'Quando scendemmo dal treno quel giorno ad Auschwitz – terrorizzati, stupiti e confusi – ci ritrovammo direttamente nella sala macchine dell’Olocausto', Eva Schloss
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
La copertina del libro 'Sopravvissuta ad Auschwitz' |
Questa è la seconda parte della storia di Eva Schloss (la prima è nel post precedente), raccontata con le parole del libro che lei stessa ha scritto ad oltre quarant’anni di distanza dalla sua liberazione, avvenuta il 27 gennaio 1945 nel ’campo di sterminio’ di Auschwitz. Il suo destino è legato a quello di Anna Frank. Compagne di giochi ad Amsterdam, entrambe hanno vissuto la clandestinità e successivamente la deportazione nei ‘campi di sterminio’ ma soltanto Eva è sopravvissuta. Nel dopoguerra sua mamma Fritzi (il padre ed il fratello Heinz morirono ad Auschwitz) sposerà Otto Frank (unico superstite della sua famiglia), divenendo in tal modo 'sorellastra postuma' di Anne.
L’arrivo ad Auschwitz-Birkenau(22 maggio 1944): 'Il treno ci condusse lentamente attraverso l’Europa per tre giorni e tre notti. Eravamo stipati al buio come animali portati al macello, con un piccolo secchio fetido per i bisogni e un altro per l’acqua (…). A volte facevamo delle lunghe soste (…) in qualche punto di quello che avrebbe dovuto essere il continente più civile al mondo (…). Quando scendemmo dal treno quel giorno ad Auschwitz – terrorizzati, stupiti e confusi – ci ritrovammo direttamente nella sala macchine dell’Olocausto (…). Le scene sul binario erano strazianti e rimasi sconvolta dal chiasso delle persone che gemevano, piangevano e urlavano addii disperati. C’erano centinaia di persone: anziani, madri con neonati in braccio e bambini piccoli, tutti in uno stato di totale agitazione e di una sorta di primitiva disperazione; imperturbabili, le ss cominciarono a smistarci come fossimo abiti su una rastrelliera, finché non fummo divisi in uomini e donne, e poi in file di cinque (…). Salimmo lentamente la rampa finché non vedemmo in cima le ss che indirizzavano le persone in due colonne, una a destra e una a sinistra. Una donna davanti a noi cominciò a urlare quando capì che sarebbe stata costretta a consegnare il bambino all’altra colonna (…). Allora non sapevo che avevamo appena superato la nostra prima selezione da parte del celebre dottore del campo, Josef Mengele, o che il cappotto e il cappello mi avevano salvato la vita (…). Tutti i ragazzini sotto i quindici anni venivano automaticamente mandati a destra – la fila che conduceva direttamente alla camera a gas – e su 168 bambini del nostro trasporto io fui una dei sette sopravvissuti (…). Nell’aria c’era un odore acre che non avevo mai sentito.'
'Ero la prigioniera A/5272, inserita in
un processo volto a privarmi dell’orgoglio e dell’identità.
Allontanandomi dalla stazione di Auschwitz, mi ero lasciata alle spalle la
piccola Eva Geiringer e i suoi sogni. Avevo trascorso gli ultimi momenti
insieme alla mia famiglia al completo e non avrei più rivisto mio fratello.'
Vita nel campo: 'Auschwitz era un mondo di sporcizia, fame, depravazione, e pochi gesti di solidarietà (…). Mi resi ben presto conto che la civiltà è una patina molto sottile che viene via facilmente e compresi le vere necessità della vita, come avere una ciotola per bere e mangiare in modo da poter sempre ricevere la propria razione (…). Non tutti riuscivano ad adattarsi. Coloro che non si adeguavano alla vita del campo, avevano uno sguardo vuoto, perdevano la speranza e morivano. Nel gergo del campo venivano chiamati ‘Muselmann’ perché la posizione curva ed inerte li faceva somigliare a musulmani chini per la preghiera. Sono sopravvissuta in gran parte per pura fortuna, tuttavia giurai di non unirmi mai alle schiere dei ‘Muselmann’.'
'Percepii
che uno dei soldati mi osservava attentamente e poi lo udii dire:’Questa qui
può andare al Canada’ (…). Lo scopo del
Canada era depredare gli ebrei fino
all’ultimo bene, per mandare poi tutto in Germania, dove sarebbe stato
distribuito ai soldati, alle loro famiglie e alla gente comune. Gli uomini
tedeschi si rasavano con rasoi ebrei, mentre bravi madri tedesche spingevano carrozzine
ebree e i nonni indossavano occhiali ebrei per leggere sul giornale gli
articoli sullo sforzo bellico (…). Si trattava di una rapina e un saccheggio su
scala davvero enorme (…). Nei forni crematori, una squadra estraeva i denti
d’oro alle vittime. I denti venivano poi
immersi in un acido per rimuovere nervi e tessuti, fusi in lingotti d’oro e
spediti in Germania (…). A volte i
tesori non erano altro che foto piegate o rifilate con cura, la minuscola
immagine di un bambino sorridente, o una vecchia foto di genitori inserite
nella cucitura della giacca. Rimasi a fissare la foto di una madre e di un
padre con in braccio un bambino e mi resi conto con orrore che quella era stata
l’unica cosa importante per la persona che l’aveva nascosta, e che nessuno di
loro si sarebbe mai rivisto. Erano tutti morti.'
