Il calcio era il nostro gioco. Quello parlato e radiotrasmesso da ‘Tutto il calcio minuto per minuto’ era fantasia. Era, cioè, quello che avremmo tentato di ripetere nei campetti di periferia con la vana illusione di esserne un giorno protagonisti
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Il super Santos - (foto di Giovanni Pulvino) |
Ci bastava poco per riempiere di allegria i nostri pomeriggi, sempre gli stessi, ma erano spensieratezza e felicità. Si erano
felicità.
Per un breve periodo giocammo in un campo in erba, si fa
per dire. Era fuori dal paese. Era un rettangolo grande, almeno così ci sembrò
a quell’età, aveva qualche buca, ma ci bastò alzare i pali delle porte o
mettere due pietre per dargli un aspetto verosimile a quelli della Serie A. Era
piacevole fare persino il portiere. Facevamo i tuffi e divenne interessante
fare un ruolo che nessuno voleva ricoprire. Di solito in porta ci andavano i ‘più scarsi’
o si giocava senza portiere. Quella piacevole sensazione di giocare su un campo
in erba durò poco, il proprietario del terreno lo fece arare e lo adibì a
pascolo.
I pensieri sono impressi in qualche angolo della nostra memoria.
Quelli che ritornano con continuazione sono scoloriti, ma poi se ne aggiungono
altri, ed altri ancora, ma sono anch’essi in bianco e nero.
I giocatori eravamo solo tre, ma non rinunciammo a fare
una partita. Giocai contro due avversari. Ebbene per me fu agevole vincere,
perché uno dei due rivali era così ‘scarso’ che era semplice rubargli la palla
quando il suo compagno per altruismo gliela passava. Andare a segnare nella
porta vuota era facile. Non ero io che ero bravo, ma era uno dei miei due avversari
ad essere ‘titubante’ con il pallone tra i piedi. Io ne approfittai soltanto.
Un altro pensiero torna sempre … non riesco a fermarlo ….
Chissà quanti vasi ho rotto e quanta pazienza hanno avuto
i vicini di casa. Avevo l’abitudine di giocare da solo. Andavo avanti e
indietro calciando il super Santos sul muro o sui gradini delle case di piazza
Marina che sono attaccate le une con le altre. L’abilità consisteva nel tirare
calci di prima con entrambi i piedi senza far cadere la palla giù dal
marciapiede, ovviamente c’erano gli ingressi delle case e i vasi terracotta
come ostacoli da evitare, dovevo stare attento, ma credo che ci volle molta
pazienza per chi ci abitava. Li ho imparato a giocare, li è nata probabilmente
la passione per il calcio, mantenuta per sempre, anche ora che non ci potrà più essere nessun paragone o critica, non più almeno come avveniva allora.
Nei piccoli paesi non puoi sceglierti i compagni di gioco, quelli sono, non possono essere altri, sono loro che segnano gli anni
dell’adolescenza, quelli della gioia e della spensieratezza, dei ricordi
inconsapevoli.
Ci ritrovavamo quasi sempre nel primo pomeriggio. Il pallone non mancava mai. A volte ci inventavamo i giochi. Uno di questi era a
chi faceva più palleggi. Di solito a vincere erano quelli che consideravamo più
scarsi. Uno di noi fece mille palleggi senza far cadere il pallone per terra.
Ancora oggi facciamo fatica a crederci, ma avvenne veramente. Quel nostro amico
era imbattibile, ma a calcio era una ‘schiappa’.
Quando eravamo in tanti facevamo le partite. Tutti partecipavano, torremuzzari e ‘nzusari di ogni età, anche chi non aveva nessuna voglia di giocare, ma per non essere escluso dal gruppo si cimentava lo stesso o finiva in porta. Le squadre erano sempre diverse, ma cercavamo di farle bilanciate. Due di noi sceglievano i compagni, uno per volta, l’equilibrio era facile da realizzare.
Spesso giocavamo nello spiazzale della scuola elementare. Pochi metri, con restringimenti dei muri ed una specie di discesa. Capitava che erano di più i giocatori che i metri quadrati del ‘campo’, se così possiamo chiamarlo. Erano partitelle combattute come se fossimo stati dei veri professionisti. Le regole erano quelle del buon senso, ma spesso non contavano. Non erano partite a tempo, ma a chi faceva più gol o a chi arrivava per primo a dieci. Spesso finivamo di giocare con il buio, con la tenue luce che veniva dalla strada adiacente. Una volta eravamo in tanti in pochi metri quadrati. Le mischie erano inevitabili. I difensori tentavano di impedire che la palla toccasse il muro che faceva da porta e gli attaccanti con spinte e calci tentavano invece di fare gol. Le loro grida stavano ad indicare che ci erano riusciti, ma i difendenti di solito non erano d’accordo, reclamavano una spinta di troppo o che la palla fosse uscita fuori dalla porta. Tutto era aleatorio anche i pali, quindi spesso non c’era certezza sull’esito dei tiri e dei gol.
Un’altra volta giocammo sotto la pioggia battente. Il
pallone non ribalzava nelle pozzanghere anche se il campetto era in mattonelle.
Ci sembrò di essere dei veri calciatori che, si sa, giocano con qualunque
condizione atmosferica. Il cortile Marina era stato pavimentato da poco. Non
c’erano macchine. Sembrava un campo di calcetto. Sembrava un palazzetto dello
sport. Lì sfidammo i ragazzi della colonia di Reitano che ogni estate venivano
in gita nella piccola borgata. Li battemmo tra gli applausi di chi ci stava
guardando, sembrava di essere in uno stadio vero o almeno così mi piace
ricordarlo. Per noi giocare a calcio era naturale. Vincevamo quasi sempre.
L’intesa era istintiva. Probabilmente perché conoscevamo ogni metro quadrato di
quelle piazze o forse perché eravamo veramente bravi.
E, comunque, non importava il risultato finale, ormai avevamo dato sfogo
alle nostre fantasie. Il calcio era ed è il nostro gioco, quello
dell’adolescenza, quello che segna i pensieri e la vita di chi nell’infanzia ha potuto disporre solo di un super Santos bucato.
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