sabato 1 gennaio 2022

Pane, formaggio, pomodori e ‘passuluna’ cotti nella brace …

Era un pasto semplice, ma gustoso, sfizioso. Per un momento non sentivi più la fatica del lavoro, dimenticavi l’assurdità di compiere un atto che rendeva meno di quello che riuscivi a produrre

di Giovanni Pulvino

Foto di Giovanni Pulvino
I passuluni’ così li chiamavamo. Sono olive nere e mature. Le raccoglievamo da terra mischiate tra le altre, una ad una, la prima era del proprietario del terreno, la seconda del frantoio e la terza per chi come noi chino sulla terra umida si spaccava la schiena. Dovevi dividerle dalle erbacce e dai sassolini che eri costretto a spostare con un dito. Usavamo entrambe le mani. Quando queste erano piene di olive le gettavamo dentro i ‘panari’ che di tanto in tanto dovevi spostare e quando si riempivano svuotarli nei sacchi di plastica o di juta. A sera con l’aiuto di un asinello o a spalla li portavamo nel magazzino, dove venivano adagiate sul pavimento a finire la maturazione. Dopo pochi giorni, si riponevano di nuovo nei sacchi per portale al frantoio.

Le giornate in campagna passavano così, lente e leggere, faticando ed a volte giocando a chi riempiva per primo ‘i panari’ e, inevitabilmente, discutevamo su chi ne aveva svuotato di più nei sacchi, ma durava poco, non era un gioco era un lavoro.

Stavamo curvi o inginocchiati a individuare e raccogliere le olive mature cadute per terra. Tutto era naturale, inevitabile, poetico. Ed era così per settimane e mesi, si iniziava in autunno e durava fino all’arrivo dei primi freddi invernali.

Il lavoro che stavamo facendo non era ripagato dall’olio estratto dalle olive, ma alla fine della stagione un pensiero era stato tolto: avevamo la riserva per tutto l’anno.

Pane, formaggio, pomodori e ‘passuluna’ cotti nella brace, questo era il nostro pranzo. Seduti sotto gli alberi di ulivo, su una pietra o sull’erba, con un tenue odore di zagara, con la schiena indolenzita e le mani ancora sporche di terra, stavamo lì in attesa di tirare fuori dalla brace le olive nere mature, si erano un po' bruciate, quasi tutte odoravano di affumicato, ma avevano un sapore antico, impossibile da definire, che ti rimane impresso, che ti porti fino alla fine e non puoi non ricordarlo.

Un morso al pane fatto in casa, uno al pomodoro, un altro al formaggio ed un ‘passuluni’, nient’altro. Toglierli dalla brace in cui erano stati cotti e ripulirli non era complicato, avevano perso l’amaro tipico delle olive ed il loro sapore si combinava perfettamente con gli altri ingredienti. Era un pasto semplice, ma gustoso, sfizioso. Per un momento non sentivi più la fatica del lavoro, dimenticavi l’assurdità di compiere un atto che rendeva meno di quello che riuscivi a produrre.    

Ogni tanto facevamo la stessa cosa con il braciere di casa, unica modalità di riscaldamento che c’era allora, ma il loro sapore era diverso, mancava l’odore dell’erba e della terra umida e soprattutto la fatica fatta nella raccolta delle olive.

A sera restavano la fragranza ed i colori degli ulivi, degli agrumeti, dell’erba ed in particolare degli ‘airiaruci’. Lì chiamavamo così perché il loro stelo aveva un sapore agrodolce; ogni tanto, con l’incoscienza tipica degli adolescenti, li raccoglievamo per masticarli e succhiarli, ma poi li sputavamo.

In quei giorni, tra alberi e sterpaglie di ogni genere, chino sulla terra umida, immerso nei colori autunnali della campagna, lontano dal perenne ondeggiare del mare, non sentivi il trascorrere lento della vita che ti prende ogni volta che non stai facendo nulla di concreto, quando stai a pensare e non sai il perché lo fai, quando subisci le immagini ed i luoghi dove sei stato e che sai che non torneranno più, mai più.     

Come i giorni di festa che ora non hanno più lo stesso ‘senso’, ma che sei costretto a vivere anche se non vorresti, almeno non così.

Pane, formaggio, pomodori e i ‘passuluna’ cotti nella brace, nient'altro che un vuoto a perdere, come tutto, come sempre.

E non so perché sto qui a scriverne, a correggerne, a ….


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