la sua maestosità la Torre. Saranno una cinquantina metri. Subito sotto ci sono la strada statale e la linea ferroviaria che, per la sporgenza, curvano proprio in quel punto. È una Torre di avvistamento, come ce ne sono tante in Sicilia. Questa differisce dalle altre per la forma: sembra una poltrona senza braccioli. Probabilmente è proprio da questa stranezza che il borgo marinaro ha preso il nome: Torre mozza, diventato Torremuzza. Che la Torre fosse stata costruita in quel punto è comprensibile, ma che sulla stessa linea ci fosse anche lo scoglio è del tutto casuale.Una pausa ed ecco che i pensieri tornano a muoversi, divagano, si accavallano, si allontanano. Occorre concentrarsi per evitare di subirli passivamente.
Ora è tempo di entrare in acqua. Il fondo è pietroso, raramente tra la riva e lo scoglio si è adagiata la sabbia. Quando questo succedeva si poteva arrivare allo scoglio camminando nell’acqua, chiunque poteva salire in sicurezza anche chi non sapeva nuotare. Spensierati come eravamo raggiungere questa piattaforma naturale non era complicato, ma un po' di trepidazione c’era sempre. A volte non si toccava ed era necessario nuotare per arrivare sulla parte più vicina alla riva. Per salire c’era il timore di graffiarsi un piede sullo scalino creato dall’erosine dell’acqua o da qualche pescatore di buona volontà, comunque sia esso facilitava l’ascesa e non c’era nessuna paura ad utilizzarlo anche se era come fare un passo nel buio, speravi solo di non pungerti e di non trovarci un granchio o un altro crostaceo.
Un attimo di esitazione ed eri già sulla piattaforma ‘lipposa’, un po' bagnata un po' sconnessa, ma, facendo attenzione, non c’era pericolo di scivolare. Qualcuno andava a sedersi in una specie di conca che è al centro dello scoglio, ma anche qui non era esclusa la presenza di qualche granchietto. Qualcuno sosteneva che fosse stato il principe di Torremuzza ad aver fatto scavare quella specie di poltrona. E che dalla Torre ci fosse un passaggio segreto per scendere fino al mare, ma non ho mai capito dove fosse. Verità o fantasie di ragazzini? Che importa. Anche quella storia era spensieratezza e felicità.
Una volta su' non potevamo evitare di guardare le fessure d’acqua che c’erano tra lo scoglio su cui eravamo saliti e quelli che c’erano tutt’intorno. Una era particolarmente pericolosa: c’era il ‘risucchio’. Chi ci finiva dentro rischiava di andare sotto e non riuscire più a riemergere. Mai nessuno di noi si è azzardato a farlo. Una volta un ragazzo vi morì annegato, ma non era del paese. Per esorcizzare il pericolo che quel dramma aveva ‘rivelato’ alla nostra coscienza di bambini ci dicevamo che era di Mistretta, un paesino di montagna e che di certo quel giovane non conosceva lo scoglio e probabilmente non sapeva nuotare. Il ricordo dell’ambulanza e della ‘tragica’ notizia non è stato cancellato dalla memoria, ma è scolorito in pochi ore, come se dentro di noi ci fosse stato un interruttore pronto ad azionarsi automaticamente per spegnere i pensieri tristi. Quando si è giovani è così. Si inibiscono senza volere tutti i fatti che impediscono di vivere con leggerezza ed allegria. A quell’età questi frammenti di memoria scorrono come l’acqua sulle pietre, scivolano via e non gli dai quell’importanza che invece dovrebbero avere.
I pensieri corrono, sono infiniti e ritornano, senza volerlo, allo stesso punto.
