STORIA

venerdì 9 febbraio 2024

Le Foibe e il revisionismo neofascista

Il prof. Alessandro Barbero ci spiega cosa sono state le Foibe e l'uso distorto che ne fa la politica italiana


Alessandro Barbero, 'Storia e memoria' (da yuotube.it)

'Cosa sono le Foibe? Alla fine della guerra sui confini orientali d’Italia l’esercito partigiano jugoslavo comunista avanzando in un territorio che da molti anni era occupato dagli italiani .... fa fuggire davanti a sé la popolazione ... terrorizzata e uccide effettivamente migliaia di italiani civili gettando poi i cadaveri in queste forre del terreno che ci sono da quelle parti, appunto le Foibe. Un eccidio di molte migliaia di civili. 

I partigiani jugoslavi comunisti stavano dalla parte dei vincitori, combattevano dalla parte giusta, quindi per molto tempo di questa cosa no che non se ne parli, ma se ne parla eccome, ma a livello ufficiale. Nessuno si sognerebbe .... che bisognerebbe fare un giorno del Ricordo, perché è uno dei tanti casi in cui i vincitori che stavano dalla parte giusta hanno fatto delle porcate, cosa che succede normalmente nella realtà. 

Bambini internati nel campo di concentramento di Arbe
(Croazia) creato dalla Seconda Armata Italiana
nel luglio del 1942 (it.wikipedia.org)

Non ci sono i buoni e i cattivi come nei film americani. 
La realtà è più complicata di così ed i vincitori che stanno dalla parte giusta fanno un sacco di porcate. Buttano la bomba atomica su Hiroshima e come se non bastasse ne hanno ancora un’altra e buttano anche quella e distruggono un’altra città. ... 

Poi cosa succede che quella parte dell’Italia che per tanto tempo ha vissuto male il 25 aprile, la celebrazione della Resistenza, perché erano famiglie come la mia, dove si era schierati dall’altra parte, sempre più sentono ... che, politicamente, il pendolo si è spostato e chi la pensa così ha sempre più importanza. E ad un certo punto un governo che, non lo può dire, ma è fatto da gente che si sentiva più dalla parte dei fascisti che non dei partigiani, decide che bisogna equilibrare il 25 aprile. C’è questa grande festa che piace a quelli della sinistra e allora facciamo anche un altro giorno per ricordare invece una cosa dall’altra parte e nasce il giorno delle Foibe. 

Allora non ci sono state le Foibe? Certo che ci sono state. E' stata un’atrocità? Certo che è stata un’atrocità. Non bisogna parlarne? Certo che bisogna parlarne. …… Le Foibe sono uno di quei casi che uno deve sapere. Gli storici le hanno sempre studiate dopodiché si tratta di dire: dobbiamo mettere al centro del discorso pubblico quell’episodio lì perché è emblematico? E' da quello che si capisce cos’era davvero quell’epoca e cioè che i partigiani comunisti erano molto cattivi e che gli italiani sono stati ingiustamente perseguitati e sterminati? Oppure ... dobbiamo discutere di quella cosa lì per venderne tutti gli aspetti? 

Se discuti di quella cosa li per vederne tutti gli aspetti scopri, al di là del fatto che è successo quello sterminio, un mondo dove la gente crepava tutti i giorni, continuamente dappertutto, dove le città venivano bombardate, la gente bruciata viva dai bombardamenti, ... moriva nei lager, morivano soldati in combattimento a migliaia tutti i giorni e questo ti rimette un po', come dire, le cose in prospettiva.

Poi scopri che ... i comunisti jugoslavi era così incazzati con gli italiani, perché gli italiani quei territori lì avevano occupati nel 1918 dopo aver vinto la Prima guerra mondiale ed avevano cominciato a bastonare gli abitanti slavi, a proibirgli di parlare la loro lingua, a decidere che quei paesi lì dovevano diventare italiani e dimenticarsi di essere stati slavi e cosi via. Dopo vent'anni di divieti, di bastonate e di abusi la popolazione slava locale odiava gli italiani e a quel punto come succede li odiava tutti. Non è che stava a dire quello li è buono, quello li è cattivo, quello li è fascista, quell’altro no. Odiava gli italiani e questo non vuol dire che chi prendeva le famiglie gli sparava alla nuca e li buttava nei crepacci non debba rispondere alla sua coscienza di quello che ha fatto, però vuol dire che noi sappiamo un po' di più di cosa è successo e del perché è successo. Quella è la Storia. Creare invece un giorno della memoria del Ricordo per controbilanciare l’altro (il 25 aprile) quello è l’uso della Memoria che fa la politica'. 



martedì 20 giugno 2023

Italiani brava gente?

Spesso si dice che gli italiani sono ‘brava gente’, ma sarà vero? Generalizzare è sempre sbagliato, ma siamo tutti ‘brava gente’? La risposta possiamo trovarla nella storia, ecco due esempi

di Giovanni Pulvino

Un Ufficiale italiano osserva un bambino ucciso
nelle vicinanze di Gorazde nel 1943 
Foto da it.wikipedia.org
Italiani brava gente? Il quesito fa venire in mente il Ventennio e di certo non è casuale. Non possiamo non pensare alla violenza sistematica praticata all’inizio degli anni Venti del secolo scorso dalle squadre della morte organizzate dai fascisti. Gruppi addestrati ai pestaggi e alle uccisioni degli oppositori politici, soprattutto comunisti e socialisti. Intolleranza che è diventata repressione con le leggi ‘fascistissime’ del 1925 e quelle razziali del 1938.

Italiani brava gente? Per gli etiopi di certo non lo siamo stati.

L’occupazione del paese africano è stata a dir poco cruenta. L’attentato fallito del 19 febbraio del 1937 al viceré d’Etiopia, Rodolfo Graziani, capo delle forze militari occupanti, ha provocato una reazione immediata e violenta. Ecco alcune testimonianze oculari.

I civili italiani presenti ad Addis Abeba uscirono nelle strade mossi da autentico squadrismo fascista armati di manganelli e sbarre di metallo, picchiando e uccidendo i civili etiopici che si trovavano in strada’. Ed ancora. ‘Nel tardo pomeriggio, squadre composte da camicie nere, autisti, ascari libici e civili, si riversarono nei quartieri più poveri, e diedero inizio ad «una forsennata "caccia al moro». In genere davano fuoco ai tucul (piccoli edifici di paglia e fango) con la benzina e finivano a colpi di bombe a mano quelli che tentavano di sfuggire ai roghi’.

Non ci fu pietà per nessuno. ‘Gli abitanti di Addis Abeba che malauguratamente portavano addosso anche solo un coltello, venivano uccisi sul posto.  La mattina seguente, attraverso i quartieri lungo i due torrenti, erano rimasti in piedi ben poche abitazioni, e fra le macerie c'erano cumuli di cadaveri bruciacchiati’.

Non fu un episodio isolato, era un modus operandi dei soldati italiani o, meglio, dei loro comandanti. I fascisti più convinti, invece, non aspettavano gli ordini, agivano a prescindere.

Il comportamento non è stato diverso durante l’occupazione della Grecia. Militarmente eravamo deboli, ma fummo feroci con chi si opponeva legittimamente all'occupazione.

Ecco cosa scrivevano ai loro familiari i soldati italiani presenti nei Balcani.

Ho avuto modo … di assistere alla fucilazione di 50 ribelli…è una cosa terribile, ma non puoi fare a meno di godere … è sempre ancora troppo poco far loro saltar le cervella e squarciare la loro pancia e le loro membra a raffiche di mitraglia’.

Ed ancora. ‘Abbiamo distrutto tutto da cima a fondo senza risparmiare gli innocenti. Uccidiamo intere famiglie ogni sera, picchiandoli a morte o sparando contro di loro. Se cercano soltanto di muoversi tiriamo senza pietà e chi muore muore’.

No, gli italiani non siamo brava gente, non tutti almeno. Ci sono coloro che godono nel causare dolore e sofferenza. E noi, il ceppo o etnia italica come direbbe il ministro Francesco Lollobrigida, non siamo secondi a nessuno.

Fonte it.wikipdia.org

sabato 22 aprile 2023

Irma non parlò, resistette alle torture fino alla fine

La più ignominiosa disfatta della loro sanguinante professione si chiamava Irma Bandiera’. Questo è quanto ha detto Renata Viganò a proposito degli aguzzini della giovane partigiana ‘Mimma’, torturata e uccisisi dai fascisti il 14 agosto del 1944

di Giovanni Pulvino

Partigiani - Foto da @annapaolasanna

Figlia di una famiglia benestante bolognese, Irma Bandiera nasce l’otto aprile del 1915. Dopo l’armistizio, avvenuto l’otto settembre del 1943, inizia ad aiutare i soldati sbandati e ad interessarsi di politica aderendo al partito Comunista. Entra a far parte della VII brigata GAP Gianni Garibaldi di Bologna con il nome di battaglia ‘Mimma’.

Il 7 agosto del 1944 dopo aver trasportato delle armi alla base della sua formazione a Castel Maggiore viene arrestata a casa dello zio insieme ad altri partigiani. Separata dai compagni è richiusa nella scuola di San Giorgio e successivamente nel carcere di Bologna dove i suoi aguzzini sperano di ottenere da Lei informazioni sulla Resistenza.

Irma Bandiera - (foto da it.wikipedia.org)
‘Fu torturata per sei giorni e per sei notti dai fascisti della Compagnia Autonoma Speciale del Capitano Renato Tartarotti’. Le sevizie furono così atroci che i suoi carnefici arrivarono ad accecarla. Ma Irma non parlò. Resistette alle torture fino alla fine.

Il 14 agosto i repubblichini la fucilarono con alcuni di colpi di pistola nei pressi della casa dei genitori a Meloncello di Bologna. Il corpo fu lasciato sul selciato di una fabbrica per un intero giorno come monito per gli altri partigiani.

Nell’estate del 1944 una formazione di SAP (Squadra di azione patriottica) di Bologna prese il nome di Prima Brigata Garibaldi ‘Irma Battaglia’.

Dopo la Liberazione, avvenuta il 25 aprile del 1945, fu insignita insieme ad altre 18 partigiane della medaglia al valor militare con la seguente motivazione: ‘Prima fra le donne bolognesi a impugnare le armi per la lotta nel nome della libertà, si batté sempre con leonino coraggio. Catturata in combattimento dalle SS. tedesche, sottoposta a feroci torture, non disse una parola che potesse compromettere i compagni. Dopo essere stata accecata fu barbaramente trucidata e il corpo lasciato sulla pubblica via. Eroina purissima degna delle virtù delle italiche donne, fu faro luminoso di tutti i patrioti bolognesi nella guerra di Liberazione.’

Fonte wikipedia.org

mercoledì 20 aprile 2022

Intanto, il capitano Priebke, con precisione tedesca, prendeva nota ....

'Tutti coloro che dimenticano il loro passato, sono condannati a riviverlo'PrimoLevi

di Giovanni Pulvino

Foto da anpi.it

La colonna di autoveicoli con i condannati a morte si mise in movimento verso le 14:00, destinazione Fosse Ardeatine. Era il 24 marzo del 1944. Alle 15:30 arrivarono i prigionieri del carcere di Regina Coeli. Subito dopo iniziarono le esecuzioni. A gruppi di cinque dopo essere stati condotti nelle cave  venivano fatti inginocchiare e, all’ordine del capitano Schutz, gli esecutori gli sparavano un colpo di pistola sulla nuca.

Intanto, il capitano Erick Priebke, con precisione tedesca, prendeva nota.

Coloro che tentavano di resistere venivano spinti a forza e assassinati. Per accelerare i tempi i soldati facevano salire i condannati sui cadaveri di chi li aveva preceduti. Diversi, con il corpo devastato, non morirono subito. In alcuni casi fu necessario sparare più colpi sulla stessa vittima.

I ‘Todeskandidaten’ erano 330. Dieci italiani per ogni soldato tedesco morto nell’attentato di via Rasella. A stilare la lista furono il colonello Herbert Kappler ed il suo aiutante il capitano Erich Priebke.

Inizialmente i nomi erano 280, i soldati tedeschi morti fino a quel momento erano 28. I prigionieri presenti in via Tasso erano 290, donne comprese. Queste ultime vennero escluse. Si optò allora per gli ebrei imprigionati in attesa di essere deportati.

All’alba del 24 marzo giunse la notizia che i morti erano saliti a 32. Il colonnello Kappler decise, a quel punto, di inserire tutti i 75 ebrei destinati alla deportazione, otto antifascisti di religione ebraica e 10 tra le persone rastrellate sommariamente in via Rasella dopo l’attentato.

Ma ancora non bastavano. Il capitano Priebke ordinò di aggiungere coloro che erano in attesa di giudizio, tra questi c’erano il colonnello Giuseppe Cordero Lanza di Montezemolo e 37 militari italiani.

Infine, fu inserito il sacerdote Paolo Petrucci che era stato accusato di ‘attività comuniste’. Alle ore 13:00 si seppe di un altro soldato deceduto, Priebke non perse tempo: aggiunse alla lista altri dieci nomi tra gli ebrei che erano stati fermati nelle ultime ore.

Solo durante le esecuzioni i carnefici si resero conto che c’erano 5 ‘Todeskandidaten’ in più. Il colonnello Kappler senza esitazione decise di procedere con la loro 'eliminazione' perché ‘avevano visto tutto’.

Fonte wikipedia.org

martedì 6 luglio 2021

Il 'Treno del sole' non si è mai fermato

Il Sud arriva sempre dopo, sempre che arrivi, ormai siamo alla desertificazione demografica oltre che ambientale

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Il Treno del sole (foto da raiplayradio,it)

Negli anni Cinquanta e Sessanta non c’era giorno che ‘il Treno del sole’ non fosse stipato di contadini o semplicemente di disoccupati che dal Mezzogiorno ‘fuggivano’ dalla miseria e dalla povertà. Partivano con le valige di cartone e con la morte nel cuore, ma con la speranza di una vita migliore. Spesso si trasferiva tutta la famiglia, che portava con sé quel poco che possedeva.

La destinazione principale era il cosiddetto triangolo industriale: Milano, Torino, Genova. Il boom economico degli anni Sessanta non ci sarebbe stato senza quelle braccia e quei sacrifici. Accolti con diffidenza, hanno dovuto adattarsi ad una realtà completamente nuova ed a volte ostile. I 'terroni' spesso erano costretti a vivere in pochi metri quadrati e con i servizi igienici in comune. Lavoravano fino a 14 ore al giorno. Il salario era appena sufficiente per sopravvivere.

Eppure, quegli uomini e quelle donne hanno cambiato il nostro paese.

Sono stati i protagonisti del Sessantotto e dell’Autunno caldo del 1969. Quelle lotte hanno costretto il Parlamento ad approvare una serie di importanti riforme sociali ed economiche. La riduzione dell’orario di lavoro, la riforma della scuola e quella fiscale, lo Statuto dei lavoratori, il divorzio, la scala mobile, ect..

La modernizzazione al Sud invece non è mai arrivata. Infrastrutture fatiscenti, clientelismo, corruzione diffusa e criminalità organizzata radicata sul territorio sono le cause principali. Chi doveva operare per lo sviluppo del Mezzogiorno non lo ha fatto o lo ha fatto male. 

Sono trascorsi oltre sessant’anni, ma la situazione è sempre la stessa. Il fenomeno migratorio da Sud verso Nord (o all’estero) continua. Le differenze economiche anziché ridursi sono aumentate. Il pericolo di una desertificazione demografica oltre che ambientale è ormai evidente. Persino i migranti che vengono dall’Africa e che attraversano il Mediterraneo a rischio della vita preferiscono proseguire il tragitto verso Nord.

La condizione di sottosviluppo di tante aree del Mezzogiorno non è solo una questione di lontananza dai mercati. E non è dovuta neanche alla scarsa capacità imprenditoriale dei meridionali. No, almeno non è solo questo. È il risultato di una precisa volontà politica.

Facciamo un esempio. L’Alta velocità ferroviaria. Tra Roma e Milano è in funzione da anni. In alcune regioni meridionali ancora siamo fermi alle progettazioni, ai finanziamenti che non ci sono, ai cantieri bloccati, ect.

Il Sud arriva sempre dopo. Sempre che arrivi. Il laborioso Nord-Est leghista di tanto in tanto vorrebbe liberarsi di questa palla la piede che è il Meridione. Poi, comprende che un Sud arretrato è funzionale alla loro ricchezza ed al loro benessere oltre ad essere un importante bacino elettorale.

