Il trasferimento dello stabilimento della Pernigotti
in Turchia è solo l’ultimo episodio di una lunga serie di delocalizzazione avvenute
nel nostro Paese negli ultimi due decenni
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Lo stabilimento di Novi Ligure della Pernigotti (foto da pernigotti.it archivio storico) |
L’azienda piemontese della Pernigotti è stata
acquistata nel 2014 dal gruppo turco Toksoz che, allora, s’impegnò a rilanciare
la sede di Novi Ligure e di mantenere la produzione in Italia. Ora l’annuncio
del trasferimento in Turchia e il conseguente licenziamento di 100 operai e di
80 addetti interinali. I lavoratori hanno chiesto l’intervento del ministro dello sviluppo
economico, Luigi Di Maio. Ma ad oggi nulla è stato fatto anche se la nuova
legislazione introdotta dal governo ‘pentaleghista’ con il decreto dignità
prevede, tra l’altro, sanzioni pecuniarie nei confronti delle aziende che
delocalizzano. La normativa penalizza le imprese che trasferiscono gli
stabilimenti fuori dall’Ue e se lo fanno entro i cinque anni dall’aver usufruito
di incentivi pubblici. Nelle prossime settimane vedremo se la legge è adeguata e
se sarà applicata. Intanto, un’azienda del made in Italy che ha 158 anni di
storia rischia il trasferimento in Turchia.
La vicenda della
Pernigotti è solo l’ultimo caso di una lunga serie di
delocalizzazioni. Si tratta spesso d’imprese che producono utili e lavoro, ma
nonostante ciò si trasferiscono all’estero, perché? La risposta è ovvia: tutto
è fatto in funzione della produttività. E’ la logica del capitalismo, è, cioè, la
logica del profitto a tutti i costi. L’obiettivo degli imprenditori non è il
benessere dei lavoratori e delle comunità dove le aziende hanno la sede e gli
stabilimenti, ma l’arricchimento dei proprietari.
Con la globalizzazione le opportunità di accumulazione del capitale hanno
varcato i confini nazionali, per cui spesso è più conveniente produrre nei
paesi dove il costo del lavoro e delle materie prime sono più bassi. La storia della Fiat è, da questo punto di vista, emblematica. Per quasi un
secolo l’azienda torinese ha usufruito degli incentivi e dei finanziamenti
dallo Stato italiano. Quando questi sono finiti o non erano sufficienti a
garantire gli utili i proprietari hanno deciso di trasferire all’estero una
parte degli stabilimenti, la sede legale e quella operativa. E se questo ha significato
chiudere la fabbrica di Termini Imerese e lasciare senza lavoro oltre 1.800 operai poco
importa, per i ‘padroni’ la priorità è sempre e solo il profitto.
Fonte pernigotti.it
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