venerdì 25 giugno 2021

Scuola, una volta c’erano gli esami di Stato

In questi giorni si stanno per concludere, per decine di migliaia di docenti ed alunni i colloqui degli esami di Stato, ma hanno ancora un senso?

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da istruzione.it

E’ ora di adempiere alle ultime formalità, inserire le schede dei candidati ed i verbali nel plico, sigillarlo con i bolli di ceralacca, compilare i registri riepilogativi, gli attestati e le certificazioni, preparare tutto il materiale da consegnare o riconsegnare alla scuola dove si sono svolti gli esami di Stato.

E’ una calda ed afosa giornata di giugno e decine di migliaia di professori, candidati e collaboratori della scuola stanno svolgendo la loro mansione con particolare attenzione, quella tipica di chi sa che sta eseguendo un compito delicato, che inciderà per sempre nella vita e nella memoria di esaminatori ed esaminati. Chi non ricorda i professori degli esami di Stato, l’elaborazione delle prove, il voto finale e le presunte o reali ingiustizie fatte dagli esaminatori?

Di questi giorni, oltre al voto finale rimarranno le titubanze e le gaffe fatte dai ragazzi e le facili ed inopportune ironie di chi, ormai adulto, non rammenta o fa finta di non rammentare gli errori commessi quando si è trovato nella medesima situazione.

Una volta c’erano le discussioni sulle valutazioni tra docenti ‘interni’, i professori cioè che hanno seguito i ragazzi per tutto l’anno ed in alcuni casi per tutto il percorso formativo della scuola superiore, e quelli ‘esterni’che invece giudicavano solo le prove dell’esame. L’opinione dei primi difficilmente coincideva con quella dei secondi ma una sintesi, anche se a volte era preceduta da estenuanti e spesso inutili discussioni, si trovava quasi sempre. Quest’anno questi contrasti non si ripeteranno e potrebbero non ripetersi mai più.

C’è chi ritiene, tra i docenti, che l’esame di Stato sia un inutile tour de force, un ‘rituale’ a cui si devono sottoporre alunni ed insegnanti delle scuole medie e di quelle superiori. Per altri invece è un importante passaggio verso il mondo degli adulti, verso la maturità.

I cambiamenti legislativi sulle sue modalità di svolgimento della prova lo hanno reso ancora più semplice. Qualcuno ritiene sia giunto il tempo di eliminare le prove scritte e di mantenere le commissioni composte esclusivamente da docenti interni. Niente più errori di ortografia o di grammatica, ne strafalcioni negli elaborati, resterebbe solo un’interrogazione con tutti i professori, nient’altro. Vedremo.

Intanto, migliaia di giovani stanno per conseguire il diploma di scuola superiore, quello che una volta era considerato un importante ‘pezzo di carta’, ma prima dovranno rispondere all’ultima fatidica domanda: cosa farai dopo aver conseguito il diploma? Questo quesito è posto per soddisfare la curiosità dei professori, ma non è un 'obbligo' imposto dal ministero ed i docenti, in questi tempi difficili in cui proseguire negli studi costa troppo e trovare un lavoro è quasi un terno al lotto, farebbero bene a porlo sottovoce e senza insistere troppo di fronte alle eventuali titubanze dei ragazzi.   

Fonte REDNEWS

 

mercoledì 23 giugno 2021

Recovery plan, ecco come utilizzare i finanziamenti

Sarà realizzato a Ragusa il primo progetto di transizione energetica nel settore dell’agricoltura, un esempio concreto su come utilizzare le risorse del Recovery plan valorizzando le imprese del territorio

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da ragusanews.com

Il primo progetto di autoconsumo collettivo nell’agricoltura sarà realizzato in Sicilia, a Ragusa. Il piano prevede la realizzazione di un parco fotovoltaico della potenza di 200kw e della piattaforma tecnologica per la gestione della comunità energetica.

La principale caratteristica dell’impianto sarà la condivisione tra un gruppo di aziende attive nel settore agricolo. Le piccole e medie aziende sono guidate da La Mediterranea Società Consortile Agricola. Il Consorzio è costituito da una pluralità d’imprese che operano nel territorio e che potranno condividere virtualmente i propri consumi di energia, ottenendo nello stesso tempo incentivi statali ventennali che saranno redistribuiti tra tutti gli iscritti.

L’energia prodotta dall’impianto fotovoltaico sarà utilizzata al 100% dalle aziende che fanno parte del Consorzio. Grazie all’impianto sarà evitata l’emissione di 121 tonnellate di CO2 l’anno. Questo consentirà di ridurre significativamente le emissioni di gas serra a tutto benefico ambientale ed economico del territorio.