La storia si ripete ancora una volta. Tutto cambia per non cambiare nulla o quasi. Il 'Treno del sole' non si è mai fermato, oggi si viaggia in aereo e con il trolley ma il motivo è sempre lo stesso: la ricerca di un lavoro e di una vita dignitosi. E dire che qualcuno ritiene che i meridionali siano solo dei fannulloni.

lunedì 28 settembre 2020

‘Mammà, nun mi aspettà, tornerò quann Napl sarà libera’

Gennarino aveva appena 12 anni quando una granata ‘lo sfracellò sul posto di combattimento insieme al mitragliere che gli era al fianco’, era il 29 settembre del 1943

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Napoli, giovani combattenti, 28 settembre 1943
(foto da facebook.com)
Il 28 settembre del 1943 Gennaro Capuozzo uscì di casa come faceva sempre per andare al lavoro. Sì, perché a quei tempi i bambini andavano al lavoro. Quando fu per strada sentì ‘gli spari di una pistola, si girò e vide i corpi di una giovane donna, un uomo ed un bambino, più in là una camionetta con alcuni soldati tedeschi che si allontanava’. Gennarino non esitò. Tornò a casa, 'prese una pagnotta', diede un bacio alla madre e gli disse: Mammà, nun mi aspettà, tornerò quann Napl sarà libera’.
Aveva l’entusiasmo e l’ingenuità che hanno i bambini. Si sentiva invincibile e con lui tanti altri scugnizzi. Tutti insieme andarono a fare la guerra come se fosse un gioco, come se fossero imbattibili. La notizia si sparse subito in città: un gruppo di ragazzini stava combattendo l’occupante nazista.
Dopo tre giorni di duri scontri ‘giunse la voce che erano state fucilate dieci persone, tra cui tre donne e tre bambini. Il pensiero degli insorti fu quello di reagire, di vendicare quei martiri. Ovviamente, tra loro c’erano anche Gennarino ed il suo gruppo. Armati con le mitragliatrici raccolte per strade, i giovani combattenti, bloccarono un automezzo tedesco. Fu allora che Gennarino lanciò una bomba a mano ed intimò ai soldati la resa. Il comandante, che poco prima aveva ordinato la strage, l’autista ed il mitragliere furono costretti a scendere dal camion con le mani alzate e fatti prigionieri. 
Non era un gioco, non era una guerra tra guardie e ladri o agli indiani ed i cow boy come alcuni decenni più tardi tanti ragazzini avrebbero fatto per imitare i pistoleri del Far West. No, era la guerra e dietro l’angolo c’era la morte o la vita. Ma Gennarino ormai era un eroe e non ci pensava proprio, si limitava a scansare le pallottole e ad evitare le granate.
Non c’era tempo da perdere, bisognava cacciare i tedeschi dalla città per porre fine a tanta distruzione e morte. Si armò con un mitragliere, 'si riempì le tasche di bombe a mano ed impavido corse verso un carrarmato tedesco'. Ma proprio mentre stava per lanciare una bomba, una granata lo centrò in pieno. Il ragazzino combattente ora giaceva a terra con il volto sfigurato e con la bomba ancora stretta in mano. Era il 29 settembre, il giorno dopo le truppe tedesche lasciarono la città.
No, non era come a guardie e ladri, dove alla fine ci si rialza e si tornare a scherzare con i compagni. No, nel 1943 a Napoli c’era la guerra, si uccideva e si moriva per ridare dignità alla città ed al popolo italiano e tu, Gennarino, nella tua innocenza e spavalderia, rimarrai per sempre un simbolo ed un martire di quella Lotta e di quella Liberazione.






domenica 28 giugno 2020

I ‘Carusi’, schiavi senza nome

Sin dall’Ottocento in Sicilia le famiglie di contadini e non solo, vivendo in condizioni di povertà assoluta, spesso erano costrette a ‘vendere’ i loro figli

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

'Carusi' (bambini) davanti all'entrata di una zolfatara, Sicilia 1899
(foto da it.wikipedia.org)
Le famiglie contadine siciliane e non solo hanno vissuto per secoli in condizioni di povertà assoluta. Erano così indigenti che a volte erano costrette ad ‘affidare’ i loro figli al ‘capo picconiere’. Gli adolescenti tra i sei ed i diciotto anni venivano cioè ‘venduti’ ai padroni delle miniere di zolfo. ‘Soccorso al morto’ così si chiamava il 'patto' con il quale le famiglie ricevevano in cambio poche lire.
Sfruttati e maltrattati, i 'Carusi' lavoravano fino a 16 ore al giorno. Erano costretti a strisciare nei cunicoli delle miniere ed a risalire in superficie con carichi di zolfo che pesavano dai 25 agli 80 chili. L’estrazione avveniva ‘con il solo aiuto di pale, picconi e ceste’. Tutto per pochi centesimi al giorno, di certo non sufficienti per riscattare l'anticipo ottenuto dalla famiglia. Inevitabili gli incidenti mortali. Nel 1881 a Caltanissetta sessantacinque minatori rimasero uccisi per l’esplosione di una lampada. Diciannove 'Carusi' morirono, di nove di loro non si sapeva neanche come si chiamavano. Erano ‘schiavi senza nome’.
In quegli anni c’era una grande richiesta di zolfo, elemento necessario per la produzione della polvere da sparo. Questo incentivò l’apertura di diverse miniere in tutta l’isola. Il profitto di pochi e le esigenze politiche del tempo si fondarono sullo sfruttamento di ragazzi e di bambini senza speranze e senza futuro.
Ciàula, scrive Luigi Pirandello nella sua celebre novella, stava ‘curvo …. veniva su, su, su, dal ventre delle montagna, senza piacere, anzi pauroso della prossima liberazione. E non vedeva ancora la buca, che lassù, lassù si apriva come un occhio chiaro, d’una deliziosa chiarità d’argento. Se ne accorse solo quando fu agli ultimi scalini. Dapprima, quantunque gli paresse strano, pensò che fossero gli estremi barlumi del giorno. Ma la chiaria (luce) cresceva sempre più, come se il sole, che egli aveva pur visto tramontare, fosse rispuntato. Possibile? Restò - appena sbucato all’aperto – sbalordito. Il carico (di zolfo) gli cadde dalle spalle. Sollevò un poco le braccia; aprì le mani nere in quella chiarità d’argento. Grande, placida, come in un fresco luminoso oceano di silenzio, gli stava di faccia la Luna. Si, egli sapeva, sapeva che cos’era; ma come tante cose si sanno, a cui non si è dato mai importanza. E che poteva importare a Ciàula, che in cielo ci fosse la Luna? Ora, ora soltanto, così sbucato, di notte, dal ventre della terra, egli la scopriva. Estatico, cadde a sedere sul suo carico, davanti alla buca. Eccola, eccola là, eccola là, la Luna …. C’era la Luna!si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva pel cielo, la Luna, col suo ampio velo di luce, ignara dei monti, dei piani, delle valli che rischiarava, ignara di lui, che pure per lei non aveva più paura, né si sentiva stanco, nella notte ora piena del suo stupore’.

Fonte balarm.it e 'Ciàula scopre la Luna' di Luigi Pirandello

giovedì 23 aprile 2020

Bruno Neri, il calciatore partigiano


In una foto in bianco e nero del 1931 spicca un atleta esile, è l’unico, tra tanti ‘quaquaraquà’, a non tendere il braccio in segno di saluto verso i gerarchi fascisti, è un gesto coraggioso, un esempio di libertà e di dignità che rimarrà nell’immaginario collettivo

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

1931, stadio Artemio Franchi di Firenze
(foto da patriaindipendente.it)
Bruno Neri cadde, ucciso dai nazisti, il 10 luglio del 1944 a Marradi, sull’Appennino tosco-emiliano. Vicecomandante del battaglione Ravenna, 'fu sorpreso dai tedeschi mentre stava perlustrando il percorso che il suo gruppo avrebbe dovuto fare per recuperare un aviolancio sul Monte Lavane’.
Con il nome di battaglia di Berni, l’ex calciatore di Torino e Fiorentina, mostrò la sua riprovazione verso il fascismo fin dai suoi esordi calcistici. Famosa è rimasta la foto in cui è l’unico, tra i calciatori in posa, a non tendere il braccio per rendere omaggio a gerarchi fascisti. Voluto dal Duce, quel giorno del 1931 si inaugurava a Firenze il nuovo stadio Giovanni Berta (l’attuale Artemio Franchi). Sulle gradinate d’onore erano presenti comandanti e capi fascisti, eppure Bruno Neri rimase con le mani sui fianchi. Non pensò al tornaconto personale, bensì alla sua dignità di uomo e di sportivo. Un gesto di protesta coraggioso, di rifiuto dell’ideologia che imperava in quegli anni.
Il giovane di Faenza non era solo un buon calciatore, era un antifascista ed un uomo di cultura, un atleta che ‘leggeva Montale e Pavese e che si dilettava nella pittura e nella recitazione’. Era un partigiano che sapeva coniugare l’attività agonistica con quella intellettuale e politica.
L’8 settembre del 1943, dopo l’armistizio di Cassibile, come tanti italiani dovette decidere se aderire alla Repubblica di Salò o entrare nella Resistenza. Bruno Neri fece la scelta giusta. Da quel giorno iniziò, insieme a tanti altri italiani, la lotta armata contro l’occupazione nazifascista. Morì dieci mesi dopo combattendo per la libertà. Quella foto in bianco e nero è, ora, un monito per non dimenticare ed un incoraggiamento per quanti continuano a lottare per la giustizia e la democrazia.



 domenica 29 dicembre 2019


‘Il divario tra Nord e Sud verrà colmato solo nel 2020’

Non è una battuta e neanche una fake news, è il titolo di un articolo pubblicato nel 1972 dal Corriere della Sera. Ma, da allora, il divario non solo non è stato colmato, ma negli ultimi tre decenni è cresciuto notevolmente, perché?

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Corriere della Sera del 13 settembre 1972
(foto da ilpost.it)
La previsione è stata fatta dal professore Pasquale Saraceno ed è stata riportata in un rapporto del ministero del Bilancio, l’anno era il 1972. Il boom economico degli anni Sessanta ‘nel Sud è avvenuto in modo disordinato, aggiungendo ai vecchi motivi di arretratezza nuove cause di disorientamento’. L’articolista descrive come ‘Piramidi sulle sabbie mobili’ le industrie siderurgiche (Taranto) e petrolchimiche (Milazzo, Gela e Pozzallo) sorte in quegli anni con la Cassa per il Mezzogiorno. Esse ‘hanno rappresentato le espressioni più avanzate dell’industrializzazione del Sud, ma si tratta di attività produttive a basso tasso di occupazione’. Ed ancora: ’In questo quadro di arretratezza laureati e diplomati non trovano sblocchi professionali, mentre un’élite lotta tenacemente, quanto sfortunatamente, contro resistenze ancestrali’.
Sembra un’analisi fatta oggi, invece è di 47 anni fa. Da allora nulla è cambiato. I diplomati ed i laureati continuano ad emigrare ed il declino economico e sociale del Sud prosegue. Due dati, tra i tanti che si potrebbero citare, ci fanno capire la situazione. Il reddito medio pro-capite al Nord (circa 33.000 euro) è quasi il doppio di quello del Sud (circa 17.000 euro). Il tasso di disoccupazione in alcune aree del Mezzogiorno supera il 18%, mentre in tante città settentrionali è meno del 5%.
Il 2020 è arrivato e la previsione fatta dal Corriere della Sera non si è avverata, anzi le distanze economiche e sociali tra Nord e Sud del paese sono cresciute notevolmente, perché?
Di certo ci sono ragioni strutturali come la lontananza dai mercati di produzione e di sbocco dei prodotti, una rete di infrastrutture inadeguate, una classe dirigente incapace e spesso collusa con la criminalità organizzata. Ma tutto questo non basta. Dietro il mancato sviluppo del Meridione ci sono le scelte di politica economica fatte dalle classi dirigenti che hanno governato il Paese dal dopoguerra ad oggi. Nonostante l'intraprendenza di tanti piccoli imprenditori meridionali, il Sud era ed è destinato ad essere un mercato di sbocco per i prodotti delle aziende lombarde, piemontesi, venete ed emiliane. Nello stesso tempo esso è un bacino elettorale per quelle forze politiche che intendono mantenere il ‘dualismo’ e che oggi con l'autonomia differenziata vorrebbero addirittura incrementare.
La previsione per il 2050, a questo punto, è facile: il divario si manterrà se va bene per i meridionali. Del resto, ad illudere chi non ha nulla ci vuole poco e per foraggiare le clientele non occorre molto, bastano le briciole.

Fonte ilpost.it


sabato 21 dicembre 2019


Il presepe più antico del mondo si trova a Siracusa

La più antica rappresentazione della Natività si trova in Sicilia, a Siracusa e risale al IV secolo d.C.

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Il sarcofago di Adelfia - (foto da wikipedia.org)
Il prezioso reperto della riproduzione del Presepe è custodito nel museo archeologico ‘Paolo Orsi’ di Siracusa. La galleria è dedicata all’arte cristiana e prende il nome di Adelfia. Il sarcofago dove è deposto il corpo della donna risale al IV secolo d.C. ed è stato rinvenuto nel 1872 da Francesco Saverio Cavallari. Era in un cubicolo delle catacombe della chiesa di San Giovanni. Siracusa, infatti, conserva, come Roma, ‘percorsi catacombali e tracce della più antica devozione cristiana’. 
Un particolare del sarcofago di Adelfia dove è riprodotta la
Natività - (foto da wikipedia.org)
Alla morte della donna il marito comes Balerius Valerius (Valerio) volle dedicargli un’urna di marmo decorata da immagini del Vecchio e del Nuovo Testamento. Tra le rappresentazioni riprodotto nel sepolcro c’è la NativitàNell’effige si possono distinguere chiaramente i tre magi che indossano ‘un copricapo sui loro lunghi capelli, una tunica, mentre procedono con i loro doni verso Gesù. Una tettoia ricoperta da tegole e ceppi ripara il Messia in fasce, adagiato in un cesto di vimini e scaldato dal fiato del bue e dell’asinello, mentre Maria siede su una roccia’.


giovedì 7 novembre 2019


Tangentopoli nera

Nel 2016 è stato pubblicato da Sperling & Kupfer ‘Tangentopoli nera’, il testo 'svela il malaffare, la corruzione ed i ricatti all’ombra del fascismo', ecco alcuni brani del libro

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

La copertina del libro 'Tangentopoli nera'
Negli archivi del National Archives di Kew Gardens, a pochi chilometri da Londra, sono custodite migliaia di carte che 'raccontano le vicende nascoste del fascismo e di come il regime fosse minato dalla corruzione e da gerarchi spregiudicati dediti a traffici di ogni genere'. Mario Josè Cereghino e Giovanni Fasanella, autori del libro, hanno spulciato quella documentazione. Il resoconto che ne è scaturito ricostruisce la ‘Tangentopoli nera’ e smentisce la propaganda sull’integrità morale del fascismo che ancora oggi trova credito in taluni ambienti politici ed istituzionali. Ecco alcuni brani del libro.
‘Quando c’era Lui… Già, quando c’era Lui, il Duce del fascismo Benito Mussolini, i treni arrivavano in orario, l’ordine e la legalità regnavano sovrani, si poteva dormire con la porta aperta e lasciare la bicicletta sotto casa. E soprattutto non esistevano corruzione, mafie, tangenti, malaffare e arricchimenti illeciti. Forse si esagerò con il pugno di ferro nei confronti degli oppositori, con le leggi razziali e la dichiarazione di guerra, ma almeno il potere politico era lindo come acqua di sorgente. Si, quante volte lo abbiamo sentito ripetere?’
‘D’altra parte, l’incorruttibilità del Duce e dei suoi gerarchi ha rappresentato per tutto il secondo dopoguerra uno dei miti identitari dell’estrema destra … Era idea condivisa … in vasti settori degli apparati dello Stato (esercito, carabinieri, polizia, servizi segreti, alta burocrazia) e che ha contagiato gran parte della pubblica opinione apartitica o qualunquistica o … antisistema e populista’.
‘Ma se appena si prova a sollevare il velo della retorica, si scopre il lato oscuro e forse sorprendente del fascismo’ … ‘Durante il Ventennio erano in molti ad averlo compreso. Tra questi Benedetto Croce’. Ecco cosa confidò ad un suo stretto collaboratore, poi rivelatosi un agente infiltrato che riferì tutto a Mussolini. ‘Il fascismo è una grande organizzazione di affaristi. Tutti pensano a rimpinguare le tasche e, quando si farà la storia di questi tempi, quello che uscirà fuori farà rabbrividire’. I documenti custoditi negli archivi nazionali britannici e riportati nel libro ci dicono che non solo ‘la percezione del filosofo era esatta, ma ci danno soprattutto un quadro preciso dell’estensione e della profondità del malaffare in cui lo stesso Duce ed i suoi gerarchi erano immersi sino al collo’.
‘Tangentopoli nera’ è una lettura illuminante, un resoconto sul Ventennio fascista che svela l’esistenza di un retroterra melmoso, fatto di corruzione e intrallazzi e di uno stretto legame tra gerarchi e malaffare. Una ulteriore e definitiva smentita sulla moralità del fascismo e del suo Duce, Benito Mussolini.

Fonte: ‘Tangentopoli nera’ di Mario Josè Cereghino e Giovanni Fasanella, editore Sperling & Kupfer, 2016


martedì 24 settembre 2019


Petralia Sottana ricorda Cesare Terranova

'E credo gli venisse, tanta acutezza e tenacia e sicurezza, appunto dal candore, dal mettersi di fronte a un caso candidamente, senza prevenzioni, senza riserve. Aveva gli occhi e lo sguardo di un bambino. E avrà senz'altro avuto i suoi momenti duri, implacabili, quei momenti che gli valsero la condanna a morte, ma saranno stati a misura, appunto, del suo stupore di fronte al delitto, di fronte al male, anche se quotidianamente vi si trovava di fronte', Leonardo Sciascia

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

La locandina della manifestazione di Petralia Sottana
Erano le 8:30 del 25 settembre 1979 quando la Fiat 131 di scorta a Cesare Terranova arrivò sotto la casa del giudice. Quella mattina il magistrato si mise alla guida, mentre accanto a lui sedeva il maresciallo di Pubblica Sicurezza Lenin Mancuso, addetto alla sua protezione dal 1963. Imboccata una strada secondaria l'auto dovette fermarsi perchè c'era una interruzione per lavori in corso, ma era un'imboscata, da un angolo sbucarono i killer che iniziarono a sparare. I tentativi del giudice di fare retromarcia e del maresciallo di impugnare la sua pistola d'ordinanza furono inutili. Cesare Terranova morì subito, mentre Lenin Mancuso spirò alcune ore dopo in ospedale.
Secondo Francesco Di Carlo, esponente del mandamento di San Giuseppe Jato, gli esecutori materiali furono Giuseppe Giacomo Gambino e Vincenzo Puccio ed il mandante Luciano Liggio.  
Cesare Terranova, 25 settembre 1979 - (foto da wikipedia.org)
A quarant'anni da quel tragico giorno, l'amministrazione comunale di Petralia Sottana ed i familiari del magistrato hanno voluto dare rilievo alla ricorrenza con una serie di eventi che si svolgeranno nella cittadina madonita. La giornata inizierà alle ore dieci presso l'Istituto comprensivo che si trova in piazza Nino Tedesco, dove, davanti al cippo che ricorda il giudice, sarà deposta una corona di fiori. Successivamente due nipoti di Cesare Terranova incontreranno gli alunni del locale liceo delle Scienze umane 'Pietro Domina'. Ai ragazzi sarà presentato un progetto che prevede un concorso sulla figura del giudice assassinato dalla mafia. La manifestazione proseguirà presso Palazzo Pucci, sede del parco delle Madonie, dove alle ore sedici sarà inaugurata una mostra fotografica e documentale sulla vita del magistrato petralese. All'iniziativa interverranno, oltre al sindaco di Petralia Sottana, Leonardo Neglia, numerose personalità istituzionali.
Tra queste il presidente della Commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra ed il presidente della Commissione d'inchiesta e vigilanza sul fenomeno mafioso dell'Ars Claudio Fava. Interverranno anche il procuratore di Termini Imerese, Ambrogio Cartosio, l'ex presidente del Tribunale di Palermo Leonardo Guarnotta e l'ex procuratore aggiunto Leonardo Agueci. Saranno presenti, inoltre, il magistrato Roberto Tartaglia, il dirigente dell'anticrimine Giovanni Pampillonia ed il presidente del centro studi 'Pio La Torre', Vito Lo Monaco.









mercoledì 7 agosto 2019



Marcinelle, ‘Je reviens de l’enfer’

Era la mattina dell’8 agosto 1956 quando scoppiò un incendio nella miniera di carbone di Bois du Cazier di Marcinelle, in Belgio, che provocò la morte di 262 minatori su 275 presenti, 136 erano immigrati italiani