No, non avevamo nessuna paura a salire sullo scoglio. Era un gioco, un divertimento come un altro. Andavamo per tuffarci. Per noi torremuzzari non era necessario andare in piscina. Del resto, chi ci era mai stato? Non ne esistevano nei paraggi. Erano sfizi da cittadini e da nordici. Noi avevamo il mare e questa piattaforma naturale, non ci serviva altro. Spensieratezza e vitalità. Si, ora ne sono certo era felicità. Per stare bene non avevamo bisogno di nient’altro. Il sole, l’estate, la giovinezza, i compagni, il mare, e, quel giorno, l’ebrezza dei tuffi. Certo c’era chi dava delle ‘panzate’ tremende e chi entrava in acqua con i piedi per paura di sbattere. Il timore era quello di arrivare sul fondo con le braccia o con la testa e farsi male, infatti l’acqua non era profonda e non era esclusa qualche pietra o qualche spuntone di scoglio su cui si poteva sbattere. Dall’altro lato della piattaforma l’acqua era sempre limpida e profonda, si vedeva il fondale e ci si poteva tuffare senza timore di toccare. Raramente lo facevamo, proprio perché non si toccava. Anche se sei un provetto nuotatore è sempre pericoloso andare dove non si possono poggiare i piedi in caso di necessità. In più, per risalire era necessario fare il giro a nuoto, mentre dal lato più basso erano solo pochi metri.
La sfida era sempre a chi faceva meglio l’entrata a delfino, anche se non c’era mai un vincitore. Il divertimento era la condivisione, non chi era più bravo. Tuffarsi, in successione, uno dietro l’altro era una prassi inevitabile. Naturalmente era necessario stare attenti per evitare di andare addosso a chi era saltato in acqua prima di te.
Dopo l’ultima ‘panzata’ si tornava a riva.
Un ultimo sguardo alla Torre, anche per la curiosità di vedere se c’era qualcuno.
Poi il ritorno, un altro momento di gioia se ne era andato, e così sarebbe stato per tutta l’estate, e per quelle successive, ora, a distanza di tanti anni, non restano che questi brevi ed inutili ricordi, nient’altro.
I ricordi vengono e poi, dopo un po', se ne vanno senza volere, chissà da cosa sono guidati. Una cosa è certa: una spiegazione non c’è e non ci potrà mai essere. Ora tornano indietro nel tempo, a quell’estate di tanti anni fa
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Lo scoglio (Torremuzza - Me) |
Una pausa ed ecco che i pensieri tornano a muoversi, divagano, si accavallano, si allontanano. Occorre concentrarsi per evitare di subirli passivamente.
Ora è tempo di entrare in acqua. Il fondo è pietroso, raramente tra la riva e lo scoglio si è adagiata la sabbia. Quando questo succedeva si poteva arrivare allo scoglio camminando nell’acqua, chiunque poteva salire in sicurezza anche chi non sapeva nuotare. Spensierati come eravamo raggiungere questa piattaforma naturale non era complicato, ma un po' di trepidazione c’era sempre. A volte non si toccava ed era necessario nuotare per arrivare sulla parte più vicina alla riva. Per salire c’era il timore di graffiarsi un piede sullo scalino creato dall’erosine dell’acqua o da qualche pescatore di buona volontà, comunque sia esso facilitava l’ascesa e non c’era nessuna paura ad utilizzarlo anche se era come fare un passo nel buio, speravi solo di non pungerti e di non trovarci un granchio o un altro crostaceo.
Un attimo di esitazione ed eri già sulla piattaforma ‘lipposa’, un po' bagnata un po' sconnessa, ma, facendo attenzione, non c’era pericolo di scivolare. Qualcuno andava a sedersi in una specie di conca che è al centro dello scoglio, ma anche qui non era esclusa la presenza di qualche granchietto. Qualcuno sosteneva che fosse stato il principe di Torremuzza ad aver fatto scavare quella specie di poltrona. E che dalla Torre ci fosse un passaggio segreto per scendere fino al mare, ma non ho mai capito dove fosse. Verità o fantasie di ragazzini? Che importa. Anche quella storia era spensieratezza e felicità.
Una volta su' non potevamo evitare di guardare le fessure d’acqua che c’erano tra lo scoglio su cui eravamo saliti e quelli che c’erano tutt’intorno. Una era particolarmente pericolosa: c’era il ‘risucchio’. Chi ci finiva dentro rischiava di andare sotto e non riuscire più a riemergere. Mai nessuno di noi si è azzardato a farlo. Una volta un ragazzo vi morì annegato, ma non era del paese. Per esorcizzare il pericolo che quel dramma aveva ‘rivelato’ alla nostra coscienza di bambini ci dicevamo che era di Mistretta, un paesino di montagna e che di certo quel giovane non conosceva lo scoglio e probabilmente non sapeva nuotare. Il ricordo dell’ambulanza e della ‘tragica’ notizia non è stato cancellato dalla memoria, ma è scolorito in pochi ore, come se dentro di noi ci fosse stato un interruttore pronto ad azionarsi automaticamente per spegnere i pensieri tristi. Quando si è giovani è così. Si inibiscono senza volere tutti i fatti che impediscono di vivere con leggerezza ed allegria. A quell’età questi frammenti di memoria scorrono come l’acqua sulle pietre, scivolano via e non gli dai quell’importanza che invece dovrebbero avere.
