La
separazione nel Pd non solo era inevitabile, ma è stata anche una scelta politica
necessaria per fare chiarezza tra le diverse anime del partito di maggioranza
relativa
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
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Matteo Renzi e Pierluigi Bersani (foto da quotidiano.net) |
La
scissione nel Partito democratico
non è, come sostengono in tanti, una questione di ambizioni di leadership,
peraltro tutte legittime, ma ha
motivazioni politiche. Il Pd è nato dalla fusione di due
ideologie, quella post comunista e quella ‘cattocomunista’, cioè la sinistra della
Democrazia cristiana. L’obiettivo era di dare vita ad uno schieramento
riformista e di governo. La
‘rottamazione’ attuata da Matteo Renzi
ha eliminato una gamba di questo schema, quella di Sinistra. La sua scalata al
Pd è stata favorita dalla prospettiva di rinnovare la linea politica e,
soprattutto, la classe dirigente. Nei fatti però ad essere esclusi sono stati, oltre
agli esponenti della Sinistra radicale (Sel), anche quelli interni al partito e, di
conseguenza, la loro proposta politica.
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Foto da agrigento.gds.it |
Tutto
è iniziato con gli attacchi a Massimo D’Alema che, è bene ricordarlo, nel 2000 tre giorni dopo aver perso per
pochi voti le elezioni regionali ha fatto un passo indietro lasciando la
presidenza del Consiglio a Giuliano Amato e la leadership del partito a Francesco
Rutelli. Quell’atto di ‘generosità’ non impedì, tuttavia, la sconfitta dei
progressisti alle elezioni politiche del 2001.
Rottamato
l’ex segretario dei Democratici di sinistra, Renzi ha proseguito con Romano Prodi ed Enrico Letta. Chi non ricorda la vicenda delle
elezioni del presidente della Repubblica ed il passaggio di consegne avvenuto a
Palazzo Chigi nonostante l’hashtag: #enricostaisereno? Poi è toccato agli
esponenti della minoranza del partito. ‘Fassina chi?’ disse in conferenza stampa
il segretario dimissionario per delegittimare chi osava criticarlo. Lo stesso è
avvenuto con Giuseppe Civati e con quanti in questi anni hanno tenuto posizioni
diverse dalla sue.
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Enrico Rossi e Roberto Speranza (foto da toscanamedianews.it) |
Da
quando Renzi è segretario del Pd,
oltre a D’Alema, sono usciti dal partito altri leader storici come Pierluigi Bersani,
Vasco Errani, Enrico Rossi, ma anche giovani democratici come Alfredo D’Attorre,
Stefano Fassina, Giuseppe Civati e Roberto Speranza o sono in un angolo come
Romano Prodi ed Enrico Letta, mentre sono entrati uomini politici estranei alla
cultura progressista come Roberto Giachetti, (radicale), Giorgio Gori (ex
direttore di Canale 5) o i nuovi imprenditori ‘rampanti’, finanziatori della
‘Leopolda’ come Marco Carrai e Carlo Calenda. Domani magari entreranno anche
Verdini, Alfano e Brunetta. Ormai il Pd è
diventato un partito di Centro, una specie di Democrazia cristiana 2.0 con un
leader unico e inamovibile nonostante le cocenti sconfitte alle
amministrative ed al referendum costituzionale.
La
scissione nel Partito democratico non solo era inevitabile, ma è stata anche un
atto di buon senso.
Le ragioni sono: incompatibilità di caratteri e prospettive politiche
contrastanti. Ora le alternative di
governo possibili che seguiranno le
sempre più probabili elezioni politiche anticipate sono tre: un’alleanza tra i grillini e la Lega di Salvini, una
vittoria del Centrodestra, sempre che riesca a ritrovare l’unità, o un nuovo Centro
guidato da Matteo Renzi. Di certo ad essere esclusa sarà ancora una volta la
Sinistra.
Da
tre anni Renzi governa perché Pierluigi Bersani, dopo le ultime elezioni
politiche, ha fatto un passo indietro.
Questo è un particolare che spesso è sottovalutato, soprattutto dallo stesso ex
sindaco di Firenze. Ma questa è la legge
del contrappasso che punisce chi non rinuncia alle proprie idee e alla
propria storia politica ed ideologica. Negli
anni Settanta chi era progressista ‘sperava
di non morire democristiano’, ma con Matteo Renzi quel timore rischia seriamente
di avverarsi.
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