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

L'incendio nella miniera di Marcunelle, 8 agosto 1956
(foto da wikipedia.org)
Il 23 giugno del 1946 il Governo italiano stipulò con quello belga un protocollo che prevedeva l’invio di 50.000 lavoratori (2.000 a settimana) in cambio di 2.500 tonnellate di carbone al mese ogni 1.000 immigrati. Braccia umane in cambio di carbone, questa era la sostanza dell’accordo. L’allora presidente del Consiglio, Alcide De Gasperi, considerava l’emigrazione di lavoratori italiani come funzionale alla ricostruzione del Paese. Nel giugno del 1949 al III° Congresso dellaDemocrazia Cristiana ‘auspicava a questo fine una collaborazione internazionale che aprisse ai lavoratori italiani i mercati del lavoro esteri’ (Morandi 2011). Quell’accordo equiparava i lavoratori italiani alle merci, veri e propri ‘deportati economici’, venduti dall’Italia per qualche sacco di carbone (Franzina 2002). Nel 1956 dei 142 mila lavoratori impiegati nelle miniere del Belgio 44 mila erano italiani. Decine di migliaia di contadini, soprattutto meridionali, emigrarono nella speranza di vivere una vita dignitosa, ma per molti di loro non fu così. Alloggiavano nelle misere baracche che erano state utilizzate come lager dai nazisti e successivamente come campo di prigionia per gli stessi tedeschi. Spesso li chiamavano ‘musi neri’ o ‘sporchi maccaroni’. Lavoravano a più di 1.000 metri di profondità in cunicoli alti appena mezzo metro. Spesso erano vittime di esplosioni di grisù e di malattie gravi come la silicosi.
Alle ore 8:11 dell’8 agosto 1956 uno dei due ascensori della miniera di Marcinelle per una manovra errata dovuta ad un disguido tra gli operatori ‘risalì bruscamente con due vagoncini sporgenti che urtarono una putrella del sistema di invio. A sua volta questa tranciò una condotta d’olio, i fili telefonici e due cavi in tensione (525 Volt)’. Il fumo provocato dall’incendio ‘raggiunse ogni angolo della miniera causando la morte dei minatori’. Il caposquadra Bohen prima di morire annotò sul suo taccuino: ’je reviens de l’enfer’ (ritorno dall’inferno). L’allarme fu dato alle ore 8:25. Tutti i tentavi di soccorso furono vani. Il 22 agosto alle ore 3:00 uno dei soccorritori, che da due settimane tentavano il salvataggio, disse in italiano: tutti cadaveri. Persero la vita 262 minatori, di cui 136 italiani e 95 belgi. Si salvarono solo in 13.
Erano partiti dalle campagne italiane e dalla miseria, avevano le valigie di cartone e nel cuore la speranza di vivere una vita dignitosa. Trattati come una merce di scambio, sono stati mandati in quell’inferno per un sacco di carbone, per assicurare al Bel Paese la ricostruzione ed il boom economico. Vissero il disagio e la sofferenza degli ultimi, quelle dei migranti che sono disposti a tutto pur di fuggire dalla povertà e dalla guerra.Ora sono per sempre nella nostra memoria, ma con il rimpianto per averli traditi due volte, prima per averli illusi e, poi, per averli lasciati morire nelle viscere di una terra sconosciuta e lontana.





giovedì 18 luglio 2019


‘Quel fresco profumo di libertà’

‘La lotta alla mafia non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, maun movimento culturale e morale, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si contrappone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità’, Paolo Borsellino

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
(foto da centrostudiborsellino.it)
Quando nel tardo pomeriggio del 19 luglio del 1992 la tivù trasmise le prime immagini della strage di via d’Amelio sembrava di essere in una zona di guerra come c’è ne sono ancora tante nel mondo, invece eravamo a Palermo, in un quartiere che si trova nel cuore della città. Erano le 16:58 di una calda giornata estiva ed una bomba pronta ad esplodere era stata nascosta in una Fiat 126 rossa parcheggiata proprio accanto all’ingresso dello stabile dove si trova la residenza della madre del giudice Paolo Borsellino.
Fu attimo, solo un attimo ed una forte esplosione echeggiò per le strade della città. Il pensiero di molti corse al Giudice e alla sua scorta. Una notizia che nessuno avrebbe voluto sentire, ma che in tanti temevano potesse arrivare da un giorno all’altro. Fumo, fiamme, pompieri che andavano e venivano, militari, curiosi, l’asfalto bagnato dagli idranti e tanta confusione. Le auto sventrate dall’esplosione stavano bruciando e, anche se attraverso lo schermo l’odore non si poteva sentire, chi stava guardando potè immaginare l’orrore che i primi soccorritori devono aver provato davanti a tale scempio di corpi e di vite. Duecento chili di tritolo erano deflagrati e sei eroi, sei servitori dello Stato italiano, non c’erano più. Oltre al Giudice, sull’asfalto rimasero i corpi di Agostino Catalano, Emanuela Loi (la prima donna a far parte di una scorta), Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina, Claudio Traina e l’unico sopravvissuto l’agente Antonino Vullo.
Perché nessuno aveva provveduto a far sgomberare le auto parcheggiate in quella strada? Tutti sapevano che prima o poi Paolo Borsellino sarebbe andato in via d’Amelio a trovare la madre, tutti sapevano che sarebbe passato da quel portone. I mafiosi conoscevano le sue abitudini. Pi stuppagghiari’ è stato relativamente facile organizzare l’attentato. Ma i funzionari addetti alla sicurezza del Giudice come facevano a non sapere e se sapevano perché non hanno provveduto allo sgombero? Paolo Borsellino era nel mirino da anni e lo era ancora di più dopo l’assassinio di Giovanni Falcone. Era chiaro a tutti che ‘i corleonesi’ avrebbero continuato nelle loro stragi e nell’attacco allo Stato. Le condanne definitive inflitte agli esponenti della Cupola con il maxiprocesso mettevano in pericolo l’incolumità di quanti avevano operato con professionalità e senso del dovere nell’istruire e nel portare a conclusione e con successo quel processo.
Oggi sappiamo che ci furono dei depistaggi, che l’attentato non fu opera solo dei mafiosi, che il Giudice dava fastidio e come spesso, troppo spesso è successo in questo triste ed ingiusto Paese, c’è sempre qualcuno che traffica e trama ai danni del popolo italiano e di chi, ligio al dovere e con un innato senso della giustizia, non si piega e non rinuncia alla propria libertà e dignità, proprio come fecero Paolo Borsellino e Giovanni Falcone’. Due eroi siciliani che erano abituati 'a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si contrappone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità’ a cui, purtroppo, in tanti continuano ad adeguarsi ed adattarsi.



sabato 6 luglio 2019

8 agosto 1991, 20mila albanesi sbarcano in Italia


Il più grande sbarco di migranti avvenuto nel nostro Paese è di 28 anni fa, quel giorno arrivarono con una sola nave 20mila albanesi, ma non si parlò di invasione come si fa oggi per poche decine di disperati

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

La Vlora attraccata al porto di Bari,
8 agosto 1991 - (foto da wikipedia.org)
Per impedire lo sbarco di poche decine di migranti salvati dalle Ong il ministro degli Interni, Matteo Salvini, ha imposto ai grillini un secondo decreto ‘sicurezza’, ha chiuso il porto di Lampedusa, ha ordinato il blocco messo in atto dalla Guardia di finanza, ha insultato i parlamentari dell’opposizione, la Capitana della Sea Watch 3 ed i magistrati che non hanno fatto quanto egli aveva suggerito dai suoi canali di comunicazione preferiti: i social.Tutto per impedire una presunta ‘invasione’di migranti.
La nave mercantile Vlora, battente bandiera albanese, il 7 agosto del 1991, mentre si trovava a Durazzo per le operazioni di sbarco della merce che aveva cariato a Cuba, venne ‘assalita da una folla di 20mila persone’ e costretta a salpare per l’Italia. L’imbarcazione giunse a Bari il giorno dopo: l’otto agosto. Il comandante Halim Milagi, come ha fatto pochi giorni fa Carola Rackete, forzò il blocco navale ‘comunicando di avere feriti gravi a bordo’. Le foto e le immagini televisive della nave stipata di disperati sono ancora oggi impressionanti. Quel giorno una marea umana si riversò sul molo, mentre a decine si tuffarono in acqua e tentarono di scappare. Ad oggi esso rimane il più grande sbarco di migranti avvenuto nel nostro Paese con una sola nave.
Ecco come descrisse quel giorno la moglie del sindaco di Bari, Enrico Delfino. ‘Andò subito al porto, prima ancora che la Vlora sbarcasse. A Bari non c’era nessuno del mondo istituzionale, erano tutti in vacanza, il prefetto, il comandante della polizia municipale, persino il vescovo era fuori. Quando uscì di casa però non immaginava quello a cui stava andando incontro. Dopo qualche ora, mi telefonò dicendomi che c’era una marea di disperati, assetati, disidratati, e aveva una voce così commossa che non riusciva a terminare le frasi. Non dimenticherò mai l’espressione che aveva quando tornò a casa, alle 3 del mattino dopo. Sono persone - ripeteva - persone disperate. Non possono essere rispedite indietro, noi siamo la loro ultima speranza>’.
È così che ci si comporta di fronte alla disperazione, non proclamando finti blocchi navali, finti arresti ed istigando all’odio. Purtroppo, il popolo italiano, oltre ad essere ‘credulone’ ha, anche, la memoria corta o fa finta di avere la memoria corta. Resta il fatto che oggi, per leghisti e grillini e per i loro rispettivi fan, siamo ‘invasi’ da poche decine di disperati, mentre 28 anni fa, con 20mila migranti sul molo di Bari, fu solo stupore e solidarietà.

lunedì 10 giugno 2019

Giacomo Matteotti: 'Il fascismo non è un'opinione, è un reato'


'Uccidete pure me, ma l'idea che è in me non l'ucciderete mai', Giacomo Matteotti

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da wikipedia.org

Giacomo Matteotti 'fu rapito e assassinato da una squadra fascista capeggiata da Amerigo Dumini probabilmente per volontà esplicita di Benito Mussolini, a causa delle sue denunce dei brogli elettorali attuati dalla nascente dittatura nelle elezioni del 6 aprile 1924, e delle sue indagini sulla corruzione del governo, in particolare nella vicenda delle tangenti della concessione petrolifera alla Sinclair Oil. Matteotti, nel giorno del suo omicidio (10 giugno 1924) avrebbe dovuto infatti presentare un nuovo discorso alla Camera dei deputati - dopo quello sui brogli del 30 maggio - in cui avrebbe rivelato le sue scoperte riguardanti lo scandalo finanziario coinvolgente anche Arnaldo Mussolini, fratello del Duce. Il corpo di Matteotti fu ritrovato circa due mesi dopo, dal brigadiere Ovidio Caratelli'.



mercoledì 8 maggio 2019

Peppino Impastato: ‘Passeggio per i campi con il cuore sospeso nel sole’


‘Nato nella terra dei vespri e degli aranci, tra Cinisi e Palermo parlava alla sua radio,negli occhi si leggeva la voglia di cambiare, la voglia di giustizia che lo portò a lottare, aveva un cognome ingombrante e rispettato, di certo in quell'ambiente da lui poco onorato, si sa dove si nasce ma non come si muore e non se un ideale ti porterà dolore', Modena City Ramblers 

di GiovanniPulvino(@PulvinoGiovanni)

1968, comizio di Peppino Impastato nel cortile del palazzo
comunale di Cinisi - (foto da centroimpastato.com)
Peppino Impastato è nato a Cinisi, in provincia di Palermo, il 5 gennaio 1948. Rompe presto i rapporti con il padre Luigiaffiliato alla famiglia mafiosa di Cinisi. Nel 1965 fonda il giornalino L’idea socialistaed aderisce al Psiup. Dal 1968 partecipa alle lotte dei contadini, degli edili e dei disoccupati. Nel 1976 fonda il gruppo Musica e cultura e, l’anno successivo, Radio Aut, un’emittente radiofonica libera ed autofinanziata. Il programma più seguito dalla radio fu Onda pazza a Mafiopoli, con cui il giovane Impastato insieme ad i suoi amici sbeffeggiava i politici ed i mafiosi di Cinisi e Terrasini. Tra loro c’era Gaetano Badalamenti, allora potentissimo boss della mafia siciliana. 
Nel 1978 si candida alle elezioni provinciali con la lista di Democrazia Proletaria, ma viene assassinato nella notte tra l’otto ed il nove maggio di quell’anno. Gli elettori di Cinisi, pochi giorni dopo, lo eleggono simbolicamente nel Consiglio comunale. Quella morte passò quasi inosservata perché in quelle stesse ore venne ritrovato in via Caetani a Roma il cadavere del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, che era stato rapito e successivamente ucciso dalle Brigate Rosse. All’inizio la stampa, le forze dell’ordine e la magistratura parlarono di un attentato terroristico. I depistaggi e le complicità mafiose non scoraggiarono la madre ed il fratello di Peppino Impastato che intrapresero una dura lotta per far emergere la verità sul suo assassinio. Nel maggio del 1984 gli inquirenti, allora guidati dal giudice Caponnetto, riconobbero la matrice mafiosa dell’omicidio. Il 5 marzo del 2001 la Corte d’assise di Palermo ha condannato a trent’anni di reclusione come mandante dell’omicidio Vito Palazzolo. L’11 aprile dell’anno dopo, per lo stesso motivo, fu emessa la sentenza di ergastolo per Gaetano Badalamenti. 
Peppino Impastato combatté e morì perché era uno spirito libero, un uomo che non sopportava le ingiustizie e le 'malefatte' delle famiglie mafiose. Ecco come dai microfoni di Radio Aut denunciava con fermezza ed ironia gli ‘affari’ perpetrati dai politici e mafiosi di Cinisi. 
Peppino: ‘E sì, siamo nei paraggi del Maficipio di Mafiopoli. È riunita la Commissione Edilizia. All’ordine del giorno l’approvazione del Progetto Z-11. Il grande capo, Tano Seduto, si aggira come uno sparviero nella piazza. Si aspetta il verdetto’. 
Salvo: ‘Ed ecco tutti i grandi capi delle grandi famiglie indiane tutti qua: c’è Mano cusuta, o Cusuta-mano, poi c’è Quarara Calante, eccolo là, con il suo bel pennacchio, c’è anche l’esploratore, il Pari, … deve essere un pari d’Inghilterra … e, infine, a presiedere questa seduta, veramente in tutta la sua maestosità …’. 
Peppino: ‘C’è il grande capo, i due grandi capi, Tano Seduto e Geronimo Stefanini, sindaco di Mafiopoli … Sì, i membri della Commissione discutono … c’è qualche divergenza ma sono fondamentalmente d’accordo. Sì, si stanno mettendo d’accordo sull’approvare il progetto Z-11 …’.
Faro: ‘Nuvolette discontinue verso il vice-capo Franco Maneschi. Gli comunicano che il progetto Z-11 è passato e che lui l’ha presa regolarmente nel culo… Sei miliardi… sei miliardi (spari)… Sì, sono sempre gli argomenti con i quali il grande capo Tano Seduto ha imposto la sua legge. 
Salvo: Ma che fa’ ti lamenti? Bada… bada…’. 
Peppino: ‘Bada a come ti lamenti, porco cane… (musica). È stato difficile, ma per don Tano non esistono ostacoli (spari)…’.  
Salvo: ‘Sì, avremo una terra anche per noi, miei prodi. Tutta nostra. Eccola là, con il mare che luccica, eccola là, con le onde che lambiscono dolcemente la riva… Avremo coperte… Viveri… ARMI’.  
Faro: ‘Non si muoverà foglia che Tano non voglia’.

Fonti: wikipedia.org e centroimpastato.com





martedì 30 aprile 2019

Bella ciao ed i giovani del 'Global climate strike for future'



di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)


Testo in inglese:
We need to wake up
We need to wise up
We need to open our eyes
And do it now now now
We need to build a better future
And we need to start right now
We’re on a planet
That has a problem
We’ve got to solve it, get involved
And do it now now now
We need to build a better future
And we need to start right now
Make it greener
Make it cleaner
Make it last, make it fast
and do it now now now
We need to build a better future
And we need to start right now
No point in waiting
Or hesitating
We must get wise, take no more lies
And do it now now now
We need to build a better future
And we need to start right now.
Testo in italiano:

Dobbiamo svegliarci
Diventare più saggi
Dobbiamo aprire gli occhi
E dobbiamo farlo adesso adesso adesso
Dobbiamo costruire un futuro migliore
E dobbiamo iniziare proprio ora

Siamo su un pianeta
Che ha un problema
Dobbiamo risolverlo, essere coinvolti
E fallo ora ora adesso
Abbiamo bisogno di costruire un futuro migliore
E dobbiamo iniziare proprio ora
Rendere il mondo più verde
Rendere il mondo più pulito
Dobbiamo farlo durare, dobbiamo farlo velocemente
Ora adesso adesso
Dobbiamo costruire un futuro migliore
E dobbiamo iniziare proprio adesso
Non ha senso aspettare
O esitare
Dobbiamo diventare più saggi, basta con le bugie
E dobbiamo farlo adesso adesso adesso
Dobbiamo costruire un futuro migliore
E dobbiamo iniziare proprio ora.

 mercoledì 24 aprile 2019


L’Agnese va a morire

‘L’Agnese va a morire è … un documento prezioso per capire che cosa è stata la Resistenza’, Sebastiano Vassalli

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)


Questa è la storia di Agnese, una partigiana uccisa dai tedeschi nel 1945. Renata Viganò, anch’essa una combattente, ha conosciuto ed ha raccontato la vicenda di questa 'eroina' della Resistenza. Il libro è anche una fedele descrizione di come vissero e morirono tanti combattenti che operarono nelle Valli del Comacchio fino alla Liberazione, avvenuta il 25 aprile del 1945. Ecco alcuni brani tratti dalla testimonianza dell’autrice e riportati in appendice al suo libro.
La prima volta che vidi l’Agnese, o quella che nel mio libro porta il nome di Agnese, vivevo davvero un brutto momento … Mio marito l’avevano preso le SS a Belluno, non ne sapevo niente, ogni ora che passava lo vedevo torturato e fucilato, un corpo anonimo che non avrei trovato mai più, neppure per seppellirlo … Mio marito s’era salvato la pelle saltando da una finestra alta; le SS ci avevano fatto una colica di fegato che un partigiano, un comandante, gli fosse scappato, gli avesse tolto il piacere di fucilarlo ... Noi stavamo in brigata, armati e sicuri: nelle ore di ozio i partigiani tagliavano i pennacchi della canna, facevano le scope per il mio bimbo, uno gli costruì anche un carrettino …
Venne l’Agnese un giorno … mi arrivo vicino con i suoi brutti piedi scalzi nelle ciabatte … Poi intesi la sua voce che diceva: << E’ lei la Contessa?>> e allora tutto cambiò colore: mai il mio nome di battaglia mi aveva dato tanta gioia a sentirlo pronunciare. Mi senti riammessa nel giro; non più <<sfollata>> ma partigiana, non più esclusa, ma facente parte di una organizzazione, di un movimento, di un ente vivo … <<Mi manda Lino, - disse l’Agnese – Dice che stia tranquilla. Se succede una disgrazia a suo marito, ci sono sempre i compagni>> … Ecco allora si ragionava così. Se uno spariva. Si stringevano le file, il vuoto era subito cancellato … Piuttosto lavorare più forte; almeno quella sparizione di uno servisse a qualche cosa per gli altri …
La copertina del libro
(foto da feltrinelli.it)
Quando arrivò l’Agnese per rimanere con noi … non crediate ci si dicesse frasi eroiche … Nessuno nella guerra partigiana diceva mai frasi eroiche, neppure quando stava per morire. Tutt’al più gridava: <<Viva i partigiani!>> o cantava <<Bandiera rossa>> e questo è già molto per chi sta per morire. Ma spesso cadeva in silenzio col rumore dei mitra che spengono tutte le parole ...
Con l’Agnese quel giorno parlammo di gatti. Lei aveva una gatta grigia fino a poco tempo addietro e gliela ammazzò un tedesco per gioco. I tedeschi avevano spesso questo modo di scherzare. Ma l’Agnese non scherzava, e ammazzò il tedesco, e poi scappò in brigata e ci rimase …
Così era il clima di allora nella vita partigiana, antieroico, antidrammatico, casalingo e domestico anche se eravamo alla  macchia e la morte girava lì intorno, si nascondeva nello scialle dell’Agnese, negli scarponi dei barcaioli o nei capelli del mio bambino. In quel clima abbiano vissuto diciannove mesi … Tutto esiste: azioni ed uomini, orizzonti e paesi. Colori e temperatura … Ma nella stessa atmosfera ancora viviamo, noi che uscimmo salvi dalla lotta, dentro quel circolo siamo rimasti e forse mai potremo venirne fuori; era il circolo, l’atmosfera dove camminava l’Agnese, ora morta, dove hanno camminato tanti altri, ora pure morti, ma rinchiusi vivi nel mio libro con lei …
Solo una cosa non esiste: un pezzo di terra che abbiamo cercato per scavarlo e ritrovare delle ossa e portarle dove sono le ossa degli altri; la buca frettolosa in cui certo i tedeschi avranno buttato il corpo dell’Agnese, perché un cadavere bisogna pure metterlo da qualche parte. Un pezzo di terra, o forse un tratto d’acqua della valle, fango e canne, dove l’Agnese si è consumata da morta. Non l’abbiamo trovato. Dovremmo fare il funerale a vuoto, un funerale su un nome. Lei, che risultava sempre presente, che non mancava a nessuna chiamata, quella volta non c’era’.   
Fonte: ‘L’Agnese va a morire’ di Renata Viganò. Giulio Einaudi editore. (Premio Viareggio 1949)

martedì 11 dicembre 2018


Tutto ebbe inizio il 12 dicembre 1969 con ‘la madre di tutte le stragi’

