I ricordi vengono e poi, dopo un po', se ne vanno senza volere, chissà da cosa sono guidati. Una cosa è certa: una spiegazione non c’è e non ci potrà mai essere. Ora tornano indietro nel tempo, a quell’estate di tanti anni fa
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Lo scoglio -Torremuzza - Me (foto di Antonino Ciccia) |
Una pausa ed ecco che i pensieri tornano a muoversi, divagano, si accavallano, si allontanano. Occorre concentrarsi per evitare di subirli passivamente.
Ora
è tempo di entrare in acqua. Il fondo è pietroso, raramente tra la riva e lo
scoglio si è adagiata la sabbia. Quando questo succedeva si poteva arrivare
su questa piattaforma naturale camminando nell’acqua, chiunque poteva salire in sicurezza anche
chi non sapeva nuotare. Spensierati come eravamo raggiungere lo scoglio non era complicato, ma un po' di trepidazione c’era sempre. A volte
non si toccava ed era necessario nuotare per arrivare sulla parte più vicina
alla riva. Per salire c’era il timore di
graffiarsi un piede sullo scalino creato dall’erosine dell’acqua o da qualche
pescatore di buona volontà, comunque sia esso facilitava l’ascesa e non c’era
nessuna paura ad utilizzarlo anche se era come fare un passo nel buio, speravi
solo di non pungerti e di non trovarci un granchio o un altro crostaceo.
Un
attimo di esitazione ed eri già sulla piattaforma ‘lipposa’, un po'
bagnata un po' sconnessa, ma, facendo attenzione, non c’era pericolo di
scivolare. Qualcuno andava a sedersi in una specie di conca che c'è al centro
dello scoglio, ma anche qui non era esclusa la presenza di qualche granchietto.
Qualcuno sosteneva che fosse stato il principe di Torremuzza ad aver fatto scavare
quella specie di poltrona. E che dalla torre ci fosse un passaggio segreto per
scendere fino al mare, ma non ho mai capito dove fosse. Verità o fantasie di
ragazzini? Che importa. Anche quella storia era spensieratezza e felicità.
Una
volta su' non potevamo evitare di guardare le fessure d’acqua che c’erano tra
lo scoglio su cui eravamo saliti e quelli che c’erano tutt’intorno. Una era particolarmente
pericolosa: c’era il ‘risucchio’. Chi ci finiva dentro rischiava di andare
sotto e non riuscire più a riemergere. Mai nessuno di noi si è azzardato a
farlo. Una volta un ragazzo vi morì annegato, ma non era del paese. Per esorcizzare
il pericolo che quel dramma aveva ‘rivelato’ alla nostra coscienza di
bambini ci dicevamo che era di Mistretta, un paesino di montagna e che di certo
quel giovane non conosceva lo scoglio e probabilmente non sapeva nuotare. Il
ricordo dell’ambulanza e della tragica notizia non è stato cancellato dalla
memoria, ma è scolorito in pochi ore, come se dentro di noi ci fosse stato un
interruttore pronto ad azionarsi automaticamente per spegnere i pensieri
tristi. Quando si è giovani è così. Si inibiscono senza volere tutti i fatti
che impediscono di vivere con leggerezza ed allegria. A quell’età questi frammenti
di memoria scorrono come l’acqua sulle pietre, scivolano via e non gli dai quell’importanza
che invece dovrebbero avere.
I pensieri corrono, sono infiniti e ritornano, senza volerlo, allo stesso punto.
No,
non avevamo nessuna paura a salire sullo scoglio. Era un gioco, un divertimento
come un altro. Andavamo per tuffarci. Per noi torremuzzari non era necessario
andare in piscina. Del resto, chi ci era mai stato? Non ne esistevano nei
paraggi. Erano sfizi da cittadini e da nordici. Noi avevamo il mare e questa
piattaforma naturale, non ci serviva altro. Spensieratezza e vitalità. Si, ora
ne sono certo era felicità. Per stare bene non avevamo bisogno di nient’altro.
Il sole, l’estate, la giovinezza, i compagni, il mare, e, quel giorno,
l’ebrezza dei tuffi. Certo c’era chi dava delle ‘panzate’ tremende e chi
entrava in acqua con i piedi per paura di sbattere. Il timore era quello di arrivare
sul fondo con le braccia o con la testa e farsi male, infatti l’acqua non era
profonda e non era esclusa qualche pietra o qualche spuntone di scoglio su cui
si poteva sbattere. Dall’altro lato della piattaforma l’acqua era sempre limpida e profonda,
si vedeva il fondale e ci si poteva tuffare senza timore di toccare. Raramente
lo facevamo, proprio perché non si toccava. Anche se sei un provetto nuotatore
è sempre pericoloso andare dove non si possono poggiare i piedi in caso di
necessità. In più, per risalire era necessario fare il giro a nuoto, mentre dal
lato più basso erano solo pochi metri.
La
sfida era sempre a chi faceva meglio l’entrata a delfino, anche se non c’era
mai un vincitore. Il divertimento era la condivisione, non chi era più bravo. Tuffarsi,
in successione, uno dietro l’altro era una prassi inevitabile. Naturalmente era
necessario stare attenti per evitare di andare addosso a chi era saltato in
acqua prima di te.
Dopo
l’ultima ‘panzata’ si tornava a riva.
Un ultimo sguardo alla Torre, anche per la curiosità di vedere se c’era qualcuno.
Poi
il ritorno, un altro momento di gioia se ne era andato, e così sarebbe stato per tutta
l’estate, e per quelle successive, ora, a distanza di tanti anni, non restano
che questi brevi ed inutili ricordi, nient’altro.
Bellissimo articolo complimenti
RispondiEliminaGrazie, sono solo ricordi, i nostri, quelli dei Torremuzzari. Non so perchè, ma sento il bisogno di condividerli. Forse lo faccio nel vano tentativo di non lasciarli nell'oblio, ma so che è solo questione di tempo, poi, un giorno, svaniranno nel nulla.
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