Era un pasto semplice, ma gustoso, sfizioso. Per un momento non sentivi più la fatica del lavoro, dimenticavi l’assurdità di compiere un atto che rendeva meno di quello che riuscivi a produrre
Foto di Giovanni Pulvino |
Le giornate in campagna passavano così, lente e leggere, faticando ed a volte giocando
a chi riempiva per primo ‘i panari’ e, inevitabilmente, discutevamo su chi ne aveva svuotato di più nei sacchi, ma durava poco,
non era un gioco era un lavoro.
Stavamo
curvi o inginocchiati a individuare e raccogliere le olive mature cadute per
terra. Tutto era naturale, inevitabile, poetico. Ed era così per settimane e
mesi, si iniziava in autunno e durava fino all’arrivo dei primi freddi invernali.
Il
lavoro che stavamo facendo non era ripagato dall’olio estratto dalle olive, ma
alla fine della stagione un pensiero era stato tolto: avevamo la riserva per
tutto l’anno.
Pane,
formaggio, pomodori e ‘passuluna’ cotti nella brace, questo era il
nostro pranzo. Seduti sotto gli alberi di ulivo, su una pietra o sull’erba, con
un tenue odore di zagara, con la schiena indolenzita e le mani ancora sporche
di terra, stavamo lì in attesa di tirare fuori dalla brace le olive nere
mature, si erano un po' bruciate, quasi tutte odoravano di affumicato, ma avevano un sapore
antico, impossibile da definire, che ti rimane impresso, che ti porti fino alla
fine e non puoi non ricordarlo.
Un
morso al pane fatto in casa, uno al pomodoro, un altro al formaggio ed un ‘passuluni’,
nient’altro. Toglierli dalla brace in cui erano stati cotti e ripulirli non era
complicato, avevano perso l’amaro tipico delle olive ed il loro sapore si
combinava perfettamente con gli altri ingredienti. Era un pasto semplice, ma
gustoso, sfizioso. Per un momento non sentivi più la fatica del lavoro,
dimenticavi l’assurdità di compiere un atto che rendeva meno di quello che
riuscivi a produrre.
Ogni
tanto facevamo la stessa cosa con il braciere di casa, unica modalità di
riscaldamento che c’era allora, ma il loro sapore era diverso, mancava l’odore dell’erba e della terra umida e soprattutto la fatica fatta nella
raccolta delle olive.
A
sera restavano la fragranza ed i colori degli ulivi, degli agrumeti, dell’erba ed in particolare degli ‘airiaruci’. Lì chiamavamo così perché il loro stelo aveva un sapore agrodolce; ogni
tanto, con l’incoscienza tipica degli adolescenti, li raccoglievamo per
masticarli e succhiarli, ma poi li sputavamo.
In
quei giorni, tra alberi e sterpaglie di ogni genere, chino sulla terra
umida, immerso nei colori autunnali della campagna, lontano dal perenne
ondeggiare del mare, non sentivi il trascorrere lento della vita che ti prende ogni
volta che non stai facendo nulla di concreto, quando stai a pensare e non sai
il perché lo fai, quando subisci le immagini ed i luoghi dove sei stato e che
sai che non torneranno più, mai più.
Come
i giorni di festa che ora non hanno più lo stesso ‘senso’, ma che sei costretto
a vivere anche se non vorresti, almeno non così.
Pane,
formaggio, pomodori e i ‘passuluna’ cotti nella brace, nient'altro che un vuoto a perdere, come tutto, come sempre.
E
non so perché sto qui a scriverne, a correggerne, a ….
Nessun commento:
Posta un commento