Il Sessantotto, l’Autunno caldo, poi l’attentato di Piazza Fontana, ’la madre di tutte le stragi’. Tra il 1968 ed il 1974 in Italia furono compiuti oltre 140 attentati, lo scopo fu quello di impedire al Pci l’accesso al governo del Paese

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

L'interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura, luogo della 
strage di piazza Fontana, dopo l'esplosione della bomba 
(12 dicembre 1969) – (Foto da wikipedia.org)
Il 12 dicembre 1969 l’attentato di piazza Fontana a Milano è considerato la ‘madre di tutte le stragi’. Quel giorno all’interno della Banca Nazionale dell’Agricoltura esplose una bomba ad alto potenziale che provocò 17 morti e 88 feriti. Nel giugno del 2005 la Corte di Cassazione ha stabilito che l’atto terroristico fu opera di ‘un gruppo eversivo costituito a Padova nell’alveo di Ordine  Nuovo e capitanato da Franco Freda e Giovanni Ventura’, non più perseguibili in quanto in precedenza assolti con giudizio definitivo dalla Corte d’Assise d’Appello di Bari. Gli esecutori materiali sono rimasti ignoti.  
Il 22 luglio 1970 la strage di Gioia Tauro provocò 6 morti e 66 feriti. L’atto terroristico determinò il deragliamento del treno direttissimo Palermo –Torino. Le cause non vennero accertate, ma secondo il giudice istruttore del tribunale di Palmi l’attentato dinamitardo fu l’ipotesi più plausibile.
Il 31 maggio 1972 la strage di Peteano a Gorizia causò 3 morti e 52 feriti. I tre carabinieri, vittime dell’attentato, furono chiamati a fare un sopralluogo a Sagrado, frazione di Peteano, dove c’era un auto sospetta che invece si rivelò un’autobomba che espose quando gli agenti tentarono di aprire lo sportello a cui era collegato l’innesco esplosivo. I responsabili Vicenzo Vinciguerra, Carlo Cicuttini (latitante fino al 1998) e Ivano Boccaccio, tutti e tre appartenenti al gruppo neofascista di Ordine Nuovo, furono identificati e condannati nonostante i tentativi di depistaggio compiuti da esponenti delle forze armate e dell’ordine.
Il 17 maggio 1973 la strage della Questura di Milano provocò 4 morti e 52 feriti. Mentre era in corso la cerimonia in memoria del commissario Luigi Calabresi alla presenza del ministro degli Interni Mariano Rumor un ordigno esplose in mezzo alla folla riunita per la celebrazione. L’attentatore, Gianfranco Bertoli, venne fermato ed arrestato. Nel 2002 il generale Nicolò Pollari (ex direttore del SISME) sentito dai giudici della terza Corte d’appello di Milano ha confermato che 'Bertoli è stato un informatore del SIFAR prima e del SID in seguito (servizi segreti italiani)
Il 28 maggio 1974 la strage di piazza della Loggia a Brescia provocò 8 morti e 102 feriti. Una bomba nascosta in un cestino portarifiuti fu fatta esplodere mentre si stava svolgendo una manifestazione antifascista indetta dai sindacati e dal Comitato Antifascista. Dopo decenni di depistaggi e processi sono stati condannati i membri del gruppo neofascista di Ordine Nuovo Ermanno Buzzi, Maurizio Tramonte, Carlo Digilio e Marcello Soffiati. Come mandante fu condannato il dirigente fascista Carlo Maria Maggi. Altri furono assolti, tra di loro Pino Rauti ex segretario del Msi e fondatore del centro studi Ordine Nuovo.
Il 4 agosto 1974 la strage dell’Italicus (sull’espresso Roma – Brennero) provocò 12 morti e 105 feriti. Alle ore 1:23, quando il treno si trovava presso San Benedetto Val di Sambro, una bomba ad alto potenziale esplose nella quinta vettura del treno espresso 1486, proveniente da Roma e diretto a Monaco di Baviera. Secondo quanto affermato dalla figlia Maria Fida, su quel treno doveva esserci l’allora ministro degli Esteri Aldo Moro. Ma ‘pochi minuti prima della partenza del treno venne raggiunto da alcuni funzionari che lo fecero scendere per firmare alcuni documenti’
La strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980 provocò 85 morti e 200 feriti. Gli esecutori materiali, appartenenti al gruppo neofascista dei Nuclei Armati Rivoluzionari, Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini sono stati individuati e condannati (1995), mentre i mandanti sono ancora sconosciuti.
Gli anni Settanta sono stati un’occasione mancata. La spinta al cambiamento che venne dagli studenti (1968), dalla classe operaia (autunno caldo 1969) e dal movimento femminista produsse numerose riforme che ancora oggi costituiscono i pilastri della nostra società. Lo Statuto dei lavoratori, il Diritto di famiglia, la legge sul Divorzio, la riforma della scuola e dell’università, l’introduzione dell’Iva, la modernizzazione del sistema televisivo, l’introduzione delle regioni a statuto ordinario e numerosi altri provvedimenti hanno determinato un profondo cambiamento nella società italiana. Tuttavia, le forze ‘oscure’ dei servizi segreti deviati ed i gruppuscoli di neofascisti riuscirono, con la strategia della tensione, a limitare il fervore ideologico e programmatico che caratterizzò un'intera generazione. Ed è per questo che quella fu una ‘rivoluzione incompiuta. Oggi è il tempo di riprendere e completare quel percorso.

sabato 24 novembre 2018

Ponzia Postumina assassinata dopo una notte ‘d’amore e collera’


Maltrattamenti, sopraffazioni, violenze e uccisioni delle donne non sono un’esclusiva della società moderna, ma si sono sempre verificati nel corso della storia, ecco un esempio avvenuto nel 58 d.C., al tempo di Nerone 

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Della vita di Ponzia Postumina non si conosce nulla se non la tragica morte avvenuta per mano del suo amante. Lo storico Tacito in un capitolo degli Annales ci racconta la vicenda d’amore tra Ponzia Postumina e Ottavio Sagitta, senatore e tribuno della plebe. Un rapporto inteso ed ‘ossessivo ‘ al limite di una ‘pulsione distruttiva’.
La donna stanca di quell’uomo violento, cercò di chiudere la relazione. Ma Ottavio dopo una ‘notte che passo in litigi, preghiere, rimproveri, scuse e, in parte effusioni, ad un tratto, quasi fuori di sé, infiammato dalla passione, trafisse col ferro la donna che nulla sospettava’. Il tribuno fu arrestato e condannato per il vile assassinio. Ma gli fu risparmiata la vita e finì in esilio nell’isola di Ponza.
Questa tragica vicenda è simile a tante altre ed ancora oggi essa si ripete con crudele continuità. Dall’inizio dell’anno le vittime di femminicidio sono già state novantaquattro, mentre gli atti di violenza denunciate dalle donne sono state quasi cinquantamila.  
Troppo spesso mariti o compagni considerano la loro donna come ‘cosa propria’ ed in alcuni casi essi arrivano al punto di attribuirsi il ‘diritto’ di deciderne la vita o la morte.Questi ‘ominicchi’ confondono l’amore con il possesso e considerano l’affetto ricevuto non come un atto che deve essere riconosciuto e ribadito ogni giorno, ma come un sentimento esclusivo dato per sempre. E’ un atteggiamento infantile, che denota insicurezza ed immaturità e che, a volte, sfocia nella violenza e nel crimine.
E’ un fatto culturale. E non può essere una giustificazione l’indissolubilità del matrimonio sancita dal cristianesimo. L’amore può non essere per sempre. Ed in ogni caso la donna ha, come l’uomo, il diritto di innamorarsi di nuovo o, semplicemente, di chiudere una relazione. E’ nella natura umana dare e ricevere amore e nessuno può decidere quando e dove questo può avvenire.
Ma, purtroppo, fino a quando gli uomini non accetteranno il carattere di reciprocità di questo diritto, i femminicidi continueranno.


venerdì 14 settembre 2018

Don Pino si voltò, sorrise ai suoi assassini e disse: ‘Me l’aspettavo’


‘Don Puglisi è stato un sacerdote esemplare, dedito specialmente alla pastorale giovanile. Educando i ragazzi secondo il Vangelo vissuto li sottraeva alla malavita e così questa ha cercato di sconfiggerlo uccidendolo. In realtà però è lui che ha vinto con Cristo risorto’, Papa Francesco 

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni) 

Don Pino Puglisi - (foto da wikipedia.org)
Il 15 settembre del 1993, giorno del suo 56° compleanno, don Pino Puglisi intorno alle 22,45 era appena sceso dalla sua Fiat Uno bianca e si stava avvicinando al portone di casa quando qualcuno lo chiamò, lui si voltò, sorrise ai suoi assassini e disse: ‘Me l’aspettavo, subito dopo Salvatore Grigoli, killer della mafia, gli sparò un colpo alla nuca. 
Un uomo di fede se ne andato così, senza nessun timore verso chi, accecato dall’odio, ha sparato senza esitazione. Don Pino era un uomo mite ed è morto per la sua testardaggine nel credere che un’altra Sicilia è possibile e che l’amore e la giustizia prima o poi trionferanno. Un ‘Santo’ che forse i siciliani non meritano di avere.
Mandanti dell’omicidio furono i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, condannati all’ergastolo insieme agli altri componenti del commando, cioè Gaspare Spatuzza, Nino Mangano, Cosimo Lo Nigro e Luigi Giacalone. Il 26 agosto del 2015 Don Pino è stato insignito della medaglia d’oro al valor civile alla memoria con la seguente motivazione: Per l'impegno di educatore delle coscienze, in particolare delle giovani generazioni, nell'affermare la profonda coerenza tra i valori evangelici e quelli civili di legalità e giustizia, in un percorso di testimonianza per la dignità e la promozione dell'uomo. Sacrificava la propria vita senza piegarsi alle pressioni della criminalità organizzata. Mirabile esempio di straordinaria dedizione al servizio della Chiesa e della società civile, spinta fino all'estremo sacrificio. 15 settembre 1993 – Palermo’.





venerdì 7 settembre 2018

L’otto settembre 1943 ebbe inizio la lotta per la Liberazione dall’occupazione nazifascista


‘Volevo combattere il fascismo. Soprattutto dopo la morte di mio padre, non sapevo che farmene delle parole e basta. Ma quasi tutti i vecchi liberali erano emigrati all'estero, e quelli rimasti in Italia non volevano affrontare l'attività illegale. I comunisti erano i soli a combattere’, Giorgio Amendola

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)


‘Il Governo italiano, riconosciuta l’impossibilità a continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze armate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza’. Con questo messaggio radiofonico diffuso l’otto settembre del 1943 il generale Badoglio comunica l’armistizio dell’Italia con le forze anglo-americane.
Quel giorno ebbe inizio il Secondo Risorgimento italiano. I movimenti politici democratici che si opponevano al nazifascismo diedero avvio alla lotta di Liberazione. Comunisti, azionisti, monarchici, socialisti, cattolici, liberali, repubblicani e anarchici si organizzarono nel CLN, il Comitato di Liberazione Nazionale.
Fu guerra patriottica, ma anche insurrezione popolare spontanea, guerra civile tra fascisti e antifascisti, guerra di classe e soprattutto lotta per la liberazione del suolo italiano dall’occupazione nazifascista. In 100 mila, tra partigiani e civili, persero la vita. Dal loro sacrificio è nata la Repubblica italiana fondata sui principi di libertà, giustizia, uguaglianza e solidarietà.
Ma gli ideali della Resistenza, sanciti solennemente nella nostra Costituzione, non sono dati per sempre ed è nostro compito ribadirli e riaffermarli ogni giorno, senza se e senza ma, così come fecero quegli eroi 75 anni fa.

Fonti: youtube.com e REDNEWS





lunedì 30 aprile 2018

Portella della Ginestra, ‘giustizia quanno arrivi…’


‘Noi vogliamo che i nostri figli imparino a leggere e scriv… ‘, poi gli spari e le grida di terrore dei lavoratori e dei loro famigliari che stavano festeggiando il Primo maggio a Portella della Ginestra

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)


Video da youtube.it

Centinaia di lavoratori provenienti da Piana degli Albanese, da San Cipirello, da San Giuseppe Jato e dalle campagne vicine si ritrovarono quel mattino del 1947 a Portella della Ginestra per festeggiare il Primo maggio. Interrotta durante il fascismo, i sindacati decisero che era giunto il momento di riprendere la tradizione di recarsi in quel luogo per la festa dei lavoratori. Dieci giorni prima, infatti, si era votato in Sicilia e c’era stata la vittoria delle Sinistre e del Blocco del Popolo sulla Democrazia cristiana, sui monarchici e sui separatisti. Era un momento politico importante per l’isola, l’occupazione delle terre, la riforma agraria e le lotte sindacali stavano mettendo in crisi la mafia dei latifondi. In attesa degli oratori ufficialiun calzolaio di San Giuseppe Jato, Giacomo Schirò, segretario della locale sezione socialista, decise di intrattenere la folla. Ecco cosa riuscì a dire: ’Compagni, amici, lavoratori ogni primo maggio, fascismo o non fascismo, noi siamo sempre venuti qui, prima eravamo pochi ma oggi siamo una forza e lo abbiamo dimostrato nelle elezioni del parlamento siciliano con la strepitosa vittoria del Blocco del popolo. Questa è stata una prima grande vittoria, ma è solo l’inizio, non basta che ci diano la terra devono darci sementi, attrezzi, aratri, devono costruirci le strade, le case, devono portarci l’acqua, la luce nelle campagne. Insomma dobbiamo portare la civiltà nelle campagne. Noi vogliamo che i nostri figli imparino a leggere e scrivere per togliere questa vergogna dell’analfabetismo, perché a causa della nostra ignoranza siamo soggetti … dei gabelloti. Noi vogliamo che i nostri figli imparino a leggere e scriv…’. Poi gli spari e le grida di terrore dei contadini e dei loro familiari. Salvatore Giuliano e la sua banda, appostati sul monte Pelavet, avevano iniziato a sparare sui manifestanti, inizialmente furono scambiati per i tradizionali mortaretti della festa, poi il terrore s’impadronì della folla.
Foto da esperonews.it
Quel Primo maggio sul prato di Portella furono assassinati Margherita Clesceri (37 anni), Giorgio Cusenza (42 anni), Giovanni Megna (18 anni), Francesco Vicari (22 anni), Vito Allotta (19 anni), Serafino Lascari (15 anni), Filippo Di Salvo (48 anni), Giuseppe Di Maggio (13 anni), Castrense Intravaia (18 anni), Giovanni Grifò (12 anni), Vincenza La Fata (8 anni). Altri 27 rimasero feriti. Serafino Pecca, sopravvissuto alla strage ricorda‘Quella mattina siamo saliti qua, nel 1947, cominciò a parlare il segretario della Camera del lavoro, ha detto poche parole e iniziarono i primi spari’. Ed ancora: ‘Cercavamo un diritto che ci apparteneva, possibile che qui quattro o cinque persone che avevano mille ettari, chi duemila, chi di più con la gente che moriva di fame. Il giorno dopo, chiamato a riferire davanti all’Assemblea costituente sui fatti avvenuti a Portella della Ginestra, il ministro dell’Interno Mario Scelba disse che dietro alla strage ‘non c’era nessuna finalità politica o terroristica’. Ci vollero mesi per individuare in Salvatore Giuliano e nella sua banda gli esecutori materiali. I nomi dei mandanti sono invece ancora un segreto di Stato. Di certo quel giorno, oltre a sopprimere con la violenza un altro tentavo di emancipazione del popolo siciliano, ebbe inizio lastrategia della tensione che, nei decenni successivi, impedirà alla Sinistra italiana di accedere al governo del paese.

Fonti: wikipedia.it, osservatoriorepressione.it e yuotube.it



martedì 20 marzo 2018



#21marzosocialday per ricordare le vittime innocenti della mafia

La Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie organizzata dall’associazione Libera quest’anno si terrà sul tema ‘Terra, solchi di verità e giustizia’

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da libera.it
L’iniziativa si terrà a Foggiama, com'è già avvenuto nel 2016 a Messina e lo scorso anno a Locri, sarà replicata simultaneamente in migliaia di luoghi d’Italia, dell’Europa e dell’America Latina. Durante la manifestazione saranno letti gli oltre 900 nomi di vittime innocenti delle mafie. ‘Per contrastare la criminalità organizzata e la corruzione – si sottolinea nel comunicato dell’associazione - occorre sì il grande impegno delle forze di polizia e di molti magistrati, ma prima ancora occorre diventare una comunità solidale e corresponsabile, che faccia del noi non solo una parola, ma un crocevia di bisogni, desideri e speranze. Volti di un Paese magari imperfetto, ma pulito e operoso, che non si limita a constatare ciò che non va, ma si mette in gioco per farlo andare’.
Nel 2016 oltre 350.000 persone si ritrovarono nelle piazze, nelle scuole, nelle parrocchie ed associazioni per partecipare alla Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie che l'associazione Libera di Don Ciotti celebra dal 1996, ogni 21 marzo, primo giorno di primavera ‘simbolo di rinascita’.
Il #21marzosocialday è un'occasione per ‘costruire nel Paese una memoria responsabile e condivisa che dal ricordo può generare impegno e giustizia sociale’.