I pensieri corrono, sono infiniti e ritornano, senza volerlo, allo stesso punto.
No, non avevamo nessuna paura a salire sullo scoglio. Era un gioco, un divertimento come un altro. Andavamo per tuffarci. Per noi torremuzzari non era necessario andare in piscina. Del resto, chi ci era mai stato? Non ne esistevano nei paraggi. Erano sfizi da cittadini e da nordici. Noi avevamo il mare e questa piattaforma naturale, non ci serviva altro. Spensieratezza e vitalità. Si, ora ne sono certo era felicità. Per stare bene non avevamo bisogno di nient’altro. Il sole, l’estate, la giovinezza, i compagni, il mare, e, quel giorno, l’ebrezza dei tuffi. Certo c’era chi dava delle ‘panzate’ tremende e chi entrava in acqua con i piedi per paura di sbattere. Il timore era quello di arrivare sul fondo con le braccia o con la testa e farsi male, infatti l’acqua non era profonda e non era esclusa qualche pietra o qualche spuntone di scoglio su cui si poteva sbattere. Dall’altro lato della piattaforma l’acqua era sempre limpida e profonda, si vedeva il fondale e ci si poteva tuffare senza timore di toccare. Raramente lo facevamo, proprio perché non si toccava. Anche se sei un provetto nuotatore è sempre pericoloso andare dove non si possono poggiare i piedi in caso di necessità. In più, per risalire era necessario fare il giro a nuoto, mentre dal lato più basso erano solo pochi metri.
La sfida era sempre a chi faceva meglio l’entrata a delfino, anche se non c’era mai un vincitore. Il divertimento era la condivisione, non chi era più bravo. Tuffarsi, in successione, uno dietro l’altro era una prassi inevitabile. Naturalmente era necessario stare attenti per evitare di andare addosso a chi era saltato in acqua prima di te.
Dopo l’ultima ‘panzata’ si tornava a riva.
Un ultimo sguardo alla Torre, anche per la curiosità di vedere se c’era qualcuno.
Poi il ritorno, un altro momento di gioia se ne era andato, e così sarebbe stato per tutta l’estate, e per quelle successive, ora, a distanza di tanti anni, non restano che questi brevi ed inutili ricordi, nient’altro.
lunedì 2 novembre 2020
La meglio gioventù e non solo
Tutti quelli che c’erano ricordano quel giorno, tutti sanno i nomi di chi c’era, tutti si riconoscono come parte di quella comunità. Eppure, è un’immagine che esiste solo per puro caso. Fino ad un minuto prima nessuno avrebbe pensato ad una foto di gruppo dei Torremuzzari
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

I Torremuzzari, fine anni Settanta - (foto di Petronio)
Era un giorno come tanti nel piccolo borgo marinaro di Torremuzza. Una domenica come un’altra. Spensierata, a giocare a bocce e, in diversi, a guardare. Si, perché allora otto bocce ed un pallino erano comunità e condivisione. Non serviva altro. Segnava le domeniche invernali dei Torremuzzari di tutte le età. Nelle piccole comunità è così: le generazioni si contaminano a vicenda, non c’è l’anziano ed il giovane, ma una ‘umanità’ senza tempo, senza età. Le squadre si formavano al momento, tenendo conto di chi c’era o più semplicemente di chi arrivava per primo in piazzetta. Il campo era la strada e la piazza, con le sue mattonelle un po’ sconnesse ed i marciapiedi bassi, dritti o ad angolo.
