giovedì 28 luglio 2022

Erano 'torremuzzari' a tempo determinato

Se pensi a quello che è stato ed a quello che è, ti rendi conto che sei in un luogo che non esiste più, vivi un tempo che non ti appartiene

di Giovanni Pulvino

Via San Giuseppe, Torremuzza (Me), 10 marzo 2008 - (foto di Giovanni Pulvino)

La via San Giuseppe per un breve periodo divenne la ‘pista’ dei nostri 'monopattini'. Erano 'giocattoli' rudimentali, da non confondere con quelli elettrici di oggi. Li costruivamo noi, erano fatti con una tavola di legno inchiodata su due barre anch'esse di legno su cui avevamo fissato quattro 'cuscinetti' in acciaio. Scendevamo stando seduti a pochi centimetri da terra, davamo la direzione manovrando con i piedi le rotelle che erano nella parte anteriore (i più coraggiosi usavano le mani), il freno era un listello sempre di legno inchiodato su un lato. Ne avevamo diversi, poi ne costruimmo uno grande, c’era posto per tre o quattro persone o forse più. 
Foto da it.wikipedia.org

Una volta rischiammo l’impatto con una delle poche automobili che circolavano allora. Il gioco consisteva nel fare la discesa di via San Giuseppe ad alta velocità, ovviamente senza cadere. Quel giorno, quando giungemmo vicino alla cappella di Sant’Antonino, ci venne incontro un’auto, non ricordo chi c’era alla guida, forse Pasquale il figlio di uno dei due fratelli Giannì, i proprietari della raffineria; ci buttammo di lato appena in tempo, evitammo l’urto per ‘miracolo’, ma il monopattino, finito sotto l’auto, si ridusse in pezzi. Provammo paura e vergogna per la bravata che avevamo fatto, ma durò un attimo, eravamo senza pensieri, a quelli pensavano altri, c’erano i nostri genitori, le zie e gli zii, ed era tutto scontato. Il Borgo era un’oasi felice, continuammo ad inventare giochi ed a costruire ‘giocattoli’, bastava un poco di inventiva e la voglia di fare che, del resto, non è mai venuta meno.

Da quel giorno tornammo al super Santos ed ai tuffi dallo scoglio.

Ora dalla stessa strada scendono persone che non conosci, qualcuno parla straniero, li guardi attraversare la statale ed imboccare a vanedra per andare al mare e ti chiedi, ma chi sono? Poi passa un’auto, ma non sai di chi è e non riconosci chi c’è alla guida e quel che è peggio è che non sei curioso di sapere e non ti importa di conoscere i nuovi arrivati. 

Se non senti più questo bisogno vuol dire che vivi un tempo che non ti appartiene, che non è più tuo.

Quando notavamo un volto nuovo cercavamo di capire chi fosse, per quanto tempo rimaneva, di chi era parente. Era solo una questione di tempo, sapevamo che, in un modo o in un altro, avrebbero fatto parte della comunità, sarebbero entrati per sempre nel nostro piccolo ed inutile mondo di borgatari. Di solito erano torremuzzari emigrati o loro parenti che passavano le vacanze nella frazione. Erano milanesi, genovesi, torinesi, catanesi, ma anche messinesi, tedeschi, argentini, vicentini o semplici villeggianti entrati per sempre nel nostro immaginario.

Ancora oggi questo rituale estivo si ripete, ma allora aveva un altro sapore. Attendevamo con gioia il loro arrivo, si era creato un legame sincero destinato a durare, almeno così pensavamo allora e, di certo, così sarà fino a quando resterà nella memoria di chi c’è ancora.

E non c’era bisogno di parole, bastava riconoscersi.

Erano torremuzzari a tempo determinato, ma pur sempre torremuzzari. Eravamo divisi, con caratteri diversi, con idealità contrapposte, ma nello stesso tempo legati alle stesse strade, allo stesso mare, ai ponti della ferrovia, allo stabilimento, eravamo una grande famiglia litigiosa, ma con radici comuni indissolubili ... avevamo una unità di intenti nella vita come nella morte ... eravamo una comunità.

Ora quel che era non esiste più, è un’altra cosa, è un altro tempo, un altro luogo, non tuo, lo vivi, ma non sai il perché.


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