Stavamo seduti a Sant’Antonino a fare la formazione del Torremuzza ed immaginavamo di vincere i campionati di calcio dilettantistici e quelli dei professionisti della Serie C, della Serie B ed andare in Serie A
La cappella di Sant'Antonino, Torremuzza (Me) |
Nel corso della Seconda guerra mondiale i militari del Genio del Regio Esercito hanno costruito centinaia di bunker di avvistamento e di guardia. Tre di questi si trovano nella nostra frazione. Uno è Nzusu, un altro è di fronte alla spiaggia ed un terzo è stato posto sulla via Nazionale, all’inizio di via San Giuseppe e a pochi passi da via Sant’Antonio. Su quest'ultimo è stata eretta la cappella di Sant'Antonino.
Siamo cresciuti con questo struttura posta in un punto centrale del paese e da dove è impossibile non passare. Spesso stavamo seduti sui gradini costruiti per consentire l'acceso al santuario. Lo facevamo senza sapere il motivo per cui la cappella fosse lì, semplicemente l’abbiamo trovata lì.
Di tanto in tanto vedevamo una coppia di signori maturi che venivano a portare dei fiori. Perché lo facevano? Era solo devozione oppure c'era un altro motivo? Accanto alla statua di Sant'Antonino su una mattonella in marmo c'è una scritta che spiega i motivi per cui fu realizzata. Nel 1955 un bambino di tre anni si perse nella campagna che circonda la frazione. Fu ritrovato tre giorni dopo. I genitori per adempiere al voto che avevano fatto e per ringraziare Sant'Antonino fecero costruire il santuario.
Con il passare del tempo per noi torremuzzari questa struttura è diventata una presenza così familiare che non facevamo più caso al suo significato religioso. Questo lo davamo e lo diamo per scontato. Era ormai, ma forse lo è sempre stato, un simbolo del paese e, nello stesso tempo, un luogo di ritrovo. Per noi era una specie di ‘salotto’ all’aperto, cinque scalini in cemento armato che non hanno mai avuto bisogno di manutenzione.
'Protetti dalla benevolenza' di Sant'Antonino stavamo lì a tutte le ore. Lo facevamo nelle giornate invernali o primaverili a prendere il sole, oppure d’estate per godere di un po' di frescura, quella procurata dal venticello di brezza che nel primo pomeriggio increspa il mare e lo colora di un azzurro intenso. Era un soffio leggero leggero quello che giungeva, sembrava spinto dalle isole Eolie che si trovano là in fondo, sulla linea quasi trasparente dell’orizzonte. Queste sagome a forma di vulcano erano una presenza costante ed anche quando nelle giornate nuvolose non erano visibili sapevamo che c’erano.
Erano lì prima di noi e saranno lì dopo di noi. E non possiamo farci nulla.
Stavamo seduti a chiacchierare in attesa del prossimo gioco da fare o da progettare per il giorno dopo o semplicemente a non fare nulla.
Stavamo li ad ascoltare la Hit parade che ogni settimana trasmetteva Rai Radio uno o ad indovinare i titoli delle canzoni che qualcuno accennava o a contare il numero di auto che passavano. Facevamo a gare su chi indovinava quante ne sarebbero transitate con la targa di Messina o di Palermo o di un’altra provincia. Allora tutti i mezzi di trasporto avevano la sigla della città di immatricolazione. Ed era facile intuire la provenienza di chi ci stava dentro, specie d’estate, anche se a volte non riuscivamo a decifrare la sigla. Chissà perché quel modo di identificare le auto è stato cambiato. Ora non si capisce neanche se sono italiane o di un altro paese.
Era un gioco semplice ed era inutile, ma cosa lo è? E non era importante vincere quello che contava era la condivisione di quei momenti, erano attimi di felicità, ma allora non lo sapevamo.
Stavamo seduti lì a sognare la Serie A. Si, la serie A. Per i giovani torremuzzari il calcio era tutto o quasi, nulla era impossibile. Non c’era giorno che non facessimo una partita o qualche altro gioco con il super Santos sgonfio o scoppio. Giocavamo tutti, anche coloro che non amavano il calcio. Del resto quello era l'unico modo che questi nostri coetanei e non solo avevano per sentirsi parte del gruppo, della comunità.