Quella mattina è stata diversa dalle altre. Nessuno di noi lo sapeva, ma è sempre così, le cose succedono senza volerlo, nel bene o nel male accadono. Durante la partita, ecco che arriva Petronio, stava semplicemente passando. Di certo non sapeva di quella piccola ‘folla’ di Torremuzzari. Un attimo ed uno di loro ha un’idea brillante. ‘Petronio perché non ci fai una foto?’. Sì, perché Petronio era un fotografo, non ho mai saputo se fosse un dilettante o un professionista e se quella foto, poi, sia stata pagata e da chi, e soprattutto non ho mai saputo chi ha l’originale. Ma che importa, c’è, questo solo conta. Anzi, tutti noi dobbiamo ringraziare chi ebbe quella brillante idea, di certo è o era qualcuno particolarmente affezionato a quel luogo ed a quella comunità.
È bastato poco per chiamare chi si trovava in quel momento in piazza Marina. Anche le ragazze si sono avvicinate. Tutti in posa sul muretto, quello dove ci sedevamo per guardare le partite di bocce. Dietro a pochi metri dalla ferrovia c’era il filo per stendere i panni, a destra la fontanella, a sinistra i ponti che caratterizzano il piccolo borgo marinaro.
Uno scatto, uno solo ed ecco che un momento di vita vissuta resterà immortalato per sempre. Rivedersi giovani, con i capelli lunghi, con espressioni spensierate è struggente, ti ricorda che il tempo passa, che non lo puoi fermare. Eppure, quella foto racchiude una comunità, un’entità precisa, unica, come, del resto, lo sono tante altre.
Quel giorno nessuno di noi avrebbe mai pensato di vivere un momento di vita che sarebbe stato possibile ricordare e tramandare a chi verrà dopo noi. E non voglio scrivere i nomi di chi c’era, non ora, non più, adesso non potrei.
Gli sguardi dei giovani e degli anziani in posa esprimono l’animo di una comunità, meglio di come possa fare qualunque parola o pensiero. Diversi per età, spesso antagonisti e polemici, divisi dalla politica, dal calcio, ma pur sempre appartenenti agli stessi luoghi ... alle stesse strade ... al rumore del mare ... ai ponti della ferrovia ... allo stabilimento che produceva olio di sansa ... alla Torre ... allo scoglio ... al tabacchino ... alla piazzetta ... alle bocce di quel giorno ... a Petronio ... a quel muretto ... a quel momento, triste e bello nello stesso tempo.
Tutti, anche quelli che quel giorno non c’erano, anche quelli che non ci sono più, appartenevamo ed apparteniamo allo stesso borgo marinaro, alla stessa famiglia, a quella dei Torremuzzari.
Si, perché non siamo nient’altro. Solo pensieri ed immagini di chi ci sta di fronte, di chi abbiamo incontrato nella nostra strada, di chi anche senza volere ci tiene in un angolino della sua memoria.
Tutti quelli che c’erano ricordano quel giorno, tutti sanno i nomi di chi c’era, tutti si riconoscono come parte di quella comunità. Eppure, è un’immagine che esiste solo per puro caso. Fino ad un minuto prima nessuno avrebbe pensato ad una foto di gruppo dei Torremuzzari
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
I Torremuzzari, fine anni Settanta - (foto di Petronio) |
Le squadre si formavano al momento, tenendo conto di chi c’era o più semplicemente di chi arrivava per primo in piazzetta. Il campo era la strada e la piazza, con le sue mattonelle un po’ sconnesse ed i marciapiedi bassi, dritti o ad angolo.
Quella mattina è stata diversa dalle altre. Nessuno di noi lo sapeva, ma è sempre così, le cose succedono senza volerlo, nel bene o nel male accadono. Durante la partita, ecco che arriva Petronio, stava semplicemente passando. Di certo non sapeva di quella piccola ‘folla’ di Torremuzzari. Un attimo ed uno di loro ha un’idea brillante. ‘Petronio perché non ci fai una foto?’. Sì, perché Petronio era un fotografo, non ho mai saputo se fosse un dilettante o un professionista e se quella foto, poi, sia stata pagata e da chi, e soprattutto non ho mai saputo chi ha l’originale. Ma che importa, c’è, questo solo conta. Anzi, tutti noi dobbiamo ringraziare chi ebbe quella brillante idea, di certo è o era qualcuno particolarmente affezionato a quel luogo ed a quella comunità.
