di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
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A sinistra il nuovo ponte di Genova, a destra il viadotto Himera |
Il 10 aprile del 2015 cedette, lungo la
A19 Palermo – Catania, il viadotto Himera. L’interruzione, causata da una
frana, divise in due la Sicilia. Nell’isola, infatti, non esiste un’altra autostrada
che la attraversi da Nord a Sud o da Est a Ovest. Per diversi mesi gli automobilisti
furono costretti a fare il giro da Polizzi Generosa. E gli autoarticolati per raggiungere Catania dovevano passare addirittura da Messina. Ancora oggi è obbligatorio
utilizzare la bretella costruita dall’Anas. L’azienda pubblica ha comunicato
che i lavori di ripristino del cavalcavia saranno completati entro la fine di
luglio, ma visti i continui rinvii, forse sarebbe stato meglio non fare
previsioni. Pochi giorni fa il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha
assistito alla posa dell’ultima campata del nuovo ponte di Genova. Il tutto in
diretta televisiva.
Per rifare un viadotto di nemmeno
trecento metri non sono stati sufficienti oltre cinque anni, mentre per realizzare
un ponte di 1.067 metri sono bastati meno di ventidue mesi. Il committente
delle due opere è sempre lo stesso, eppure, l’efficienza organizzativa e
burocratica è diversa, perché?
Non è solo una questione di procedure
amministrative o di capacità imprenditoriali. Piuttosto è un fatto di scelte politiche ed economiche. La viabilità di una città settentrionale è, per chi ci
governa, molto più importante che ripristinare un’arteria autostradale che
collega cinque milioni di siciliani. Non è la prima volta che si verifica
questa disparità di trattamento. Il Sud, spesso, è abbandonato a sé stesso, come se fosse un peso per l’opulento e operoso Settentrione.
Due pesi e due misure. Due Italie. È
sempre stato così. Dalla nascita dello Stato unitario la priorità è sempre
stata quella di favorire lo sviluppo economico del Nord. Sia chiaro, i meridionali hanno tante responsabilità, ma forse la più grave è quella di non
aver saputo imporre gli interessi e le esigenze economiche e sociali del proprio territorio. Spesso, troppo spesso, i ‘terroni’ si sono limitati ad accettare quel
poco che il resto del Paese era disposto a concedere, cioè poco o niente.
Ora la storia potrebbe ripetersi. Stiamo
affrontando una gravissima crisi sanitaria. Ad essa seguirà un crollo del Pil
peggiore di quello del 1929. E non è necessario essere un indovino per prevedere che a pagare saranno i più deboli ed i territori con un’economica più fragile, Mezzogiorno compreso. Ovviamente, il tutto avverrà nell’indifferenza
di chi governa e di chi è governato, ma anche questa non è una novità.
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