venerdì 26 gennaio 2018

Liliana Segre: ‘Il mio numero 75190 non si cancella, è dentro di me ...’ (dall’arrivo nel campo di Auschwitz alla liberazione)

‘Dopo aver abitato nella città artificiale del male assoluto è ancora possibile vivere, amare, sentirsi umani e – cosa più incredibile – liberi dalla tentazione di odiare per sempre’, Liliana Segre

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Liliana Segre con il padre Alberto - (foto da wikipedia.org)
Vivevamo in una promiscuità assoluta, dormivamo in cinque o sei in un ripiano di quei tavolacci a castello … Era un brulicare degli insetti più schifosi che ci venivano addosso e s’infilavano tra le cuciture dei vestiti. La sporcizia regnava nel lager. Dormivamo vestite, sia per il freddo sia perché le nostre compagne più vecchie e più furbe ci avrebbero rubato i vestiti che erano preziosa merce di scambio’.
‘Dopo l’appello che durava a lungo nella neve - un’ora, due ore - … uscivamo in fila dal campo al suono dell’orchestra che accompagnava, sinistra, anche le esecuzioni. E con una marcia forzata arrivavamo alla fabbrica Union … Gli industriali tedeschi hanno beneficiato per anni di manodopera non pagata … I nostri datori di lavoro potevano contare su un ricambio continuo: quando una di noi cadeva a terra, sfinita, e non si rialzava più, arrivava subito un’altra ragazza-nulla a rimpiazzarla. E’ così all’infinito … La maggior parte … sono morte a causa dei lavori più tremendi: scavare buche conficcando la vanga nella terra ghiacciata, mentre un altro gruppo le richiudeva subito dopo; caricare un camion di pietre mentre un altro gruppo le scaricava nello stesso punto. Lavori persecutori, ideati affinché gli stück, i pezzi, durassero il meno possibile’.
Il libro 'Sopravvissuta ad Auschwitz'
I Musulmünner -  ‘… erano prigionieri, sia uomini che donne, la cui mente giungeva a un punto di non ritorno e loro si lasciavano morire. Sceglievano di non mangiare neanche quel pochissimo che ci veniva dato, sul quale invece noi ci gettavamo come pazze. Si sbottonavano la divisa quando nevicava e camminavano per il campo, non ordinati come invece stavamo noi – incolonnate, ubbidienti per sopravvivere: vai al lavoro, torna dal lavoro, vai alla doccia, vai alla baracca, esci dalla baracca, resta in riga e sull’attenti per l’appello – ma non potendo più avere freni inibitori, vagavano finché non cadevano a terra. Quando non morivano di morte naturale o di freddo, a finirli era il calcio del fucile di qualcuno che decideva di mettere fine a quello strazio. Era l’ultimo gradino contrapposto ai Kapos: tra il Kapos e il Musulmann c’era un’infinità di sistemi di sopravvivenza intermedi. C’era il furbo, che faceva piccoli affari nel campo; quello che si rendeva servile con l’aguzzino, magari sapeva il tedesco e si trasformava in un servo delle SS … Eravamo isole di dolore e di disperazione che non vivevano nei pensieri di nessuno’.
La selezione - '... le Kapos ci chiudevano nelle baracche a gruppi, cinquanta - sessanta per volta. Poi ci portavano nel locale delle docce – quelle vere – nude - … e qui dovevamo sfilare una dietro l’altra attraversando una grande sala per uscire dall’altra parte. Sulla porta in fondo alla sala sedeva il piccolo tribunale di vita e di morte: un medico e due SS. Noi, nude col nostro corpo e nient’altro, dovevamo presentarci a questa giuria. …. Donne nude, scheletriche, che venivano esaminate davanti, dietro, in bocca, da uomini in divisa che spesso ordinavano: voltati di nuovo che non ti ho vista bene. Una femminilità annullata, completamente violata. Bestie al mercato, che venivano osservate, e quando una non andava più bene ci pensavano il gas e il crematorio a cancellarla dal mondo’.
Janine - … era francese, aveva ventidue o ventitre anni, occhi azzurri, voce dolce, ricciolini biondi e corti, appena ricresciuti dopo la rasatura.  Andata al gas ad Auschwitz in un giorno del 1944. Pensiamola un momento, perché nessuno, tranne me e gli aguzzini, conosce la fine che ha fatto Janine …
27 gennaio 1945 - La marcia della morte - ‘Si svolgeva nel buio: camminavamo quasi sempre di notte perché i nazisti non volevano far vedere neanche ai civili tedeschi le sembianze di queste migliaia di persone schiavizzate e annientate, che si spostavano a nord, sempre più a nord, man mano che i russi si avvicinavano … una lunga fila di disperati, che si buttavano come pazzi sugli immondezzai alle porte della città. Addentavamo ossa già spolpate, bucce piene di terra, torsoli marci, letamai dell’immondizia dei tedeschi … Cammina, cammina, altrimenti muori … Cammina non cadere altrimenti ti uccidono. La vita è fatta così: se cadi qualcuno ti calpesta e ti uccide moralmente: bisogna sempre avere la coscienza che siamo fortissimi e che ce la faremo … Eravamo alla fine, ci rendevamo conto che, se non ci avessero ucciso i nostri aguzzini, saremmo comunque morte nel giro di una decina di giorni’.
1° maggio 1945 - La fuga degli aguzzini e la liberazione - ‘Li guardavamo sbalorditi: cosa fanno?. Si mettono in mutande le SS vicino a noi si spogliano, si rivestono da civili e tornano a essere signori qualsiasi, quelli della banalità del male (come scrisse Hannah Arendt, non erano né perversi né sadici, bensì erano, e sono tuttora, terribilmente normali) … Il comandante di quell’ultimo campo, crudele assassino, camminava vicino a me – non ho mai capito il suo nome, era un uomo alto ed elegante – si spogliò, rimase in mutande, si rivesti da civile. Tornava a casa dai suoi bambini e da sua moglie. Certamente non si accorgeva della mia presenza perché io ero una stück, un pezzo. Quando butto la pistola ai miei piedi, con tutto l’odio che avevo dentro pensai per un istante: adesso mi chino, prendo la pistola e in questa confusione assoluta lo ammazzo. Mi ero nutrita a lungo solo di malvagità e di vendetta. Pensai che sparargli fosse l’azione giusta nel momento giusto, il giusto finale di quella storia di cui ero stata protagonista e testimone. Ma fu un attimo … Non avrei mai potuto raccogliere la pistola e sparare al comandante di Malchow. Io avevo sempre scelto la vita. Quando si fa questa scelta non si può togliere la vita a nessuno. E’ da quel momento sono stata libera’.
  
Fonte: Sopravvissuta ad Auschwitz di Emanuela Zuccalà e wikipedia.org

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