È bastato poco per chiamare chi si trovava in quel momento in piazza Marina. Anche le ragazze si sono avvicinate. Tutti in posa sul muretto, quello dove ci sedevamo per guardare le partite di bocce. Dietro a pochi metri dalla ferrovia c’era il filo per stendere i panni, a destra la fontanella, a sinistra i ponti che caratterizzano il piccolo borgo marinaro.
Uno scatto, uno solo ed ecco che un momento di vita vissuta resterà immortalato per sempre. Rivedersi giovani, con i capelli lunghi, con espressioni spensierate è struggente, ti ricorda che il tempo passa, che non lo puoi fermare. Eppure, quella foto racchiude una comunità, un’entità precisa, unica, come, del resto, lo sono tante altre.
Quel giorno nessuno di noi avrebbe mai pensato di vivere un momento di vita che sarebbe stato possibile ricordare e tramandare a chi verrà dopo noi. E non voglio scrivere i nomi di chi c’era, non ora, non più, adesso non potrei.
Gli sguardi dei giovani e degli anziani in posa esprimono l’animo di una comunità, meglio di come possa fare qualunque parola o pensiero. Diversi per età, spesso antagonisti e polemici, divisi dalla politica, dal calcio, ma pur sempre appartenenti agli stessi luoghi ... alle stesse strade ... al rumore del mare ... ai ponti della ferrovia ... allo stabilimento che produceva olio di sansa ... alla Torre ... allo scoglio ... al tabacchino ... alla piazzetta ... alle bocce di quel giorno ... a Petronio ... a quel muretto ... a quel momento, triste e bello nello stesso tempo.
Tutti, anche quelli che quel giorno non c’erano, anche quelli che non ci sono più, appartenevamo ed apparteniamo allo stesso borgo marinaro, alla stessa famiglia, a quella dei Torremuzzari.
Si, perché non siamo nient’altro. Solo pensieri ed immagini di chi ci sta di fronte, di chi abbiamo incontrato nella nostra strada, di chi anche senza volere ci tiene in un angolino della sua memoria.
venerdì 14 agosto 2020
Tesori di Sicilia: Torremuzza, lo scoglio
lunedì 3 agosto 2020
C’è sempre una prima volta che non avresti voluto
Anche quando non vorresti che fosse, c’è sempre una prima volta, persino vivere un’estate che non avresti voluto, non così almeno
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Torremuzza, Sicilia, 31 luglio 2020
(Foto di Erina Barbera)
I giorni trascorrono lenti, inesorabili, e non puoi farci nulla. L’afa ed il caldo sono sempre gli stessi. Sono giorni che non avresti voluto vivere, non così, almeno. Ora sono già memoria. Che bello il mare di luglio. L’acqua è limpida e liscia, sembra di essere in piscina. Il colore è difficile da definire: blu, celeste, verde. Non importa, per chi lo ha vissuto è un’immagine indelebile che riemerge ogni volta, come il pane con la nutella che tua madre ti forzava a mangiare da bambino, o come i giochi inventati al momento, o quelli semplici semplici come dare quattro calci ad un pallone. I piedi sono immersi nell’acqua trasparente come solo in queste giorni è possibile che sia. Si vedono le pietre ed i ‘mulietti’, così, da ragazzi, chiamavamo i pesciolini intenti a morderti le caviglie. Tutto avveniva naturalmente, appena sotto il livello dell’acqua. Non sentivi nulla se non un leggero pizzico, sai che questo era un loro modo di cibarsi. Chissà qual è il nome vero, è una curiosità mai appagata, ma che importa, è l’estate dei ricordi che vorresti. Non come questa, uguale per tanti, ma non per tutti.Il tempo non si può fermare. Trascorre. Non puoi impedirlo, lo subisci soltanto. Puoi non pensarci, ma intanto trascorre ancora.Ora sono i giorni di agosto, quelli delle feste e delle sagre, di Ferragosto. Già si avverte la fine della stagione. Le ore hanno un colore diverso, non si riescono a vivere senza il pensiero dell’imminente arrivo di settembre. E’ la fine delle ferie, del rientro a scuola o al lavoro. Non c’è più la leggerezza del tempo appena trascorso in riva la mare o immersi nell’acqua tiepida e trasparente di luglio.Ma anche questa è vita, e tra poco sarà anch'essa memoria che non avresti voluto.C’è sempre una prima volta che non avresti voluto vivere.