Fonte: libera.it 



giovedì 1 marzo 2018

'La Madre terra’ di Epifanio Li Puma


Era il due marzo del 1948 quando nei terreni di Alburchia, feudo del marchese Pottino, tra Petralia Soprana e Gangi, due sicari della mafia agraria delle Madonie uccisero Epifanio Li Puma 

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Portella della Ginestra - (foto da repubblica.it)
Dirigente del movimento per l’occupazione delle terre, Epifanio Li Puma, è stato assassinato davanti al figlio undicenne mentre lavorava il suo pezzo di terra. Allora i contadini siciliani lavoravano da ‘suli a suli’, dall’alba al tramonto per guadagnarsi un pezzo di pane e garantire la sopravvivenza alla loro famiglia. I suoi mandanti, nonostante fossero stati denunciati, non pagarono mai per la sua morte. 
Mezzadro d’idee antifasciste, Li Puma, è stato uno dei promotori della cooperativa ‘La Madre terra’,costituita per rendere operativi i decreti Gullo. La normativa regolava la concessione  delle terre incolte ai contadini. Avrebbe dovuto costituire una tappa importante nella storia del Mezzogiorno e della lotta per l’abolizione del latifondo. L’obiettivo era eliminare una delle principali cause di sottosviluppo del Sud e delle condizioni di povertà del popolo siciliano.
Petralia Soprana - (foto da typicalsicily.it)
Ma, di fronte alle legittime pretese dei contadini, la reazione dei latifondisti e della criminalità agraria, assecondata dai politici collusi e da membri infedeli delle istituzioni, è stata feroce. In quegli anni decine di sindacalisti o di semplici contadini che presero parte all'occupazione delle terre e che lottarono per l'emancipazione del popolo siciliano furono assassinati. Omicidi spietati come quello di Epifanio Li Puma a Petralia Soprana, Salvatore Carnevale a Sciara, Placido Rizzotto e Giuseppe Letizia a Corleone o stragi di civili innocenti come i contadini ed i loro familiari mentre festeggiavano il Primo maggio a Portella della Ginestra.
Epifanio Li Puma - (foto da wikipedia.org)
Il 17 marzo 1948, una settimana dopo il rapimento di Placido Rizzotto (quando ancora non si sapeva della sua morte), ecco cosa scriveva Girolamo Li Causi sulle colonne dell’Unità. Il delitto per ammissione stessa delle autorità, è politico: tutti sanno chi lo ha premeditato, organizzato ed eseguito. Anche la polizia lo sa. Li Puma veniva freddamente atterrato da due briganti della banda di Dino, banda che vive grazie alla complicità dei baroni che le assicurano ospitalità, sussistenza, protezione. Niente giustifica l’efferato delitto. Li Puma, padre di nove figli, contadino poverissimo aveva trascorso tutta la sua esistenza lavorando la terra, dirigendo la lega contadina di Petralia, organizzando la cooperativa “La Madre terra” che da tre anni è in lotta con i signori feudali per il possesso meno precario della terra, per più umane condizioni di esistenza. Dal Marchese proprietario, al campiere che indica ai banditi la vittima perché non sbaglino, ai sicari rotti ad ogni delitto la catena è limpida. Ma la polizia come già per altre decine di contadini capilega trucidati in questi ultimi mesi non vuole scoprire i mandanti e archivia le pratiche.
Quella Sicilia in chiaroscuro, della sopraffazione e dell’egoismo, dell’orgoglio e dall’altruismo, esiste ancora oggi e non solo nelle campagne delle Madonie o dei Nebrodi. Ma come disse Giovanni Falcone: 'La mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà anche una fine'. Solo e soltanto allora la terra del sole e del profumo di zagara, del mare e dei monti, dei poveri e degli onesti potrà emanciparsi è diventare quella ‘Madre terra’ che sognava e per cui ha dato la vita Epifanio Li Puma.

Fonti: rassegna.it e agrariadotme.worpress.com






venerdì 26 gennaio 2018



Liliana Segre: ‘Il mio numero 75190 non si cancella, è dentro di me ...’ (dall’arrivo nel campo di Auschwitz alla liberazione)

‘Dopo aver abitato nella città artificiale del male assoluto è ancora possibile vivere, amare, sentirsi umani e – cosa più incredibile – liberi dalla tentazione di odiare per sempre’, Liliana Segre

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Liliana Segre con il padre Alberto - (foto da wikipedia.org)
Vivevamo in una promiscuità assoluta, dormivamo in cinque o sei in un ripiano di quei tavolacci a castello … Era un brulicare degli insetti più schifosi che ci venivano addosso e s’infilavano tra le cuciture dei vestiti. La sporcizia regnava nel lager. Dormivamo vestite, sia per il freddo sia perché le nostre compagne più vecchie e più furbe ci avrebbero rubato i vestiti che erano preziosa merce di scambio’.
‘Dopo l’appello che durava a lungo nella neve - un’ora, due ore - … uscivamo in fila dal campo al suono dell’orchestra che accompagnava, sinistra, anche le esecuzioni. E con una marcia forzata arrivavamo alla fabbrica Union … Gli industriali tedeschi hanno beneficiato per anni di manodopera non pagata … I nostri datori di lavoro potevano contare su un ricambio continuo: quando una di noi cadeva a terra, sfinita, e non si rialzava più, arrivava subito un’altra ragazza-nulla a rimpiazzarla. E’ così all’infinito … La maggior parte … sono morte a causa dei lavori più tremendi: scavare buche conficcando la vanga nella terra ghiacciata, mentre un altro gruppo le richiudeva subito dopo; caricare un camion di pietre mentre un altro gruppo le scaricava nello stesso punto. Lavori persecutori, ideati affinché gli stück, i pezzi, durassero il meno possibile’.
Il libro 'Sopravvissuta ad Auschwitz'
I Musulmünner -  ‘… erano prigionieri, sia uomini che donne, la cui mente giungeva a un punto di non ritorno e loro si lasciavano morire. Sceglievano di non mangiare neanche quel pochissimo che ci veniva dato, sul quale invece noi ci gettavamo come pazze. Si sbottonavano la divisa quando nevicava e camminavano per il campo, non ordinati come invece stavamo noi – incolonnate, ubbidienti per sopravvivere: vai al lavoro, torna dal lavoro, vai alla doccia, vai alla baracca, esci dalla baracca, resta in riga e sull’attenti per l’appello – ma non potendo più avere freni inibitori, vagavano finché non cadevano a terra. Quando non morivano di morte naturale o di freddo, a finirli era il calcio del fucile di qualcuno che decideva di mettere fine a quello strazio. Era l’ultimo gradino contrapposto ai Kapos: tra il Kapos e il Musulmann c’era un’infinità di sistemi di sopravvivenza intermedi. C’era il furbo, che faceva piccoli affari nel campo; quello che si rendeva servile con l’aguzzino, magari sapeva il tedesco e si trasformava in un servo delle SS … Eravamo isole di dolore e di disperazione che non vivevano nei pensieri di nessuno’.
La selezione - '... le Kapos ci chiudevano nelle baracche a gruppi, cinquanta - sessanta per volta. Poi ci portavano nel locale delle docce – quelle vere – nude - … e qui dovevamo sfilare una dietro l’altra attraversando una grande sala per uscire dall’altra parte. Sulla porta in fondo alla sala sedeva il piccolo tribunale di vita e di morte: un medico e due SS. Noi, nude col nostro corpo e nient’altro, dovevamo presentarci a questa giuria. …. Donne nude, scheletriche, che venivano esaminate davanti, dietro, in bocca, da uomini in divisa che spesso ordinavano: voltati di nuovo che non ti ho vista bene. Una femminilità annullata, completamente violataBestie al mercato, che venivano osservate, e quando una non andava più bene ci pensavano il gas e il crematorio a cancellarla dal mondo’.
Janine - … era francese, aveva ventidue o ventitre anni, occhi azzurri, voce dolce, ricciolini biondi e corti, appena ricresciuti dopo la rasatura.  Andata al gas ad Auschwitz in un giorno del 1944. Pensiamola un momento, perché nessuno, tranne me e gli aguzzini, conosce la fine che ha fatto Janine …
27 gennaio 1945 - La marcia della morte - ‘Si svolgeva nel buio: camminavamo quasi sempre di notte perché i nazisti non volevano far vedere neanche ai civili tedeschi le sembianze di queste migliaia di persone schiavizzate e annientate, che si spostavano a nord, sempre più a nord, man mano che i russi si avvicinavano … una lunga fila di disperati, che si buttavano come pazzi sugli immondezzai alle porte della città. Addentavamo ossa già spolpate, bucce piene di terra, torsoli marci, letamai dell’immondizia dei tedeschi … Cammina, cammina, altrimenti muori … Cammina non cadere altrimenti ti uccidono. La vita è fatta così: se cadi qualcuno ti calpesta e ti uccide moralmente: bisogna sempre avere la coscienza che siamo fortissimi e che ce la faremo … Eravamo alla fine, ci rendevamo conto che, se non ci avessero ucciso i nostri aguzzini, saremmo comunque morte nel giro di una decina di giorni’.
1° maggio 1945 - La fuga degli aguzzini e la liberazione - ‘Li guardavamo sbalorditi: cosa fanno?. Si mettono in mutande le SS vicino a noi si spogliano, si rivestono da civili e tornano a essere signori qualsiasi, quelli della banalità del male (come scrisse Hannah Arendt, non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali) … Il comandante di quell’ultimo campo, crudele assassino, camminava vicino a me – non ho mai capito il suo nome, era un uomo alto ed elegante – si spogliò, rimase in mutande, si rivesti da civile. Tornava a casa dai suoi bambini e da sua moglie. Certamente non si accorgeva della mia presenza perché io ero unastück, un pezzo. Quando butto la pistola ai miei piedi, con tutto l’odio che avevo dentro pensai per un istante: adesso mi chino, prendo la pistola e in questa confusione assoluta lo ammazzo. Mi ero nutrita a lungo solo di malvagità e di vendetta. Pensai che sparargli fosse l’azione giusta nel momento giusto, il giusto finale di quella storia di cui ero stata protagonista e testimone. Ma fu un attimo … Non avrei mai potuto raccogliere la pistola e sparare al comandante di Malchow. Io avevo sempre scelto la vita. Quando si fa questa scelta non si può togliere la vita a nessuno. E’ da quel momento sono stata libera’.
  
Fonte: Sopravvissuta ad Auschwitz di Emanuela Zuccalà e wikipedia.org


giovedì 25 gennaio 2018

Liliana Segre: ‘Il mio numero 75190 non si cancella: è dentro di me …’ (dalle leggi razziali del 1938 all’arrivo nel campo di Auschwitz)


‘Nelle notti terse scelsi una piccola stella nel cielo, e mi identificai con lei. Io non ero ad Auschwitz: mi ero fusa con quella stellina e pensavo: io sono quella stellina. Finché brillerà nel cielo io non morirò, e finché resterò viva io, lei continuerà a brillare. Ma non era vero … ’, Liliana Segre

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Liliana Segre, pochi giorni prima dell'arresto
(foto da corriere.it)
‘Ho ascoltato Liliana Segre una sera di qualche anno fa. Mi colpì subito il suo modo pacato e oggettivo di parlare di argomenti tremendi … Mi colpì anche la sua assenza di odio, il suo amore per la vita, la sua capacità di cogliere segni di vita anche in luoghi di morte’, così scrive il Cardinale Carlo Maria Martini nella presentazione del libro ‘Sopravvissuta ad Auschwitz’. Ecco alcuni brani che raccontano le vicende tragiche di una delle ultime testimoni della Shoah che pochi giorni fa è stata nominata senatrice a vita dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.
13 settembre 1938 – Viene emanato il provvedimento per la difesa della razza nella scuola fascista. ‘Alle scuole di qualsiasi ordine e grado, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere iscritti alunni di razza ebraica … E’ la prima di una serie di leggi che spogliano gli ebrei di ogni diritto civile e politico: è vietato loro studiare, insegnare, sposarsi con persone di razza ariana, possedere immobili e aziende … lavorare nella pubblica amministrazione, nelle banche e nelle assicurazioni, prestare servizio militare … Ero una bambina milanese come tante altre, di famiglia ebraica laica e agnostica: non avevo ricevuto nessun insegnamento religioso in casa. …. Non avevo mai sentito parlare di ebraismo quando, una sera di fine estate, mi sentii dire dai miei famigliari che non avrei più potuto andare a scuola ... Perché? Cos’ho fatto di male?, chiesi, e intanto mi sentivo colpevole, colpevole di una colpa che mi restava sconosciuta’.
Il libro Sopravvissuta ad Auschwitz
8 settembre 1943 - ‘Quando i tedeschi divennero padroni dell’Italia del Nord e nacque la Repubblica di Salò, alle leggi razziali fasciste, già severe ed umilianti, si sovrapposero quelle di Norimberga. Per la prima volta sentivamo quell’espressione:soluzione finale … Mio padre decise che io sarei andata via di casa ... Amici eroici, di quelli con la A maiuscola … persone semplici … le leggi di Norimberga, per chi nascondesse un ebreo, prevedevano la fucilazione immediata. Eppure queste due famiglie si occuparono di me, tennero nascosta la ragazzina ebrea con i documenti falsi’.
7 dicembre 1943 - Il tentativo di fuga in Svizzera - ‘... al comando di polizia, dopo una lunga attesa - senza dirci una parola, senza darci un bicchiere d’acqua né un pezzo di pane  – l’ufficiale di turno ci condannò a morte. Ci trattò con disprezzo estremo, disse che eravamo degli imbroglioni, che la Svizzera era piccola e non c’era posto per noi. Ci rimandava indietro. Cosa faceva quell’uomo? Non potevo crederci. … Mi buttai per terra abbracciandogli le gambe, lo supplicavo in ginocchio … Ci rimandava indietro sulla montagna, più o meno là dove eravamo scesi.
Il carcere di Varese - A tredici anni entrai da sola nel carcere femminile di Varese, separata da mio papà. Piangevo: ero una bambina … La Gestapo convocava di continuo gli uomini ebrei per sottoporli a interrogatori spietati: li picchiavano e li torturavano per sapere dov’erano i nostri soldi e per stanare i nostri amici e parenti che si erano nascosti … Mio papà tornava dall’interrogatorio, ci abbracciavamo, io capivo confusamente che non si doveva parlare perché ogni parola era una pietra. Eravamo due infelici che si stringevano al cuore l’una con l’altro, in un alternarsi di disperazione e speranza. Ma eravamo ancora insieme’.
30 Gennaio 1944 - La deportazione -  ‘Più di 6.000 ebrei italiani furono deportati ad Auschwitz. Siamo tornati in 363. In tempi così difficili come quelli, il sentimento di pietà verso un proprio simile, colpevole solo di essere nato, è un dono … e così furono i detenuti di San Vittore; sporchi, affacciati fuori dalle loro celle su quella balconata, che con benedizioni, con addii, con arrivederci, ci buttavano giù una piccola cosa qualunque, un’arancia, un paio di guanti, una sciarpa di lana, un pezzettino di cioccolato. Era oro liquido che scendeva su di noi: era la pietà. Ci gridavano: Vi vogliamo bene, fatevi coraggio. Non avete fatto niente di male’.
Il viaggio verso Auschwitz - ‘… per sei giorni questa umanità viveva stipata nel vagone con le sue miserie, con i suoi bisogni fisici, con i suoi odori di sudore, di urina, di paura. I ragazzi devono sapere, e quando si passa in una stazione qualsiasi e si vedono i vitelli o i maiali portasti al mattatoio, penso sempre che io sono stata uno di quei vitelli, uno di quei maiali, che nelle stazioni implorano acqua e nessuno gliela dà. Io lo so come ci si sente oltre i finestrini schermati dei treni merci. E il treno va, e si vedono passare stazioni e paesi stranieri … Non c’era più nulla da dire. Era il silenzio delle ultime cose, quando si è soli con la propria coscienza e la sensazione che stiamo tutti per morire. Quando stai per morire non puoi che tacere. La tua vita precedente ti passa come un film dentro la testa, e in te pulsa solo il bisogno di comunicare con gli occhi, alle persone che ami, un messaggio di addio in mezzo al quale ogni parola sarebbe di troppo’.
6 febbraio 1944 - il nostro treno si fermò ad Auschwitz, e il silenzio che aveva paralizzato l’ultima parte del nostro viaggio si sovrappose il rumore osceno degli assassini che aprivano le porte dei vagoni … Ci fu la selezione dell’arrivo …eravamo in 605 sul convoglio … fummo scelti per la vita in 128: 31 donne e 97 uomini. Gli altri si allontanarono sui camion e ai nostri occhi disorientati erano loro i fortunati, che non erano costretti a camminare in mezzo a quel freddo tremendo, dopo quel viaggio massacrante, e chissà verso dove’ (quella fu l'ultima volta che Liliana vide il padre che morì il successivo 27 aprile).
‘Il mio numero 75190 non si cancella: è dentro di me … Io sono il numero 75190. I nazisti volevano annullare l’identità delle migliaia di persone che non venivano mandate dalla stazione direttamente al gas, che dovevano rimanere vive finché potevamo lavorare, ma senza più il diritto all’identità. Diventavamostücke, pezzi. La parola donna non esisteva più … Vestite a righe, il braccio gonfio, uscimmo nella neve con gli zoccoli spaiati ai piedi … La vedete quella ciminiera là in fondo la fiamma accesa? E’ un crematorio: ci bruciano le persone dopo averle uccise con il gas. Per questo qui ad Auschwitz sentirete quest’odore dolciastro.: è la carne che brucia. Per questo qui ad Auschwitz la neve è grigia: c’è la cenere, nel vento di Auschwitz … Non vedrete mai più quelli che avete lasciato alla stazione: sono già passati per il camino. Sono cenere nel vento di Auschwitz’.

Fonte: Sopravvissuta ad Auschwitz di Emanuela Zuccalà e wikipedia.org 


venerdì 24 novembre 2017

Ipazia d’Alessandria, donna ‘martire della libertà di pensiero’


‘Ipazia rappresentava il simbolo dell'amore per la verità, per la ragione, per la scienza che aveva fatto grande la civiltà ellenica. Con il suo sacrificio cominciò quel lungo periodo oscuro in cui il fondamentalismo religioso tentò di soffocare la ragione’Margherita Hack

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Ipazia d'Alessandria, illustrazione del 1908
(Foto da wikipedia.org)
Gli atti di femminicidio hanno origini nella società patriarcale ed ancora oggi decine di migliaia di donne vengono assassinate o maltrattate dagli uomini. Ecco la storia di Ipazia, una donna che ebbe il torto di rivendicare la sua libertà e la sua indipendenza. Era l’otto marzo del 415 d.C. quando un gruppo di cristiani, i cosiddetti parabalani seguaci del vescovo d’Egitto Cirillo, ‘dall'animo surriscaldato, guidati da un predicatore di nome Pietro, si misero d'accordo e si appostarono per sorprendere la donna mentre faceva ritorno a casa. Tiratala giù dal carro, la trascinarono fino alla chiesa che prendeva il nome da Cesario; qui, strappatale la veste, la uccisero usando dei cocci. Dopo che l'ebbero fatta a pezzi membro a membro, trasportati i brandelli del suo corpo nel cosiddetto Cinerone, cancellarono ogni traccia bruciandoli. Questo procurò non poco biasimo al patriarca e alla chiesa di Alessandria. Infatti stragi, lotte e azioni simili a queste sono del tutto estranee a coloro che meditano le parole di Cristo’. Matematica, astronoma e filosofa, Ipazia apparteneva all’aristocrazia intellettuale ed aveva tutti i requisiti per succedere al padre nell’insegnamento nella comunità di Alessandria. Titolare di una cattedra pubblica, impartiva lezioni ’a chiunque volesse ascoltarla sul pensiero di Platone e di Aristotele e di altri filosofi’. Inoltre, com’era usanza in quei tempi, teneva riunioni ‘private’ nella sua dimora. La rabbia di Cirillo scoppiò proprio con la scoperta di questi incontri. Ipazia non anticipò, come sostengono alcuni storici, la rivoluzione copernicana, ma pagò con la morte il fatto che era una donna carismatica e popolare che 'osò' vivere al centro della vita culturale di Alessandria. Una persona colta assassinata per la sua intelligenza, il suo prestigio, la sua moralità e coerenza, per la sua capacità di influire sulla vita politica e sociale. E per gli 'ominicchi' non c’è un pericolo più grande di una donna che rivendica la sua libertà e la sua indipendenza.