L’inverno più triste: 'Solo
una cosa mi faceva andare avanti e rendeva più sopportabili quelle notti: avere
Mutti (la mamma di Eva) al mio fianco e dormire tra le sue braccia. Immaginate
anche la fame. Le nostre razioni ufficiali di cibo consistevano di una minestra
tiepida a colazione, o di alcune sorsate di un granuloso succedaneo del caffè,
seguite da un pasto serale a base di una fetta di pane nero (…). lo scopo era farci morire lentamente di fame
(…). Immaginate la sporcizia. Una volta, una Kapò ci punì per qualche
infrazione gettandoci addosso il secchio dei bisogni ed ebbi per giorni i
vestiti e la pelle ricoperti di escrementi prima di avere finalmente il
permesso di lavarmi (…). Senza Mutti, pensando che anche Pappy (il papà di Eva)
era probabilmente morto e non avendo idea se Heinz (il fratello di Eva) fosse
vivo o meno, mi sentii precipitare in un buco nero (…). Che importanza aveva la vita? Che importava se una persona
era buona o cattiva? Che conforto si poteva trovare in ‘Dio’?'
La liberazione: 'A
ottobre avevano ordinato la fine della soppressione degli ebrei e a novembre
aveva deciso di far saltare in aria le camere a gas e i forni crematori di
Auschwitz, con l’intenzione di eliminare ogni traccia di ciò che vi era
accaduto (…). Potevano avere la tentazione di ammazzarci tutti piuttosto che
lasciare qualcuno a raccontare i fatti (…). Dormimmo tutta la notte e mi svegliai al mattino del 19 gennaio 1945 con una stranissima sensazione di calma assoluta. Aprii gli occhi e mi
guardai intorno: la baracca pareva quasi vuota e non c’era nessuna delle solite
attività mattutine. Scesi dal letto e uscii in esplorazione. Non si vedeva
nessuno (…). Era rimasto solo un piccolo gruppo di prigionieri dalla salute
precaria, come noi. Eravamo pelle e ossa,
ma cominciammo immediatamente a organizzarci per sopravvivere fino all’arrivo
dei sovietici. Era un grandissimo senso di liberazione sapere che se n’erano
andati i tedeschi – quanto avevo desiderato quel giorno – ma sapevamo che ci
aspettavano ancora enormi difficoltà' (…).
'La cosa peggiore che abbia mai fatto in
vita mia fu portare fuori i corpi rigidi di donne che avevo imparato a
conoscere. Reggendole, sentivo che si erano ridotte al lumicino, guardavo i
loro occhi sbarrati e le bocche spalancate e sapevo che avevano resistito tanto
a lungo e piene di speranza fin quasi alla fine. Vidi più persone morire in
quei pochi giorni che in tutta la mia permanenza a Birkenau' (…).
L’arrivo dei soldati sovietici: 'Ci
dirigemmo nervose all’ingresso per osservare quella insolita scena. E in
effetti c’era un ‘orso’. Un uomo grosso
ricoperto da una pelle d’orso che ci fissava con la medesima espressione
sbigottita. Forse avrei dovuto essere più cauta, ma in quel momento provai solo una gioia irrefrenabile. Gli corsi incontro e lo abbracciai. Era il
27 gennaio 1945 e le forze sovietiche erano venute a liberarci (…). Furono
giorni incerti e disperati, e il fatto che fossimo così prossime alla libertà
rendeva la morte ancora più crudele. E’
duro accettare che molte donne fossero decedute non per mano dei nazisti, ma
per aver mangiato il buon cibo caldo fornito dai nostri liberatori. Dopo
aver fatto la fame tanto a lungo, i loro corpi non erano riusciti a sopportare
il repentino cambio di dieta (…). Passai sotto l’insegna in metallo, forgiata
da un prigioniero su istruzione dei nazisti, che recitava menzognera ‘Arbeit
macht frei’ (il lavoro rende liberi). Ricordo
di aver pensato che era una ben piccola e misera riproduzione dell’ideologia
più malvagia che il mondo abbai mai conosciuto.'
'Più di un milione di ebrei venne assassinato ad Auschtwitz-Birkenau e, al momento della liberazione, eravamo in vita solo in seimila (…). Io e Mutti avevamo resistito per pura fortuna, grazie alla forza di volontà e alla protezione di Minni (una conoscente anch’essa deportata). Eravamo sopravvissute alla più perversa ideologia di pulizia etnica della storia. I nazisti ci avevano braccati per tutta Europa, guidati da una folle ossessione e dalla determinazione a non fermarsi fino all’eliminazione dell’ultimo ebreo. Ero viva, ma avrei dovuto imparare di nuovo a vivere e trovare il mio posto in un mondo che spesso non voleva conoscere gli orrori a cui avevo assistito.'
Fonte: 'Sopravvissuta ad Auschwitz' di Eva Schloss, Karen Bartlett. Newton Compton Editori
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