Torremuzza, Sicilia, 31 luglio 2020 (Foto di Erina Barbera) |
sabato 1 agosto 2020
Andrea Camilleri ed il mal di Sicilia
'Ora lo so, a me mancava u scrusciu du mari’, Andrea Camilleri
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Torremuzza, Sicilia, 31 luglio 2020 - Video di Erina Barbera
‘.. la prima volta che da bambino mi spostai dal mio paese con mio padre andai all'interno della Sicilia, a Caltanissetta, la sera arrivati nell'albergo in cui avevamo preso una stanza (ero molto piccolo e dormivo con lui) mio padre si accorse che non riuscivo a prendere sonno: «Perché non dormi?» - mi chiese. «C'è qualche cosa che mi manca...» risposi io. «Vabbè - continuò lui - ti manca la mamma ma già domani torniamo a casa e la troverai». In realtà, ora lo so, a me mancava il rumore del mare. Da casa mia io potevo sentirlo, soprattutto d'inverno, ed era con quel rumore che quasi mi cullava, molto simile alla mia solitudine di figlio unico’, Andrea Camilleri
Fonte ricerca.repubblica.it
martedì 14 luglio 2020
Tesori di Sicilia: Torremuzza, tramonti di luglio
di Calogero Pulvino
Torremuzza, tramonti di luglioFoto di Pulvino Calogero
Il bianco del Sole diventa giallo, poi arancione e, infine, rosso, sono i colori di luglio, sono i colori di SiciliaEppure, sotto, invisibile c'è il blu del mare e là, in fondo, il cielo azzurrognolo che si staglia, verso occidente, verso l'infinitoE' un sogno che diventa realtà, è un fuoco senza tempo che si accende ogni sera, tutti i giorni, eterno, sempre diverso, ma non è un'illusione, sono i tramonti di luglio, sono i tesori di Sicilia
giovedì 26 settembre 2019
Tesori di Sicilia: Torremuzza
sabato 7 settembre 2019
Tesori di Sicilia: Torremuzza
di Erina Barbera, Tramonto di settembre
Chistu è u culuri du suli, u sapuri du marirusso, giallo, arancioni, comu a terra di Siciliasalatu come un limuni amaru, ruci come u zuccuru ri ficu
l'acqua va e veni, lenta, pirenni, inutili
comu tutti i siri, comu tutti i iorna
è u tramontu ri turrimuzzara, è u tramontu ri siciliani ed è subbitu sira, ed è subbitu dumani
l'acqua va e veni, lenta, pirenni, inutili
comu tutti i siri, comu tutti i iorna
è u tramontu ri turrimuzzara, è u tramontu ri siciliani
venerdì 21 giugno 2019
Tesori di Sicilia: Solstizio d'estate
Il sole sorge puntuale come ogni mattina, ma oggi è un giorno speciale, è il più lungo dell'anno, è il solstizio d'estate
di Giovanni pulvino (@PulvinoGiovanni)
Solstizio d'estate 2019 - (foto di Giovanni Pulvino)
E' l'alba di un nuovo giorno, l'aria fresca del primo mattino ed il silenzio hanno un sapore unico, come il giallo e l'arancione intenso del sole appena spuntato, laggiù ad est come sempre. E' il ciclo della vita che si rinnova, ancora una volta, ma è solo un momento, poi tutto passa, per tornare di nuovo domani e dopodomani e poi ancora ed ancora. Le parole cercano di fermare quell'attimo, ma è tutto inutile, ora è già diverso, è un'altra cosa, che durerà anch'essa un solo momento e così sarà per sempre. Memoria destinata a scolorirsi come tutto, come quel colore, che prima è arancione, poi giallo, infine è solo un ricordo che durerà come la vita di chi lo ha vissuto, sia pur per un solo momento.