Fonti: wikipedia.org e aforismi.meglio.it


lunedì 4 settembre 2017


La strage del rapido 904 e la ‘malagiustizia’



Il processo di appello per la strage del rapido 904, avvenuta il 23 dicembre del 1984, dovrà ricominciare

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

I rottami di uno dei vagoni del rapido 904 - Nel riquadro
Toto Riina - (Foto da meridionenews.it)
La notizia è di quelle che lasciano interdetti. Il processo per la strage del rapido 904 avvenuta il 23 dicembre del 1984 dovrà ricominciare perché il presidente della corte d’appello, Salvatore Giardina, tra poche settimane andrà in pensione. L’assurdità sta anche nel fatto che, oltre alle nuove testimonianze che si era deciso di ascoltare in appello, sarà necessario risentire tutti i testimoni ascoltati in primo grado. Inoltre, si tratta di un processo in cui l’unico imputato, Toto Riina, già condannato all’ergastolo in altri procedimenti, era stato assolto nel primo giudizio. Il rinvio a data da destinarsi è stato disposto in applicazione delle recenti modifiche apportate all’articolo 603 del codice di procedura penale (riforma Orlando) che obbliga il giudice, nel caso di appello richiesto dal pubblico ministero, a disporre la riapertura completa dell’istruttoria. Questa vicenda, oltre ad evidenziare l'incompetenza dei politici italiani e la lentezza dei processiè un esempio di ‘malagiustizia’ e di spreco di risorse pubbliche. Negli ultimi due decenni sono state fatte diverse riforme della giustizia, ma nessun ministro o tecnico ha mai proposto di inserire una norma che impedisca di rifare il processo ogni volta che cambia il giudice. I responsabili del dicastero della Giustizia che si sono susseguiti alla guida del ministero negli ultimi anni dovrebbero spiegare agli italiani, soprattutto ai familiari delle vittime, perché il procedimento non può proseguire con un altro giudice. Ad oggi l’unica cosa certa è che le 16 persone morte e le 260 che rimasero ferite nella strage avvenuta con una bomba esplosa sul treno che in quel momento si trovava in galleria sugli Appennini tra Firenze e Bologna rimangono, a distanza di 37 anni, senza giustizia.






lunedì 28 agosto 2017



Libero Grassi, un siciliano coraggioso che ha detto no alla Mafia

‘Non sono pazzo. Non mi piace pagare. Perché la rinunzia è una rinunzia alla mia dignità di imprenditore’, Libero Grassi  

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Libero Grassi - (foto da urbanpost.it)
I genitori gli diedero il nome di Libero in ricordo di Giacomo Matteotti ucciso a Roma dai fascisti il 10 giugno del 1924. Entrato in seminario durante gli anni della guerra così giustificò quella scelta: ‘Decisione questa presa non per una vocazione maturata nell'avversità della guerra, bensì per il rifiuto di combattere una guerra ingiusta al fianco di fascisti e nazisti’Finiti gli studi presso la facoltà di giurisprudenza dell’Università di Palermo prosegue l’attività di commerciante del padre e negli anni Cinquanta inizia quella imprenditoriale aprendo uno stabilimento tessile. Nel 1955 insieme alla moglie partecipa alla fondazione del Partito Radicale di Marco Pannella. Nel 1961 inizia l’attività politica nelle file del Partito Repubblicano Italiano. Candidatosi nel 1972 alle elezioni provinciali, non viene eletto. 
Foto da laspia.it
Preso di mira da Cosa Nostra, si rifiuta di pagare il pizzo e decide di denunciare gli estortori. Il 10 gennaio del 1991 il Giornale di Sicilia pubblica una sua lettera:Volevo avvertire il nostro ignoto estortore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l'acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere. Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al "Geometra Anzalone" e diremo no a tutti quelli come lui’Il 19 marzo del 1991 denuncia i fratelli Avitabile, ma nonostante le minacce rinuncia alla scorta. La mattina del 29 agosto del 1991, mentre si reca al lavoro viene ucciso con quattro colpi di pistola. Qualche mese dopo viene varato il Decreto con cui è stato istituito il fondo anti-racket di solidarietà per le vittime di estorsione. Nell’ottobre del 1993 vengono arrestati l’autore materiale dell’agguato Salvatore Madonia ed il complice Marco Favaloro. Con la sentenza del 18 aprile del 2008, il killer è condannato al 41-bis insieme a tutti i membri della Cupola di Cosa Nostra.
Nel febbraio del 1992 l’imprenditore siciliano è stato insignito della medaglia d’oro al valore civile, ecco la motivazione: ’Imprenditore siciliano, consapevole del grave rischio cui si esponeva, sfidava la mafia denunciando pubblicamente richieste di estorsioni e collaborando con le competenti Autorità nell'individuazione dei malviventi. Per tale non comune coraggio e per il costante impegno nell'opporsi al criminale ricatto rimaneva vittima di un vile attentato.Splendido esempio di integrità morale e di elette virtù civiche, spinte sino all'estremo sacrificio’.

Fonte wikipedia.org


venerdì 11 agosto 2017

12 agosto 1943 la divisione Hermann Göring irrompe a Castiglione di Sicilia 'sparando contro chiunque si parasse davanti'


Dimenticata fino al 2002 la strage nazifascista di Castiglione di Sicilia è la prima di una lunga serie di eccidi compiuti sul territorio italiano tra il 1943 ed il 1945 

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Carristi della divisione Hermann Goring
(foto da milocca.wordpress.com)
‘Nel corso dell'ultimo conflitto mondiale fu teatro di una feroce rappresaglia tedesca che provocò la morte di sedici civili ed il saccheggio di numerose abitazioni. 12 agosto 1943 - CastiglioneG di Sicilia (CT)’.E’ questa la motivazione con cui il 16 settembre del 2002 l’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, conferì alla cittadina siciliana la medaglia al valor civile.
Foto da sitocomunista.it
Il 12 agosto del 1943 il governo Badoglio non aveva ancora stipulato l’armistizio di Cassibile e, pertanto, l’Italia era ancora alleata della Germania nazista. Intanto, le truppe dell’asse erano già sbarcate in Sicilia ed incalzavano l’esercito tedesco e quello italiano. Nel corso della ritirata verso Messina la divisione Hermann Göring, considerata tra i maggiori responsabili dei crimini di guerra commessi in Italia dai nazisti, era accampata in contradaSciambro, nelle campagne di Castiglione di Sicilia. In quei giorni, i tedeschi requisirono tutto quello che poteva servire per raggiungere la città dello Stretto. Biciclette, carretti, animali da soma, armi e viveri, mentre i residente cercavano di difendere quel poco che gli rimaneva per sopravvivere.
Nella tarda serata del 10 agosto del 1943 fu rubato un camion tedesco carico di generi alimentari o, secondo un'altra tesi, furono uccisi cinque militari tedeschi. La reazione dei nazisti, qualunque sia stata la motivazione, non si fece attendere, all’alba del dodici ‘un ufficiale al comando di un autocarro con 40 militari scortati da un carro armato irruppero nella cittadina sparando contro chiunque si parasse davanti’. I soldati entrarono nelle case prendendo a calci gli uomini e percuotendoli con i fucili. ‘Una donna fu buttata giù da un balcone e lasciata sul selciato con le gambe rotte’. La spietatezza dell’azione di rappresaglia è raccontata nei dettagli in un articolo pubblicato il 4 ottobre 1943 sul Corriere di Sicilia da un testimone del tempo Nicola Tuccari: ‘Un giovane di diciassette anni giaceva sulla soglia di casa, accanto ad un settantenne, trascinandosi morente fin presso ad un letto; la stessa mano che aveva colpito uno nell'atto d'arrendersi, insistendo poi contro il corpo martoriato prono nel suo sangue, crivellò il capo canuto di un ottuagenario inebetito; e non si permise che un padre, ucciso a tradimento da dietro una porta, fosse sostenuto moribondo dal figlio che l'aveva visto colpire: il giovane ancora imbrattato del sangue paterno fu spinto fra gli ostaggi’.
Monumento in ricordo delle vittime del 12 agosto 1943
(foto da anpicatania.wordpress.com)
Al alcuni spararono perché tentavano di fuggire. Un uomo fu ucciso perché non rispettava l’ordine di non muoversi, ma il soldato tedesco non sapeva che aveva di fronte un sordomuto. La ferocia nazista durò mezz’ora, i morti furono 16 ed i feriti 20. Il commando prese in ostaggio con l’intenzione di fucilarli per rappresaglia circa 300 uomini, tra loro c’erano bambini ed anziani. Un testimone ricorda che furono rinchiusi per tre giorni in un torrione detto Cannizzu. Gli ostaggi furono liberati solo grazie alla mediazione di alcune suore che vivevano nell’Istituto Regina Margherita. Ecco cosa scrisse sui motivi dell’azione nazista suor Anna Amelia Casini dell’ordine delle figli di Sant’Anna: Siccome nel tempo in cui i tedeschi si trovavano a Castiglione... i paesani avevano ucciso cinque tedeschi perché devastavano le campagne e spadroneggiavano a più non posso..., quindi per cinque dei loro morti ne dovevano uccidere trecento’Suor Emilia racconta invece la trattativa per liberare i prigionieri: ‘L'interprete girava intorno al capitano con insistenza ripetendo le stesse parole: i colpevoli sono fuggiti! Ma il capitano gridava: cinque me ne hanno uccisi, fucilateli subito’. Rivela anche di essersi offerta di morire in cambio di tutti gli ostaggi. Quel gesto fece cambiare idea al comandante tedesco che decise di liberare i prigionieri.
La strage di Castiglione, oltre ad essere la prima in Italia, è dirimente anche perchè i comandanti dell’esercito italiano e delle autorità fasciste allora ancora alleati con i tedeschi non intervennero per impedire il massacro di civili inermi e, purtroppo, quello fu solo l’inizio di una lunga serie di eccidi nazifascisti che insanguinarono il nostro paese fino alla Liberazione, avvenuta il 25 aprile del 1945.

Fonte wikipedia.org


lunedì 24 luglio 2017

Ciciri o sciscirì?


‘Se mala segnoria, che sempre accorra li popoli suggetti, non avesse mosso Palermo a gridar: ‘Mora, mora!’, Dante Alighieri, da la Divina Commedia, canto VIII del Paradiso

Drouet trafitto dalla spada viene ucciso, da I Vespri Siciliani
di Francesco Hayez - (foto da wikipedia.org)
Nella chiesa di Santo Spirito erano soliti recarsi gli abitanti di Palermo. Erano uomini, donne, famiglie che volevano dimenticare le sofferenze e le angherie subite dall’occupante francese. Ma era proprio in queste occasioni che gli agenti della riscossione braccavano i debitori delle tasse, ammanettandoli e gridando.‘Pagate, paterini, pagate’Il 30 marzo del 1282 all’ora dei vespri un gruppo di fedeli a seguito dell’ennesima provocazione degli oppressori reagì dando avvio alla rivolta che ben presto si propagò in tutta l’isolaFurono i giorni dei Vespri siciliani.
Quel lunedì di Pasqua, all’imbrunire, un gruppo di angioini si mescolò ai credenti, ma, come accadeva spesso, essi iniziarono ad usare un comportamento poco licenzioso nei confronti delle donne. Alla reazione dei padri, fratelli e mariti, i francesi non solo insistettero, ma cominciarono a perquisire e percuotere i malcapitati. Uno di loro, un certo Drouet all’arrivo di una giovane sposa si avvicinò per vedere se aveva armi, iniziò a toccarla ed a frugare nei suoi vestiti, ma la poveretta per la vergogna cadde svenuta in braccio al marito, questi, indignato ed offeso, gridò: ’Ah, muoiano questi francesi’ ed impadronitisi della spada dello stesso Drouet lo trafisse con un solo colpo.
La tirscele diverrà il vessillo della Sicilia, formata dal giallo di
Corleone e dal rosso di Palermo - 3 aprile 1282
(foto da slideplayer.it)
Fu la scintilla che fece scoppiare la rabbia e l’odio represso dei siciliani nei confronti degli occupanti. In poco tempo dalla rissa si passo al linciaggio, spuntarono bastoni, coltelli e spade. Gli angioini furono sopraffatti e dopo una breve lotta caddero sanguinanti a terra. La sommossa si propagò in tutta la città guidata da un certo Ruggero Mastrangelo. Gli occupanti, impauriti tentarono la fuga, quelli che vennero catturati implorarono, inutilmente, pietà.  Fu una vera e propria caccia all’uomo, i rivoltosi frugarono nelle caserme, nelle case, nei magazzini. ‘Non furono sicuri nemmeno i ricoveri religiosi come i templi e i conventi dei Minori e dei Predicatori’.
La Pace di Cartabellotta assegnò la Sicilia agli Aragonesi e il
Meridione agli Angioini fino al 1442. I due regni si riunificarono
nel 1816 nel Regno delle due Sicilie.- (foto da slideplayer.it)
Si narra che quando i ribelli incontravano uno sconosciuto gli imponevano di pronunciare in dialetto siciliano la parola ‘ciciri’ (in italiano ceci),  i malcapitati che la storpiavano in ‘sciscirì’,usando cioè la pronuncia francese, venivano riconosciuti e passati per le armi. Gli atti di violenza furono così atroci che ‘alle madri furono strappati e uccisi i lattanti generati dai francesi e alle siciliane ingravidate - scrive lo storico Amari - gli aprivano il corpo facendo scempio del frutto di quel mescolamento di sangue tra oppressori e oppressi’. La strage continuò tutta la notte, sino a quando in città non vi fu più alcun francese. Si calcola che quel giorno caddero tra i duemila e i quattromila angioini, i cui corpi furono sepolti in fosse comuni. A Palermo ancora oggi una colonna sormontata da una croce ricorda il luogo di una di quelle sepolture. All’alba del giorno dopo il popolo siciliano dichiarò Palermo libera dalla dominazione angioina e stabilì di federarsi insieme agli altri comuni e di mettersi sotto la protezione della Chiesa. Ma Papa Martino IV, eletto con il sostegno dei francesi, si rifiutò di patrocinare l’indipendenza dell’isolaIntanto, Carlo d’Angio nel tentativo di sedare la rivolta promise numerose riforme, ma, successivamente, decise di intervenire militarmente. I nobili siciliani allora offrirono la corona agli Aragona. Ci furono vent’anni di guerre. Il primo accordo fu raggiunto tra Carlo II d’Angio e Federino II d’Aragona il 31 agosto del 1302, con la pace di Cartabellotta che assegnò la Sicilia agli Aragonesi ed il resto del Meridione agli Angioini.
I Vespri, oltre ad aver dato inizio al lungo legame tra l’isola e gli Aragona, hanno rappresentato uno degli episodi più significativi nella storia della Sicilia. ‘Amara terra mia e bella’ cantava Domenico Modugno, ed ancora oggi è così. I siciliani, perennemente sotto il domino straniero e, dopo l’Unità d’Italia, sotto il giogo mafioso, hanno tentato più volte nel corso della storia di emanciparsi senza riuscire mai a concretizzare ‘quel fresco profumo di libertà’ auspicato da Paolo Borsellino e, di conseguenza, non hanno mai beneficiato di una vera autonomia politica, economica e sociale.

Fonte: wikipedia.org


lunedì 22 maggio 2017

Era il tardo pomeriggio del 23 maggio del 1992 quando...


‘Che le cose siano così, non vuol dire che debbano andare così, solo che quando si tratta di rimboccarsi le maniche ed incominciare a cambiare, vi è un prezzo da pagare, ed è, allora, che la stragrande maggioranza preferisce lamentarsi piuttosto che fare.’ Giovanni Falcone

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Giovanni Falcone (foto da liberiamo.it)
Era il tardo pomeriggio del 23 maggio del 1992 quando arrivò la notizia dell’attentato dinamitardo a Giovanni Falcone e alla sua scorta. La radio, la televisione ed il semplice passaparola, dando voce all’evento, diffusero nell’aria un senso di smarrimento e di paura, quella che ti fa pensare che tutto sia finito, che la speranza sia morta per sempre, che il male sia prevalso e che ogni altro tentativo di azione volta al bene comune sia inutile. L’incredulità si mescolò con l’angoscia. Le primi immagini televisive del tratto di autostrada che attraversa Capaci, ridotta ad un campo di battaglia, si confusero con la tenue speranza che il Giudice fosse ancora vivo, che fosse in grado di superare anche quel terribile momento, poi, tragico, giunse il comunicato ufficiale della morte di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo, degli uomini della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonino Montinaro. Tutto successe in un attimo, un tuffo al cuore ed una tristezza infinita ci presero, un siciliano che aveva avuto coraggio non c’era più, gli uomini che custodivano le sue idee non c’erano più, la donna che lo aveva amato per tutta la vita non c’era più, la speranza di una Sicilia onesta non c’era più. Sembra ieri, invece sono trascorsi 25 anni da quel tragico pomeriggio ed ancora oggi mi chiedo come sia stato possibile che degli uomini, dei siciliani come me, abituati da sempre a vivere il sole, il mare, l’odore di zagara, il profumo dei limoni e delle arance, in una terra ospitale che sa accogliere chi non ha nulla e che vive di una cultura millenaria, possano aver concepito ed eseguito un atto così orribile. Eppure esistono, i ‘Stuppagghieri’ sono sempre esistiti e, adesso come allora, continuano a prevaricare altri uomini, a sfruttarli, a vivere del sudore del lavoro delle persone perbene e ad ucciderli se questi osano reagire. Ma, nonostante tutto questo, non dobbiamo dimenticare, mai, le parole rivolte da Giovanni Falcone a tutti i siciliani onesti: ‘Chi tace e chi piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e chi cammina a testa alta muore una volta sola.’ Ed ancora: ‘Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini.’

giovedì 26 gennaio 2017

‘Il numero non era, ormai, che il nostro unico nome, io divenni il n. 75181’


‘Il dottor Mengele era l’anima nera del lager, un sadico crudele e spietato, che si divertiva a torturare migliaia di vittime con i suoi tenebrosi ‘esperimenti’

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)