Facevamo le partite in piazza Marina che allora era ancora in terra battuta. Poi, dopo che è stata pavimentata, giocavamo nella parte alta e successivamente in quella bassa. Sotto i ponti della ferrovia facevamo una specie di calcio-tennis, ma senza la rete, le due sponde dell’arco fungevano da porte.
Il cortile Marina |
Giocavamo spesso anche nel cortile delle scuole elementari.
I primi tre anni della scuola primaria li abbiamo fatti in un locale attiguo al tabacchino, di proprietà da za R. e la nostra insegnante era sua figlia L.. Nella nuova struttura frequentammo la quarta e la quinta elementare ed i nostri insegnanti erano, oltre alla maestra L., a za P. e, per un breve periodo, l’altro figlio da za R., P.. Una mattina con quest’ultimo anziché stare in classe siamo usciti nel cortile a fare una partita con il super Santos. Lo facevamo spesso. Ad un certo punto il pallone mi passò sopra la testa, in un attimo mi girai e feci una rovesciata volante. Ancora oggi non so come non mi sia fatto male.
La spensieratezza a quell’età è così tanta che ti senti invincibile e fai cose che poi ti appaiono inspiegabili.
Giocavamo quasi sempre nel cortile delle scuole elementari che era stato pavimentato solo dal lato dell’ingresso e la struttura posteriore ancora non c’era. Tutto attorno era in terra battuta. Allora lì si potevano fare diversi giochi. Facevamo i giri con la bici e memorabili partite a mini-tennis proprio dove c'è la porta d'ingresso della scuola. Ci giocavamo a guardia e ladri, a nascondino, lì facevamo le partite a pallavolo, a calcio individuale, a chi faceva più palleggi, ma sempre con il super Santos. Quest'ultimo gioco mi ritorna sempre in mente perché a vincere erano quelli che a calcio erano ‘scarsi’. Ancora oggi non capisco come questo sia stato possibile, ma è successo. Uno di noi ne fece mille senza far cadere il pallone per terra. Eppure, era un nostro compagno che non partecipava quasi mai alle partite, ma in quel gioco era imbattibile.
È proprio vero nel calcio le abilità tecniche non sono sufficienti, occorre anche altro. Intelligenza, altruismo, spirito di gruppo, sacrificio e passione. Ed occorre tutto insieme, se hai una sola di queste qualità non sei un buon calciatore. E poi ci vuole anche una struttura fisica forte, ma questo lo capimmo dopo, quando da adulti i sogni svaniscono ed entri nella realtà della vita, che è diversa da quella che hai vissuto da piccolo. Ci fu un periodo, quello che precedette il grave infortunio che ha cambiato le mie aspettative, in cui andavo in quel cortile tutte le mattine per allenarmi. La passione era tale che ci andavo prima di andare a scuola.
Quando si è giovani le ambizioni sono così forti che fai cose che da grande non farai più. Poi è cambiato tutto. Per anni ho temuto di cadere dagli scalini alti pochi centimetri e non ho fatto sport e soprattutto calcio.
La nostra esistenza dipende da eventi non voluti, che ci condizionano e ci segnano senza volere, senza che possiamo impedirli.
Stavamo seduti a Sant’Antonino a fare la formazione del Torremuzza ed immaginavamo di vincere i campionati di calcio dilettantistici e quelli dei professionisti della Serie C, della Serie B ed andare in Serie A. Non avevamo limiti, anche se non avevamo mai giocato in un campo vero, eppure sognavamo la Serie A.
Si era immaginazione, ma quanto era bello fantasticare.
Cos’altro ci resta oggi se non quei ricordi? Pensieri che non puoi controllare. Sono loro che decidono quando venire, andare o sopirsi per un po', per poi tornare ancora e ancora. È un tormento, è una gioia, chissà, di certo è il tempo che passa, che diventa memoria inconsapevole ed inutile, come tutto, come tutti.
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