di Giovanni pulvino (@PulvinoGiovanni)
sabato 29 dicembre 2018
A Motta d’Affermo la politica è al servizio dei cittadini
L'Assegno civico posto in essere dagli amministratori comunali di Motta d'Affermo con l'indennità di carica è una modalità di sostegno al reddito da imitare per il Reddito di cittadinanza
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Torremuzza, frazione del comune di Motta d'Affermo
In Italia, come ha certificato l’Istat, i poveri, quelli ‘veri’, sono tanti, soprattutto al Sud. Anche se essi dispongono di un reddito ‘insufficiente’ vivono, nella maggioranza dei casi, con dignità e quando svolgono un'attività lo fanno con serietà e senso del dovere. Nella passata legislatura il governo di Paolo Gentiloni ha introdotto il Rei stanziando circa 2,9 miliardi di euro. Il provvedimento si è dimostrato insufficiente per risolvere il problema della povertà e dell’esclusione sociale, ma esso è comunque l’inizio di un percorso che potrà essere continuato ed integrato proficuamente con il Reddito di cittadinanza. Molto dipenderà dalle modalità di applicazione della nuova legge e se essa avrà come obiettivo la dignità del lavoro. A tale scopo può aiutare l’azione di sostegno al reddito avviata in un piccolo comune del profondo Sud: Motta d’Affermo.
Torremuzza, frazione di Motta d'Affermo
In questo paese dei Nebrodi gli amministratori hanno rinunciato all’indennità di carica, ripetendo quanto avevano già fatto in altre due precedenti legislature. Le risorse risparmiate dalle casse comunali sono ora utilizzate per coprire alcuni servizi erogati dall’Ente, tra questi la spesa relativa all’Assegno civico. All’inizio dell’anno l’Amministrazione comunale ha elaborato un piano di lavoro da affidare ai disoccupati. I lavoratori individuati con un’apposita graduatoria sono stati assegnati alla pulizia delle strade e alla sistemazione del verde. In tutto sono stati impiegati quattordici addetti. Ebbene da quando questi ‘precari’ sono stati assegnati a questo compito le strade sono pulite ed il verde pubblico è curato come non mai. La cifra che essi percepiscono non è nemmeno un quinto di quanto incassa un dipendente a tempo indeterminato ed il contratto che hanno sottoscritto è di breve durata, eppure svolgono il loro lavoro con serietà. Qui, in questa piccola comunità (al Sud è assai più frequente di quanto si pensi), la politica è al servizio dei cittadini e questa storia è la migliore risposta a coloro che in modo superficiale ritengono che i meridionali non vogliono lavorare. I disoccupati, gli esclusi ed i precari del Sud non hanno bisogno di ‘assistenzialismo’, ma della dignità del lavoro e l’azione di politica sociale posta in essere a Motta d’Affermo ne è un esempio. Il governo Conte ed i due vice premier, Di Maio e Salvini, sapranno fare altrettanto con il Reddito di cittadinanza?
Fonte: comune.mottadaffermo.me.it
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Torremuzza, frazione del comune di Motta d'Affermo |
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Torremuzza, frazione di Motta d'Affermo |
Fonte: comune.mottadaffermo.me.it
mercoledì 26 settembre 2018
Tesori di Sicilia: tramonti di settembre
Tramonti di settembre22 settembre 2018 - Torremuzza, Sicilia (Italia)
Il bianco del Sole diventa giallo, poi arancione e, infine, rosso, sono i colori di settembre, sono i colori di Sicilia. Il barchino, posto li in mezzo, sembra boccheggiare come un naufrago, pare prendere fuoco, di certo è un intruso, ma non è lì per caso. Ondeggia, in un moto lento e leggero, tra il cielo ed il mare, il suo solo ed inconsapevole scopo è dare sublimazione ad un miracolo della natura: l'ultimo tramonto estivo sulle acque meridionali del Tirreno che, nella sua esagerazione, preannuncia l'arrivo dell'autunno. Eppure, sotto questi colori intensi c'è il blu del mare ed il cielo azzurrognolo che si staglia, verso occidente, verso l'infinito. E' un sogno che diventa realtà, è un fuoco senza tempo che si accende ogni sera, tutti i giorni, eterno, sempre diverso, ma non è un'illusione, sono i tramonti di settembre, sono i tesori di Sicilia.