Auschwitz - (foto da wikipedia.org)
Nel dicembre del 1943 Sofia Schafranov, medico di origine russa, fu arrestata a Sondalo in provincia di Sondrio. Dopo alcuni giorni di prigionia trascorsi a San Vittore fu deportata ad Auschwitz insieme ad altri 1200 ebrei italiani. Ecco alcuni brani tratti da I campi della morte’ che narrano il suo calvario durato due anni, fino alla liberazione avvenuta il 15 maggio del 1945.
Il Revier. ‘Io e Bianca Marpurgo fummo destinate al Revier o lazzaretto di Birkenau… Quelle ammalate non erano che dei cadaveri viventi, quando erano viventi; degli esseri in cui non vi era più nulla di umano, all’infuori di un disperato sconforto dipinto sui volti macilenti ed esangui ….. Erano tutte giovani donne dai diciotto ai venticinque anni, ma non avevano più età; erano tutte coperte di ascessi, di ulcere, di eczemi purulenti, prodotti dalla scabbia; la loro pelle era una sola crosta ……. Altre presentavano in varie parti della persona, soprattutto nelle gambe, morsicature paurose; erano state azzannate dai feroci cani di scorta, mentre, recandosi al lavoro, cadevano a terra estenuate. Di queste infelici ne arrivavano al reparto da dieci a venti al giorno. Almeno trenta disgraziate giacevano già morte sulle cuccette e accanto ai cadaveri giacevano quelle che ancora erano in vita.
Stazione di Milano - Binario 21
(foto da michele-ciani.com)
La macellaia. ‘Ed io ho visto come, con i mezzi di cui disponeva, ella curava le sue ammalate. Tagliava gli ascessi con un semplice coltello da cucina, operando come una macellaia, sotto gli urli disperati delle pazienti. Ma si era abituata anche lei a questa specie di assassinio premeditato’.
Le selezioni. ‘Per sfoltire il Revier, di quando in quando, solitamente ogni settimana o dieci giorni, si procedeva alle ‘selezioni’. I medici tedeschi passavano rapidamente in rassegna le ammalate e, talvolta basandosi sui rapporti delle dottoresse, più spesso al loro proprio giudizio, facevano piazza pulita condannando le incurabili alla cremazione’.
Copertina del libro - (foto da paolinestore.it)
‘Il dottor Mengele, sui trentacinque anni, biondo anche lui, alto, robusto, di bella presenza, ma con nel volto ben pasciuto e nello sguardo sfuggente qualcosa di repulsivo. Quando egli parlava, non guardava mai in faccia i suoi interlocutori, quasi temesse che nei suoi occhi si potessero leggere chissà quali mostruosi segreti. Era l’anima nera del lager, un sadico crudele e spietato , che si divertiva a torturare migliaia di vittime con i suoi tenebrosi ‘esperimenti’. Sembrava che fosse specializzato, soprattutto, in ricerche scientifiche sui gemelli ….  Per noi, il dottor Mengele era un orco. Quando egli giungeva nel Block, io e le mie colleghe c’impalavamo sugli attenti e abbassavamo riverenti il capo alle sue contumelie. … le selezioni  a cui egli presiedeva erano spietate …'.
‘Alle camere di asfissia erano addetti dei deportati che eseguivano la macabra incombenza non certamente per loro volontà, tanto più che il loro ufficio durava soltanto due mesi durante i quali erano tenuti segregati, per poi finire essi pure in quelle stesse camere ed essere sostituiti da altri operatori, perché il segreto di quelle camere e di quelle torture non  trapelasse ….. Veniva simulata una doccia alle vittime, per quanto queste sapessero, ormai, di che genere di doccia si trattasse, si fornivano perfino un asciugamano e un pezzo di sapone; dopo di che, erano fatte denudare e venivano cacciate in basse camere di cemento, ermeticamente chiuse: venticinque o trenta persone per camera. Al soffitto erano applicati dei rubinetti, da dove, invece di acqua, era irrorato del gas tossico. Spesso, l’irrorazione era scarsa e l’azione del gas non era abbastanza efficace, cosicché le vittime venivano gettate nei forni ancora vive’. La liberazione. ‘Non si vedevano più che poche tedesche, ed erano diventate tutte, improvvisamente, gentili e servizievoli. C’erano delle volte in cui ero perfino la ‘signora dottoressa’. Poi, un bel giorno, scomparvero esse pure. Era il 15 maggio. Vi sono delle date che restano impresse in eterno nella memoria. A Milano, nessuno dimenticherà mai la data del 25 aprile; io non dimenticherò mai quella del 15 maggio. Né dimenticherò quell’istante in cui alcune donna irruppero nel Block, in cui io mi trovavo, e ci annunziarono, piangendo, che erano arrivati gli americani. .... Eravamo salve; anzi, eravamo salvi: perché non c’erano più campo maschile e campo femminile: c’era una sola moltitudine in festa, che benediva la libertà riconquistata, che ritrovava la propria dignità umana, che invocava – e invoca ancora – giustizia e vendetta’.

venerdì 20 gennaio 2017

I Fasci siciliani dei lavoratori e la strage di Caltavuturo


‘Un bastone tutti lo rompono, ma un fascio di bastoni chi lo rompe?’, così un dirigente dell’associazione spiegò il nome dei Fasci dei lavoratori, il movimento popolare che si è sviluppato in Sicilia tra il 1891 ed il 1894 

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Il largo dove avvenne la strage di Caltavuturo 
il 20 gennaio 1893 (foto da palermo.anpi.it)
I Fasci siciliani dei lavoratori erano un movimento di massa d’ispirazione ‘socialista’, ma che avevano un chiaro intento ‘secessionista.’ Gli storici affermano che vi presero parte tra i 300 ed i 400 mila siciliani su una popolazione di circa 3 milioni e 300 mila persone. Protagonisti non furono solo contadini ed operai, ma anche artigiani, insegnanti, professionisti. I braccianti, che da sempre erano pagati a giornata con miseri salari, ed i mezzadri, a cui toccava solo una piccola parte dei raccolti, chiedevano paghe più alte e migliori condizioni di lavoro. Allora si lavorava ‘suli a suli’, dal sorgere al calare del sole e spesso i braccianti dovevano fare diversi chilometri di strada per raggiungere i luoghi di lavoro. I partecipanti al movimento chiedevano anche il diritto di voto. Fin dal 1861, con la nascita dello Stato unitario esso era concesso solo all’1,9% della popolazione, su 22 milioni di italiani potevano esercitare tale diritto meno di 400 mila persone, quelle cioè che avevano un certo reddito e un titolo di studio.
Francesco Crispi
(foto da en.wikipedia.org)
I Fasci erano presenti in tutte le grandi città dell’isola ed operavano sul territorio in contrapposizione al potere esercitato dai gruppi mafiosi.Tra gli iscritti c’erano donne e ragazzi. A Modica c’era una sezione di ‘Figli del Fascio. A San Giuseppe Jato c’era un piccolo Fascio di ragazzi da 6 a 12 anni. A Grotte un ragazzo di 12 anni venne arrestato solo perché parlava pubblicamente di socialismo ai suoi coetanei. A Piana su una popolazione di 9.000 abitanti gli iscritti al Fascio erano 2.500 uomini e mille donne, la cui prima attività fu di imparare a leggere e scrivere. Ad una manifestazione una militante portabandiera affrontò i soldati che erano con le armi spianate dicendo: ’Avreste il coraggio di tirare contro di noi?’, i soldati abbassarono le armi. A Milocca (Milena) quando i membri del consiglio direttivo furono imprigionati, 500 donne assaltarono la caserma, s'impadronirono delle armi e liberarono i prigionieri. Il 20 gennaio 1893 a Caltavuturo, in provincia di Palermo, soldati e carabinieri spararono su 500 contadini che, di ritorno da un’occupazione simbolica di alcune terre del demanio, si erano limitati a chiedere un incontro con il Sindaco. ‘Picciotti, chi c’è carnivalata’, grido dalla finestra il segretario del Comune. Ci furono 13 morti e molti feriti. ‘I cadaveri furono lasciati sulla strada fino a notte, in pasto ai cani e non fu permesso di soccorrere i feriti’. Ci fu un’inchiesta per l’eccidio, ma il segretario comunale e gli altri impiegati dapprima sospesi furono successivamente reintegrati nell’incarico.
Processo ai capi dei Fasci siciliani, aprile 1894
(foto da wikiwand.com)
Il movimento fu disperso da un duro intervento militare del governo del siciliano Francesco Crispi, ma già nel 1893 Giolitti aveva ordinato una schedatura dei soci dei Fasci, fu la prima dello Stato italiano. I morti furono circa 90. Le condanne che seguirono furono pesantissime. I leader arrestati o mandati al confino.  Negli anni successivi in Sicilia ci fu un grande flusso migratorio.In un decennio circa un milione di persone partirono per il continente o all’estero. Le lotte dei contadini e della parte più povera della popolazione siciliana vennero, ancora una volta, soffocate nel sangue. I tentativi di emancipazione, oltre che con i Fasci del 1891, sono stati repressi nel 1860 ad opera delle truppe garibaldine, nel secondo dopoguerra con l’assassinio  di numerosi sindacalisti e, il primo maggio del 1947, con l’eccidio di Portella della Ginestra, ed ancora negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso con l’uccisione di magistrati e tutori dell’ordine ed oggi con il racket ed il controllo capillare del territorio da parte delle organizzazioni mafiose. L’obiettivo è sempre lo stesso: mantenere lo ‘status quo’ per assicurare il potere a ‘Cosa nostra’ e agli ‘amici degli amici’. Il tutto nell’indifferenza e, spesso, con la complicità delle istituzioni. Condizione, questa, che ha condannato la Sicilia al sottosviluppo economico e sociale ed i siciliani onesti a subire i soprusi e le angherie delle organizzazioni criminali.

martedì 2 agosto 2016

Merola: ‘c’è ancora da raggiungere la verità’

Nel 36mo anniversario della strage di Bologna compiuta dai neofascisti del Nar Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini ancora non si conoscono i mandanti 


di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni) 

Stazione di Bologna, 2 agosto 1980
Foto da wikipedia.org
‘Si son fatti dei passi avanti significativi, come l’approvazione del reato di depistaggio, ma c’è ancora da raggiungere la verità, e quindi la giustizia piena, per arrivare ai mandanti della strage nella stazione di Bologna’. A dirlo è il sindaco di Bologna Virginio Merola che stamane ha aperto la commemorazione per le vittime della strage della stazione del 2 agosto 1980, quando una bomba uccise 85 persone e ne ferì oltre 200. Ed ancora: ‘L'approvazione del reato di depistaggio è un passo significativo che testimonia l'impegno delle istituzioni per la nostra città. Bisogna trasformare il dolore di trentasei anni fa in consapevolezza, dare un senso a questo dolore, cosa di cui abbiamo bisogno anche rispetto a quello che sta succedendo nel mondo’.
Al corteo ha partecipato anche una delegazione islamica esponendo uno striscione con la scritta: ‘Contro tutti i terrorismi’. Il presidente della comunità islamica di Bologna, Yassine Lafram, ha dichiarato: ‘Vogliamo partecipare per dire che il terrorismo non può trovare giustificazione, è un comportamento umano irrazionale. Sentivamo il bisogno di esserci, per ribadire la nostra condanna a ogni forma di terrorismo’.

sabato 23 aprile 2016


Placido Rizzotto: ‘il partigiano che morì di mafia’

Dopo la seconda guerra mondiale numerosi sindacalisti siciliani furono assassinati dalla mafia, tra loro Placido Rizzotto, ma non tutti sanno che il giovane corleonese fece parte della Resistenza e che è stato insignito della medaglia d’oro al merito civile

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

25 aprile 1945 – I partigiani sfilano per le strade 
di Milano (foto da wikipedia.org)
Primo di sette figli, Placido Rizzotto nasce a Corleone il 2 gennaio del 1914. Perde la madre quando era ancora bambino, dopo l’arresto del padre, accusato di mafia, fu costretto ad abbandonare la scuola per occuparsi della famiglia. Durante la Seconda guerra mondiale prese servizio presso il Regio esercito sui monti della Carnia, in Friuli Venezia Giulia.
L’8 settembre del 1943 si trova nel Nord Italia. Da tesserato clandestino del Psi si unì ai partigiani delle Brigate Garibaldi. L’esperienza nella Resistenza lo cambiò. Matura nel giovane contadino corleonese una coscienza sociale che lo fa riflettere sulle ingiustizie sociali che i siciliani devono subire quotidianamente.
Alla fine della guerra torna in Sicilia, dove ricopre la carica di presidente dell’Anpi di Palermo e quella di segretario della Camera del lavoro di Corleone. Milita nel Partito socialista italiano diventando segretario della sezione locale.
Occupazione delle terre a Corleone – 1949/1950  
(foto da medea.provincia.venezia.it)
Si batte per l’applicazione dei ‘Decreti Gullo’ che prevedevano di assegnare in affitto alle cooperative dei contadini le terre incolte dei proprietari agrari. Insieme con loro occupa le terre ed inizia a distribuire quelle tenute incolte dalla mafia.
La sera del 10 marzo del 1948, mentre si recava da alcuni compagni di partito venne rapito ed ucciso dalla mafia (tra loro c’era Luciano Liggio). Aveva appena trentaquattro anni. Il giovane pastore Giuseppe Letizia assistette all’omicidio e vide in faccia gli assassini. Per questo motivo fu ucciso anch’egli con un’iniezione letale dal boss e medico Michele Navarra.
Il corpo di Rizzotto è stato ritrovato solo il 7 settembre del 2009 nelle foibe di Rocca Busambra, presso Corleone, ed identificato con l’esame del Dna il 9 marzo del 2012. Le esequie solenni si sono svolte ben sessantaquattro anni dopo la sua morte, il 15 maggio del 2012.
Scrisse Antonio Gramsci: ‘odio chi non parteggia, odio gli indifferenti’. Il giovane segretario della Camera del lavoro di Corleone è stato assassinato proprio perché era un partigiano, ‘un esempio di rettitudine e coraggio’, un uomo libero che ha dedicato la sua breve vita a difendere i più deboli e gli ultimi.

Ubicazione: Sicilia, Italia 

sabato 19 marzo 2016


Don Pino si voltò, sorrise ai suoi assassini e disse: ‘Me l’aspettavo’

La XXI edizione della Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime delle mafie quest'anno si svolgerà a Messina sul tema ‘Punti di memoria, luoghi di impegno’

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Lunedì prossimo, in diverse città saranno letti i nomi delle vittime innocenti delle mafie. Il primo nome dell’elenco, che comprende oltre novecento vittime, è quello di Emanuele Notarbartolo, ucciso a Termini Imerese il 1° febbraio del 1893 e termina con Domenico Martimucci, calciatore dell’Acd Castellaneta, morto, dopo cinque mesi di agonia, a seguito di un attentato dinamitardo alla sala giochi Green Table di Altamura, in provincia di Bari.
Giuseppe Di Matteo in una foto scatta durante la prigionia (ansa.it)
Tra le tante vittime innocenti c’è Giuseppe Di Matteo, ucciso per ‘tappare’ la bocca al padre Santino che aveva fatto i nomi degli autori della strage di Capaci. Il piccolo Giuseppe fu rapito il 23 novembre del 1993 mentre si trovava al maneggio di Altofonte. Secondo le deposizioni fatte da Gaspare  Spatuzza, che prese parte al rapimento, i sequestratori travestiti da carabinieri convinsero il piccolo Giuseppe a seguirli con la promessa che avrebbe rivisto il padre che, per la sua collaborazione, era sotto protezione. ‘Agli occhi del bambino – ha dichiarato il pentito - siamo apparsi degli angeli, ma in realtà eravamo dei lupi’.
Il rapimento, durato 779 giorni, era finalizzato a spingere Santino Di Matteo a ritrattare le sue dichiarazioni sulla strage di Capaci e sull’uccisione di Ignazio Salvo. Il pentito non si piegò al ricatto e continuò la sua collaborazione con le autorità giudiziarie. L’11 gennaio del 1996, su ordine di Giovanni Brusca, il piccolo Di Matteo, che allora aveva appena 15 anni, fu ucciso e poi sciolto nell’acido
Don Pino Puglisi
Il 15 settembre del 1993, giorno del suo 56° compleanno, don Pino Puglisi intorno alle 22,45 era appena sceso dalla sua Fiat Uno bianca e si stava avvicinando al portone di casa quando qualcuno lo chiamò, lui si voltò, sorrise ai suoi assassini e disse: ‘Me l’aspettavo’, subito dopo Salvatore Grigoli, killer della mafia gli sparò un colpo alla nuca. 
Un uomo di fede se ne andato così, senza nessun timore verso chi, accecato dall’odio, ha sparato senza esitazione. Don Pino era un uomo mite, ed è morto per la sua testardaggine a credere che un’altra Sicilia sia possibile e che l’amore e la giustizia prima o poi trionferanno. Un ‘Santo’ che forse i siciliani non meritano di avere.

martedì 26 gennaio 2016


Muselmann: ‘uomini in dissolvimento’, destinati a non ‘lasciar traccia nella memoria di nessuno’

Tra i sei milioni di deportati sterminati nei campi di concentramento c’erano i Muselmann, gli ultimi tra gli ultimi, uomini e donne rassegnati alla sorte a cui i nazisti li avevano destinati: le camere a gas 

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Häftling: ho imparato che io sono un Häftling. Il mio nome è 174517; siamo stati battezzati, porteremo finché vivremo il marchio tatuato sul braccio sinistro”, così Primo Levi definisce, in ‘Se questo è un uomo’, la sua condizione di deportato ad Auschwitz. I brani che seguono, tratti dalla stessa opera, sono un invito alla lettura ed un monito a non dimenticare la Shoah. 
“Voi che vivete sicuri nelle vostre tiepide case, voi che trovate tornando a sera il cibo caldo e visi amici: considerate se questo è un uomo. Che lavora nel fango, che non conosce pace, che lotta per mezzo pane, che muore per un sì o per un no. Considerate se questa è una donna, senza capelli e senza nome, senza più forza di ricordare, vuoti gli occhi e freddo il grembo, come una rana d’inverno. Meditate che questo è stato: vi comando queste parole. Scolpitele nel vostro cuore, stando in casa andando per via, coricandovi alzandovi, ripetetele ai vostri figli. O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi”.
Primo Levi
ARBEIT MACHT FREI (il lavoro rende liberi): “Siamo scesi, ci hanno fatti entrare in una camera vasta e nuda, debolmente riscaldata. Che sete abbiamo! Il debole fruscio dell’acqua dei radiatori ci rende feroci: sono quattro giorni che non beviamo. Eppure c’è un rubinetto: sopra un cartello, che dice che è proibito bere perché l’acqua è inquinata. Sciocchezze, a me pare ovvio che il cartello è una beffa, “essi” sanno che noi moriamo di sete, e ci mettono in una camera e c’è un rubinetto, e Wassertrinken verboten. Io bevo, e incito i compagni a farlo; ma devo sputare, l’acqua è tiepida e dolciastra, ha odore di palude. Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi di stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente. Come pensare? Non si può pensare, è come essere già morti. Qualcuno si siede per terra. Il tempo passa goccia a goccia”.
Deportati ad Auschwitz 
La selezione: “Il Blockältester ha chiuso la porta Tagesraum-dormitorio e ha aperto le altre due che dal Tagestraum e dal dormitorio danno all’esterno. Qui, davanti alle due porte, sta l’arbitro del nostro destino, che è un sottoufficiale delle SS. Ha a destra il Blockältester, a sinistra il furiere della baracca. Ognuno di noi, che esce nudo dal Tagesraum nel freddo dell’aria di ottobre, deve fare di corsa i pochi passi fra le due porte davanti ai tre, consegnare la scheda alla SS e rientrare per la porta del dormitorio. La SS, nella frazione di secondo fra i due passaggi successivi, con uno sguardo di faccia e di scheda all’uomo alla sua destra e all’uomo alla sua sinistra, e questo è la vita o la morte di ciascuno di noi. In tre o quattro minuti una baracca di duecento uomini è ‘fatta’ e nel pomeriggio l’intero campo di dodicimila uomini. Io confitto nel carnaio del Tagesraum, ho sentito gradualmente allentarsi la pressione umana intorno a me, e in breve è stata la mia volta. Come tutti, sono passato con passo energico ed elastico, cercando di tenere la testa alta, il petto in fuori e i muscoli contratti e rilevati. Con la coda dell’occhio ho cercato di vedere alle mie spalle, e mi è parso che la mia scheda sia finita a destra”.
La copertina della prima edizione di 'Se questo
è un uomo'. Ed. De Silva - Torino 1947
I Muselmann: ‘Esistono tra gli uomini due categorie particolarmente distinte: i salvati e i sommersi. Ma in Lager avviene altrimenti: qui la lotta per sopravvivere è senza remissione, perché ognuno è disperatamente, ferocemente solo. Se un qualunque Null Aschtzehn vacilla, non troverà chi gli porga una mano; bensì qualcuno che lo abbatterà a lato, perché nessuno ha interesse a che un ‘mussulmano’ di più si trascini ogni giorno; e se qualcuno, con un miracolo di selvaggia pazienza e astuzia, troverà una nuova combinazione per defilarsi dal lavoro più duro, una nuova arte che gli frutti qualche grammo di pane, cercherà di tenerne segreto il modo, e di questo sarà stimato e rispettato e ne trarrà un suo esclusivo personale giovamento; diventerà più forte, e perciò sarà temuto, e chi è temuto è, ipso facto, un candidato a sopravvivere. Nella storia e nella vita pare talvolta di discernere una legge feroce, che suona “a chi ha, sarà dato; a chi non ha, a quello sarà tolto”. Nel Lager, dove l’uomo è solo e lotta per la vita si riduce al suo meccanismo primordiale, la legge iniqua è apertamente in vigore, è riconosciuta da tutti. Con gli adatti, con gli individui forti e astuti, i capi stessi mantengono volentieri contatti, talora quasi camerateschi, perché sperano di poterne trarre forse più tardi qualche utilità. Ma ai mussulmani, agli uomini in dissolvimento, non vale la pena di rivolgere la parola, poiché già si sa che si lamenterebbero, e racconterebbero quello che mangiavano a casa loro. E infine, si sa che sono di passaggio, e fra qualche settimana non ne rimarrà che un pugno di cenere in qualche campo non lontano, e su un registro un numero di matricola spuntato. Benché inglobati e trascinati senza requie dalla fila innumerevole dei loro consimili, essi soffrono e si trascinano in una poca intima solitudine, e in solitudine muoiono e scompaiono, senza lasciar traccia nella memoria di nessuno.’

