‘Sono partita per caso e sono rimasta per scelta. Una scelta consapevole e serena’, Cristina Fazzi
| La copertina del libro di Cristina Fazzi e Lidia Tilotta |
‘Un giorno mi portarono una bimba
di cinque anni. Mi fissava con i suoi grandi occhi. Mi chiedeva un aiuto che non
potevo darle. Provai di tutto. Cercai di rianimarla, ma non ci riuscii. Mi morì
tra le braccia. Il suo sguardo supplicante è uno dei miei incubi ricorrenti. Non
riuscivo a capacitarmi di non essere riuscita a sconfiggere non un cancro, ma la fame. Non una malattia incurabile, ma una patologia che non dovrebbe
nemmeno esistere. È un’assurdità. Da una parte il cibo si butta e dall’altra
per il cibo si muore.’
‘Imporre non serve. Serve rendere consapevoli’.
In un orfanotrofio.
‘La bambina era morta la sera prima.
Inorridita, chiesi dove avessero messo il suo corpo. La donna mi condusse alla
culletta, perfettamente in ordine con il suo materassino, il lenzuolino, il
cuscinetto. .... Poi sollevò il materassino e sotto, poggiata sulle sbarre,
coperta dal materassino, c’era Sara. Non volevo credere ai miei occhi. Ma
perché lo avete fatto, chiesi in preda alla rabbia. L’avrei presa a sberle. Lei
rispose serafica: Sai, non è bello lasciare che gli altri bambini la vedano
morta sul lettino. Quindi, fino a che non arriva la bara, quando muoiono li
mettiamo sotto il materasso’… ‘Sara era passata inosservata nei suoi otto mesi di vita ed era stata oltraggiata pure nel momento della sua morte’.
Una donna eccezionale.
‘Sono sempre stata un tipo
indipendente, non ho mai voluto legarmi perché volevo avere la possibilità di
muovermi e lavorare senza vincoli. Mentre percorrevo la strada verso
l’orfanotrofio pensavo al piccolo fagottino che avrei portato con me (Joseph adottato da Cristina Fazzi, la
prima single in Italia a poterlo fare). Che avrebbe cambiato per sempre le
mie idee e le mie scelte di autonomia e indipendenza estreme’.
‘Ignoranza e povertà camminano di pari
passo’.
Miriam e Ruth.
‘Porsi a Miriam un biscotto. Lei lo
prese, lo spezzò e ne diede metà a sua sorella. Le assicurai che ce n’erano abbastanza
per entrambe ma si convinse e iniziò a mangiare solo quando anche Ruth lo ebbe
fatto. La trattava come una figlia, non come una sorella. Quello scricciolo di tre anni si comportava come una vecchia e aveva sviluppato un istinto di protezione incredibile’.
L’acqua.
‘Predavamo l’acqua, la filtravamo da
fango e sabbia, la bollivamo e solo dopo potevamo usarla in casa. Quella che
restava, invece, serviva per innaffiare l’orto. Nemmeno una goccia poteva
andare perduta’.
Kemel e Budur.
‘La sua unica ambizione è morire (Kemel rimasto paralizzato per il
colpo di un cecchino) per liberare le sue donne e lasciare che finalmente
possano vivere una vita dignitosa. Che finisca, per lui e per loro, questo
inutile calvario. È disarmante. Penso al bastardo che ha deciso di distruggere
questo amore puro. Mi resta negli occhi Budur (la giovane moglie). Mi
resta negli occhi questa creatura esile che sopporta un peso gigantesco per una
guerra che non ha voluto lei. Per la sfortuna di essere nata nel posto
sbagliato nel momento sbagliato’.
Bambini e donne.
‘Bambini vestiti di stracci ma pieni
di risorse e di voglia di giocare, donne che assumono ciascuna su di sé gran
parte del peso del vivere in luoghi in cui manca tutto. Che percorrono
chilometri per recuperare l’acqua dai pozzi, che devono cercare mille rimedi
per riuscire a sopravvivere e non vedere morire troppo presto i loro figli. In
foresta così come nelle baraccopoli’.
‘Dovrete creare – ci disse – i loro
ricordi positivi che ci aiutino quando diventeranno grandi'.
Jatu.
‘Jatu mi, fiato mio, vita mia. Me lo dicevano i miei nonni e i miei
genitori e me lo ripeteva il mio Giovanni. Fiato è quello che diamo ai progetti
che mettiamo in campo e abbiamo deciso che il nostro simbolo sarebbe stato un
fiore, il soffione’.
Fonte
Karìbu di Cristina Fazzi e Lidia Tilotta
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