venerdì 29 dicembre 2017
Tesori di Sicilia: Torremuzza, neve sul mare
domenica 3 settembre 2017
Tesori di Sicilia: Torremuzza, 2 settembre 2017
martedì 15 agosto 2017
Tesori di Sicilia: Torremuzza
mercoledì 9 agosto 2017
Tesori di Sicilia: Torremuzza, tramonto, 6 agosto 2017
lunedì 31 luglio 2017
Tesori di Sicilia: Torremuzza
venerdì 21 giugno 2019
Tesori di Sicilia: Solstizio d'estate
Il sole sorge puntuale come ogni mattina, ma oggi è un giorno speciale, è il più lungo dell'anno, è il solstizio d'estate
di Giovanni pulvino (@PulvinoGiovanni)
Solstizio d'estate 2019 - (foto di Giovanni Pulvino)
E' l'alba di un nuovo giorno, l'aria fresca del primo mattino ed il silenzio hanno un sapore unico, come il giallo e l'arancione intenso del sole appena spuntato, laggiù ad est come sempre. E' il ciclo della vita che si rinnova, ancora una volta, ma è solo un momento, poi tutto passa, per tornare di nuovo domani e dopodomani e poi ancora ed ancora. Le parole cercano di fermare quell'attimo, ma è tutto inutile, ora è già diverso, è un'altra cosa, che durerà anch'essa un solo momento e così sarà per sempre. Memoria destinata a scolorirsi come tutto, come quel colore, che prima è arancione, poi giallo, infine è solo un ricordo che durerà come la vita di chi lo ha vissuto, sia pur per un solo momento.
di Giovanni pulvino (@PulvinoGiovanni)
venerdì 14 dicembre 2018
Parco delle Madonie, ‘U Pagghiaru’ di Piano dei Cervi
Lungo il cammino di Piano dei Cervi, nel cuore delle Madonie, è possibile visitare ‘U Pagghiaru’, modesto ricovero utilizzato dai contadini e dai pastori ed ancora oggi da escursionisti ed amanti della natura
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto di Salvina Farinella
Il lavoro dei contadini e dei pastori inizia all’alba e termina al tramonto, vale a dire da ‘suli a suli’. Fino a pochi decenni fa per recarsi sul posto di lavoro spesso essi dovevano percorrere diversi chilometri, pertanto erano costretti a mettersi in cammino prima dell’alba e rientrare con il buio. Per evitare quei lunghi tragitti i madoniti si sono ingegnati. Nelle valli e nei boschi delle Madonie furono edificati i ‘pagghiari’, modesti ricoveri per la notte eretti con una struttura semplice. Quattro mura in pietra coperti con del pagliericcio. Essi erano utilizzati per brevi soggiorni dai contadini e dai pastori. Oggi sono adoperati dagli escursionisti che visitano il Parco e le valli delle Madonie. Queste costruzioni ricordano le capanne costruite dai nostri antenati del paleolitico. A Piano dei Cervi è possibile vedere come esse venivano costruite. La memoria qui, tra questi monti, è ancora rievocabile, è ancora presente. Ecco come descrive questo luogo incantato Matilde Caruso in palermoprime.it: ‘Nel cuore del Parco delle Madonie si nasconde, da una fitta vegetazione boschiva, Piano Cervi, un ambiente selvaggio, incontaminato, la foresta dell’ Abies Nebrodensis, abete in via d’estinzione e presente solo nelle Madonie. Di notte un tappeto di lucciole illumina la vegetazione, le volpi bussano alla porta della tenda degli escursionisti per rubare qualcosa da magiare e i cinghiali – suino nero siciliano – vagano per i boschi in cerca di ghiande prelibate. I cervi, animali che diedero origine al toponimo, si sono estinti, ma per fortuna il loro posto è stato occupato dai daini, che sono stati reintrodotti nella foresta negli anni ’80. Per provare ad avvistare i daini è consigliato seguire il tragitto che va da Portella Colla – vicino Piano Battaglia – verso Piano dei Cervi’.
Fonte palermoprime.it
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Foto di Salvina Farinella |
venerdì 11 maggio 2018
Tesori di Sicilia: Gangi e l'Etna
Gangi, sullo sfondo l'Etna - Foto di Oddo Giuseppa |
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