 

sabato 7 novembre 2015


‘Vitti ‘na crozza’ non è una canzone allegra

Sara Favarò nel suo libro ‘La messa negata, storia di Vitti ‘na crozza’ sostiene che la popolare canzone siciliana sia legata al mondo delle zolfatare e all’insensibilità della Chiesa cattolica 

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

‘Vitti ‘na crozza supra nu cannuni, fui curiusu e ci vosi spiari, idda m’arrispunnìu cu gran duluri, murivi senza toccu ri campani’.
Non c’è siciliano che non abbia intonato questa strofa almeno una volta ritenendola un canto d’amore, invece non è così. 'Vitti ‘na crozza' non è una canzone allegra, a sostenerlo nel suo libro ‘La messa negata, storia di Vitti ‘na crozza’ è Sara Favarò. La più celebre delle canzoni popolari siciliane narrerebbe una storia triste, legata al mondo delle zolfatare e alla scarsa ‘sensibilità’ mostrata dalla Chiesa cattolica per quanti perdevano la vita nelle miniere. 
Protagonista della canzone è ‘na crozza’, ossia un teschio che invoca degna sepoltura senza ottenerla e ‘u cannuni’ su cui sarebbe poggiato non è un pezzo di artiglieria bensì l’alterazione di ‘cantuni’, ossia l’ingresso della zolfatara.
Sara Favarò
“Pochi sanno che sono strofe drammatiche, che riportano al mondo delle zolfatare e ai minatori che morendo dentro le viscere della terra non erano degni di ricevere l’ultima benedizione in Chiesa”, sostiene la scrittrice siciliana. Fino agli anni Quaranta, la Chiesa cattolica negava la messa da morto per quanti perdevano la vita nelle miniere.
Tutto cambiò nel 1944 per opera di un sacerdote di Lercara Friddi, monsignore Aglialoro, che, a seguito della morte di undici minatori, decise di interrompere la tradizione e di dire messa scendendo giù nella cava per dare degna sepoltura a quanti non potevano essere esumati.
Al di là delle interpretazioni sul testo 'Vitti ’na crozza' racconta la ‘sicilianità’ che si manifesta nella rassegnazione di chi sa di non potersi riscattare e nello stesso tempo sa di essere legato ad una terra che opprime ma da cui è impossibile staccarsi, un cordone ombelicale che ti affama e ti inorgoglisce, che insieme è vita e morte come per i minatori sepolti vivi senza neanche un ‘tocco di campane’. 

venerdì 11 settembre 2015


11 settembre 1973, la strage di Pinochet in Cile

Tra gli eventi che hanno segnato una generazione c’è il colpo di Stato militare in Cile avvenuto l’11 settembre del 1973

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Il colpo di Stato in Cile avvenuto l’11 settembre del 1973 ha travalicato i confini dello Stato sudamericano. Nel 1970 viene eletto per la prima volta un socialista alla carica di presidente: Salvador Allende. Nonostante le difficoltà attua la riforma agraria e un vasto piano di nazionalizzazioni.
Allende subisce il boicottaggio economico statunitense, ma non perde la fiducia dell’elettorato ed ottiene l’affermazione anche nelle elezioni alla Camera del 1973.
La figura che abbatterà la democrazia cilena sarà quella di Augusto Pinochet, nominato un mese prima dallo stesso Allende come capo delle Forze armate. Il giorno del golpe, Allende non cederà, le sue ultime foto da vivo lo ritraggono con un elmetto e un mitra in mano. Il Presidente morirà negli scontri, chi dice assassinato, chi dice suicidato.
I giorni che seguiranno saranno tragici per il Cile. Nei diciassette anni di dittatura le vittime saranno almeno 32 mila.

martedì 8 settembre 2015


L’8 settembre del 1943 ebbe inizio il Secondo Risorgimento italiano

Quel giorno di settantadue anni fa decine di migliaia d’italiani aderirono alla lotta partigiana per la Liberazione del suolo italiano dall’occupazione nazifascista

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

“Il Governo italiano, riconosciuta l’impossibilità a continuare l’impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze armate anglo-americane. La richiesta è stata accolta. Conseguentemente, ogni atto di ostilità contro le forze anglo-americane deve cessare da parte delle forze italiane in ogni luogo. Esse però reagiranno ad eventuali attacchi da qualsiasi altra provenienza”. Con questo messaggio radiofonico diffuso l’otto settembre del 1943 il generale Badoglio comunicò l’armistizio dell’Italia con le forze anglo-americane.
Partigiani garibaldini in piazza San Marco a Venezia nei giorni della Liberazione
Quel giorno ebbe inizio il Secondo Risorgimento italiano, l’azione militare svolta dai movimenti politici italiani che si opposero al nazifascismo diede avvio alla Resistenza e alla lotta di Liberazione dell’Italia.
Comunisti, azionisti, monarchici, socialisti, cattolici, liberali, repubblicani, anarchici si organizzarono nel CLN, il Comitato di Liberazione Nazionale che alla fine della guerra diede vita anche ai primi governi dell’Italia liberata.
Fu guerra patriottica, ma anche insurrezione popolare spontanea, conflitto di classe e soprattutto lotta per la liberazione del suolo italiano dall’occupazione nazifascista.
L’8 settembre del 1943 è una data da ricordare perché quel giorno decine di migliaia d’italiani iniziarono a combattere ed in 100 mila persero la vita, e perché dal loro sacrificio ebbero origine la Repubblica italiana, l’Assemblea Costituente, la Costituzione, la democrazia e la libertà per tutto il popolo italiano.



mercoledì 12 agosto 2015

Il 12 agosto del 1944 le SS entrarono a Sant’Anna di Stazzema ed uccisero 560 persone inermi


A 71 anni di distanza i superstiti alla strage di Sant’Anna di Stazzema, intervistati dall’Espresso, ricordano i momenti più drammatici di quelle ore

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

I morti di Sant'Anna di Stazzema
Adele Pardini oggi ha 75 anni ma ne aveva appena quattro quando la mattina del 12 agosto del 1944 la 16/a divisioneReichsführer SS entrò a Sant’Anna di Stazzema ed inizio il massacro di 560 civili inermi. Ecco come ricorda quelle ore nell’intervista rilasciata al settimanale l’Espresso: “Ci presero. Ci misero al muro con altri. Nel cadere sotto i colpi delle mitragliatrici, la mamma aprì una porta. Mi ci infilai dentro e mi salvai. Per fuggire, dopo, dovetti camminare sul suo corpo. Si salvò anche mio cugino, Ilio Pardini, che da quel giorno divenne cieco per lo spavento”.
I bambini di Sant'Anna di Stazzema pochi giorni prima della strage
Tra i superstiti c’è Enio Mancini che all’epoca aveva solo sei anni e deve la vita ad un ‘nazista buono’. Rastrellato insieme ad altri dal borgo di Sennari fu messo in una colonna affidata ad un giovanissimo militare tedesco. Il soldato, rimasto solo con i prigionieri, ordinò di fare silenzio e di fuggire mentre diede una scarica di mitragliatrice in aria. “E’ importante trovare qualcuno che ha resistito al male quel giorno perché la scelta è sempre individuale. Gli ordini non valgono in assoluto. Non è obbligato un soldato a obbedire agli ordini illegittimi”, dichiara Mancini all'Espresso ed ancora: “Tre anni fa mi ha telefonato un certo Frederch Holzer dalla Germania, parlava italiano. Mi ha spiegato che suo nonno Heinrich era quello che mi salvò. Nell’elenco dei soldati di Sant’Anna, questo nome effettivamente c’era. Era nato il 10 novembre del 1926, pertanto nell’agosto del ’44 non aveva ancora 18 anni. Era morto il 10 marzo del 2012. Gli chiesi perché il nonno non si fosse fatto vivo, mi spiegò che aveva paura di essere incriminato”.
Monumento ossario di Sant'Anna di Stazzema
I fascicoli su Sant’Anna e sulle altre stragi nazifasciste compiute in Italia sono rimasti ‘nascosti’ fino al 1994 nel cosiddetto ‘armadio della vergogna’. Le rappresaglie di tedeschi e fascisti sui civili italiani fecero tra il 1943 ed il 1945 15mila morti. Molte di quelle stragi sono rimaste impunite ma i sopravvissuti non dimenticano.
Tra loro Enrico Pieri, 81 anni, che ricorda la casa dove fu massacrata la sua famiglia, mentre lui assisteva nascosto in un sottoscala, le orecchie tappate per non sentire le mitragliate, le grida ed i lamenti. Oggi non ha dubbi sulla necessità di non dimenticare: ”Sì la memoria serve. Se abbiamo avuto oltre 70 anni di pace e benessere lo dobbiamo al sacrificio di tutti quelli che sono morti nella seconda guerra mondiale”.


martedì 11 agosto 2015

La rivolta di Bronte e ‘lo scemo del villaggio’


La rivolta dei contadini di Bronte del 2 agosto del 1860, repressa nel sangue da Nino Bixio, luogotenente di Garibaldi, fu causata da secoli di soprusi e dal desiderio di libertà di un popolo che ancora oggi non riesce ad emanciparsi
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Una scena del film di F. Vancini 'Bronte, cronaca di un massacro'
La popolazione di Bronte all’epoca dello sbarco dei Mille era divisa in due fazioni: da un lato c’erano i “Civili’ detti anche Ducali difensori delle prerogative della nobiltà latifondista rappresentata dalla britannica ‘Ducea di Nelson’; dall’altro c’erano i ‘Comunisti’ o Comunali guidati da Nicolò Lombardo schierati a difesa dei popolani ed intenzionati ad applicare il decreto di Garibaldi del 2 giugno del 1860 con cui aveva promesso la divisione delle terre.
Nei giorni che precedettero la rivolta gran parte della popolazione era ‘angosciata dalla mancata applicazione delle direttive dittatoriali garibaldine, rimaste lettera morta … La correzione dei mali sociali che da sempre affliggevano le classi più povere non s’era verificata’, ha scritto in ‘Risorgimento perduto’ lo storico Antonino Radice.
Il suonatore di trombetta
La mattina del 2 agosto iniziarono i tumulti, nessuno poteva uscire o tornare in paese. ‘Dobbiamo dividerci i beni del Comune, gridavasi, questi signori ci hanno succhiato il sangue nostro, ce lo devono restituire’.
I rivoltosi invasero le strade, saccheggiarono, incendiarono gli archivi del Comune, il Teatro, il ’Casino dei civili’, in tutto 46 case furono distrutte. Nelle stesse ore furono trucidati diversi civili, in tutto i morti furono sedici tra cui il notaio, il cassiere comunale, la guardia municipale, un impiegato del catasto, un contabile, un usciere.
Dietro la sollevazione si celavano secoli di soprusi, fame, odi, miseria e il desiderio di libertà risorte con l’arrivo di Garibaldi e con le speranze suscitate dalle sue promesse di dare soddisfazione alle rivendicazioni contadine. Ma non fu così.
La vendetta
Le truppe garibaldine guidate da Nino Bixio furono chiamate a ristabilire l’autorità del governo dittatoriale di Garibaldi. Eseguirono arresti tra la popolazione civile, processi sommari e condanne a morte.
All’alba del 10 agosto i cinque condannati furono portati davanti alla piazzetta del convento di Santo Vito e qui fucilati, ma nessuno ebbe il coraggio di sparare a Nunzio Ciraldo Fraiunco considerato ‘lo scemo del villaggio’ perché incapace d’intendere e di volere. Nell’illusione che fosse stato miracolato dalla Madonna Addolorata, il condannato s’inginocchiò ai piedi di Nino Bixio, ma di fronte alla sua invocazione ad avere pietà fu giustiziato con un colpo di pistola alla testa. La sua unica colpa fu di aver soffiato, nei giorni della rivolta, in una trombetta di latta ed aver cantato per le strade di Bronte: ’Cappeddi guaddattivi, l’ura dù jiudiziu s’avvicina, populu nun mancari all’appellu’.





domenica 2 agosto 2015



Strage di Bologna, gli esecutori materiali sono già tutti liberi

Sono trascorsi trentacinque anni dal 2 agosto del 1980 quando un ordigno fu fatto esplodere dai fascisti del Nar nella sala d’aspetto della stazione di Bologna ed oggi gli esecutori materiali della strage sono liberi, mentre non si sa nulla dei mandanti

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Valerio Fioravanti e Francesca Mambro - (foto Wikipedia)
Erano le dieci e venticinque minuti del 2 agosto 1980quando una bomba ad alto potenziale esplose all’interno della sala di attesa di seconda classe della stazione ferroviaria di Bologna affollata di turisti in partenza o di ritorno dalle vacanze. L’ordigno, composto da 23 kg di esplosivo, una miscela di tritolo e T4, potenziato da 18 kg di nitroglicerina ad uso civile, era contenuto in una valigia con un congegno a tempo. L’esplosione causò il crollo dell’ala ovest dell’edificio, investì il treno Ancona – Chiasso in sosta sul primo binario, fece crollare 30 metri di pensilina e distrusse il parcheggio dei taxi antistante alla stazione.
Luigi Ciavardini - (foto wikipedia)
Trentacinque anni dopo gli esecutori materiali della strage i fascisti Francesca Mambro e Giusva Fioravanti sono liberi, mentre Luigi Ciavardini è in semilibertà nonostante la sentenza di condanna a trent’anni di carcere emessa dal tribunale di Bologna il 23 novembre 1995. Non si conoscono invece i mandanti, sempreché essi ci siano.
Il processo iniziato il 19 gennaio del 1987 ha dimostrato che fu un atto terroristico compiuto da esponenti della Destra eversiva dei Nar, i Nuclei armati rivoluzionari, che a Milano e Roma seminarono morti e feriti durante gli anni Settanta. L'attentato, che ha causato 85 morti e 200 feriti, rientrava nella cosiddetta 'Strategia della tensione' iniziata il 12 dicembre del 1969 con la bomba di piazza Fontana a Milano. Quelli furono gli anni dei Servizi segreti deviati, di Gladio, dei depistaggi, delle stragi compiute dai terroristi di estrema Destra spesso utilizzati come pedine da poteri occulti come la P2 e che avevano un solo scopo: impedire al Partito Comunista Italiano di accedere al governo del Paese.


giovedì 23 luglio 2015

Brescia, piazza della Loggia: condannati all’ergastolo due neofascisti di Ordine Nuovo


Dopo 41 anni di depistaggi, assoluzioni ed insabbiamenti sono stati condannati all’ergastolo per la strage di piazza della Loggia due neofascisti: Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Brescia, piazza della Loggia 28 maggio 1974
Carlo Maria Maggi, ex ispettore veneto di Ordine Nuovo, e l’ex fonte ‘Tritone’ dei servizi segreti italiani Maurizio Tramonte sono stati condannati all’ergastolo nel processo d’Appello bis per la strage di Piazza della Loggia avvenuta il 28 maggio del 1974. Il primo, che oggi ha 80 anni, sarebbe stato il mandante, mentre il secondo avrebbe partecipato a tutta la fase di preparazione dell’attentato. La bomba nascosta in un cestino portarifiuti fu fatta esplodere mentre era in corso una manifestazione contro il terrorismo neofascista indetta dai sindacati. L’esplosione dell’ordigno provocò 8 vittime ed il ferimento di 102 persone.
Brescia, piazza della Loggia 28 maggio 1974
Il 14 aprile 2012 gli imputati erano stati assolti insieme a Delfo Zorzi, Francesco Delfino e Pino Rauti con la formula dubitativa dell’articolo 530 comma 2, vale a dire con la formula della vecchia insufficienza delle prove. Due anni dopo la Cassazione ha disposto un nuovo processo d’appello per Maggi e Tramonte confermando invece le altre tre assoluzioni.
Brescia, piazza della Loggia 28 maggio 1974
L’attentato di Brescia fu uno dei tanti compiuti tra la fine degli anni Sessanta e durante gli anni Settanta nell’ambito di quella che è stata definita come ‘strategia della tensione’ e che aveva come scopo quello di fermare l’avanzata elettorale del Partito comunista italiano che in quegli anni era molto forte.
Oggi, dopo 41 anni e una  serie interminabile di depistaggi, insabbiamenti e assoluzioni, è giunta la sentenza di condanna.“Giustizia finalmente è fatta, almeno un poco. La soddisfazione è grande”. E’ questo il commento dell’avvocato storico dei familiari delle vittime, Federico Sinicato mentre il presidente dell’Associazione, Manlio Milani, che nella strage ha perso la moglie ha dichiarato: “La sentenza impone una profondissima riflessione su quegli anni dal 69’ al ‘74”. 

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