lunedì 16 agosto 2021

Gli zii e le zie di Torremuzza (parte seconda)

Per una questione di privacy i nomi ed i soprannomi sono indicati con le iniziali. Chi li ha conosciuti o li conosce certamente capirà di chi si tratta

di Giovanni Pulvino

Ci sono pensieri che è difficile riportare, anche se ritornano con più continuità degli altri

A za R., così la chiamavano tutti, ma non noi, i suoi figli. È difficile parlare e scrivere di Lei. Come è difficile parlare e scrivere du zu S., mio padre. Sono vissuti per mettere al mondo e per crescere nel migliore dei modi sei figli. Con i loro sacrifici ci hanno garantito un futuro sereno. Non avevano vizi, svolgevano due o tre lavori contemporaneamente ed avevano un senso della famiglia e della comunità che non è mai venuto meno. La loro gioia erano i nostri capricci, la nostra immaturità. Purtroppo, anche questo lo comprendi solo dopo. Quel giorno nell’aula magna dell’Università avevano gli occhi lucidi. Gli anni di studio sarebbero stati utili anche se fossero serviti solo per quel momento di commozione.

A volte di sera dovevo portare la cena a mio padre, operaio nello stabilimento dei fratelli G.. La strada era al buio e le uniche luci erano quelle della raffineria. All’arrivo gridavo per far sentire la mia presenza e per accelerare il ritorno a casa. Capitò poche volte, ma quanta paura ad andare e venire e soprattutto che impressione l’aspetto tetro della struttura ed il rumore cupo dei compressori. Allora non esisteva nessun obbligo sulla sicurezza nei luoghi di lavoro, l’incendio che divampò quel giorno ci sorprese, ma considerata la precarietà dell'edificio fu un evento quasi annunciato. Certo fu dovuto ad un errore umano, ma in quelle condizioni era quasi inevitabile. Chi era di turno quella notte si salvò per 'miracolo', purtroppo non fu così per tutti. L'attività riprese poche settimane dopo, come se non fosse successo nulla.

Il richiamo delle terra natia è per noi borgatari irresistibile ed è lì che vuoi vivere gli ultimi giorni della tua vita

Chi non lavorava nello stabilimento o non riusciva a vivere in modo dignitoso del poco che dava la pesca era costretto a partire. Ancora oggi è così. All’inizio degli anni Settanta le famiglie emigravano anche dal Borgo. Una di queste fu quella ru zu F. e da za C.. Partì tutta la famiglia. Erano stati preceduti da un fratello, il più giovane: S.. Non hanno mai dimenticato la ‘leggerezza’ del Borgo, i tramonti, il mare, la pesca. Sono tornati da pensionati.

U T. e a za M. li vedevamo solo d’estate. Erano anche loro 'torremuzzari' migranti. Appartenevano a quei milioni di meridionali che negli anni Sessanta e Settanta hanno permesso con i loro sacrifici il boom economico in Italia ed in Europa. Hanno vissuto in Germania oltre due decenni. Anche loro sono rientrati in Sicilia da pensionati. Con il frutto del loro lavoro hanno comprato una casa nel Borgo. E non sono stati i soli. Allora anche con il salario di un operaio era possibile farlo, ma occorrevano tanti sacrifici. Era una generazione parsimoniosa, che sapeva trasformare una Lira in un patrimonio. Dobbiamo molto a quegli uomini e a quelle donne. Lo hanno fatto per noi.

Un'altra famiglia che emigrò fu quella du L.. che aveva la mia età. Prima di partire fece in tempo ad insegnarci ad andare in bicicletta. Era uno dei pochi a possederla. Nzusu, dove abitava, non c’erano auto e non c’era pericolo di finire contro un muro, ma le cadute ci furono lo stesso. Imparammo in un pomeriggio. La bici che ci comprarono qualche mese dopo i nostri genitori servì per sei figli e per qualche cugino, era la mitica ‘Graziella’.

Un Borgo marinaro, Torremuzza era questo

U zu P. (e a za R.). Come tutti i 'torremuzzari' aveva una passione senza se e senza ma per il calcio e per il gioco del Totocalcio. Essendo un pescatore non mancava mai di ascoltare il bollettino meteorologico trasmesso dalla radio. Per essere sicuri delle previsioni bastava chiedere a Lui. La sua giornata o nottata lavorativa dipendevano dal tempo. In particolare, dal vento e dalle condizioni del mare. Quello dei pescatori è un lavoro precario, dipende dalle condizioni meteorologiche e dalla ‘fortuna’ di aver ‘calato’ le reti nel posto giusto. Allora era così ed i sussidi statali non c’erano.

Sulla spiaggia c’erano i relitti dei pescarecci che di certo gli zii pescatori del Borgo avevano utilizzato da giovani. Erano ‘lupi di mare’ e non era raro vederli seduti su un marciapiede intenti a rammendare le reti che qualche pesce che non voleva morire aveva bucato. Nella cattiva stagione li vedevi intenti ad assemblarle in cataste ben ordinate ed a riporle nei magazzini o a spostare le barche sotto i ponti, al riparo dalle piogge invernali.

Pescatori, erano solo pescatori. Eppure, sono stati capaci di garantire una vita dignitosa alle loro famiglie, allora assai numerose

In fondo a piazza Marina c’è una casa che sembra una villetta. Il pergolato, uno spazio per l’orto, un giardinetto ben curato ed una stradina per arrivarci. Un posto quasi isolato, almeno così ci sembrava allora. Ci andavamo solo per recuperare il pallone quando varcava involontariamente il cortile di quell’abitazione. Ci abitava u zu R. e la sua famiglia. Lo vedevi passare sotto i ponti per recarsi in spiaggia o seduto davanti casa a riparare le reti per la pesca. Era una figura minuta, non ricordo il tono della sua voce e, come per la maggior parte dei borgatari, è vissuto per il mare e per la famiglia.

Continua ....


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