Enel x metterà a disposizione le proprie tecnologie e le proprie infrastrutture per supportare la transizione energetica delle imprese e la loro sostenibilità. Il piano sarà finanziato dalla locale Banca Agricola Popolare.

Quella ragusana è la prima comunità di autoconsumo collettivo operativa in Italia nel settore dell’agricoltura. Un esempio replicabile su tutto il territorio nazionale. Un’iniziativa che potrebbe consentire alle Piccole e Medie imprese la transizione energetica e la crescita della competitività.

Utilizzare fonti energetiche e materiali rinnovabili, prolungare la vita utile dei prodotti, creare piattaforme di condivisione, riutilizzare e rigenerare prodotti o componenti, ripensare i prodotti come servizi’, si legge sul sito di Enel x. Ed ancora: ‘Un nuovo modello di produzione e consumo che conduce verso uno sviluppo sostenibile e rappresenta per le aziende una straordinaria opportunità in termini di competitività e innovazione, creando valore tanto per le imprese quanto per i loro clienti’.

Economia circolare e sostenibile, investimenti nel Mezzogiorno ed incentivi alle imprese che operano sul territorio. Il piano di transizione energetica che si realizzerà a Ragusa è un modo intelligente di investire risorse e competenze. Un progetto concreto su come devono essere utilizzate le risorse del Recovery plan e non solo.

Non è la prima volta che succede, ma è un’opportunità che la Sicilia ed il Sud non possono e non devono sprecare.

Fonte enelx.com

sabato 19 giugno 2021

La guerra tra poveri la vincono i ricchi

Immigrati e minori sono i poveri tra i poveri. A sostenerlo è il rapporto pubblicato dall’Istat

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da identitainsorgenti.it

Secondo le stime dell’Istat nel 2020 un milione 337mila minori viveva in povertà assoluta. Dato che corrisponde al 13,5% del totale, mentre quello degli individui a livello nazionale è al 9,4%. La situazione è peggiorata rispetto al 2019 (11,4%). L’incremento maggiore è stato registrato al Nord (da 10,7% a 14,4%). Nel Centro la percentuale è aumentata da 7,2% a 9,5%. Ovviamente quella più alta è sempre nel Mezzogiorno con il 14,5%.

Molto elevata è la povertà assoluta tra gli stranieri. Secondo il rapporto dell’Istituto di statistica sarebbero oltre un milione e 500mila individui. L’incidenza è del 29,3%, mentre per gli italiani è del 7,5%.

Le famiglie con stranieri in condizioni di estrema indigenza sono il 28,3%, cioè oltre 568mila. Ed è del 26,7% per le famiglie composte esclusivamente da stranieri (nel 2019 era del 24,4%).

Il Reddito di cittadinanza e le misure economiche adottate dal Governo negli ultimi 15 mesi come il Reddito di emergenza non sono stati sufficienti a porre rimedio ad un dramma sociale vissuto da milioni di persone.

I sostegni ed i ristori hanno raggiunto, secondo l’osservatorio dell'Inps, circa quattro milioni di individui. A maggio 1,3 milioni di famiglie hanno beneficiato del Reddito o Pensione di Cittadinanza (+16% sul 2020). L’importo che hanno percepito è stato in media di 552 euro mensili. 433mila sono le famiglie che hanno ricevuto almeno un pagamento per il Reddito di Emergenza previsto nel Dl Sostegni. La Campania è la Regione con il numero più alto di nuclei che hanno riscosso il Rdc (255.245), quasi come l’intero Nord.

Non può esserci libertà senza giustizia sociale’, ripeteva sempre Sandro Pertini. Come dargli torto. Siamo nel 2021 ma le disuguaglianze anziché diminuire crescono. Cosa stiamo sbagliando? Dove abbiamo sbagliato? I lavoratori hanno bisogno di un’occupazione stabile e pagata adeguatamente, non di impieghi precari o di assistenza. 

La dignità umana, almeno per la maggioranza degli individui, non può prescindere dal lavoro. Ed è altrettanto certo che la guerra tra poveri la vincono i ricchi, sempre. 

Fonti istat.it e inps.it

mercoledì 16 giugno 2021

Istat: famiglie ‘sicuramente povere’ soprattutto nel Mezzogiorno

L’incidenza delle famiglie in povertà assoluta si conferma più alta nel Mezzogiorno (9,4%, da 8,6%), ma la crescita più ampia si registra nel Nord dove la povertà familiare sale al 7,6% dal 5,8% del 2019

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da istat.it

Torna a salire la povertà assoluta. A sostenerlo è il rapporto pubblicato dall’ISTAT. Secondo le stime dell’Istituto di ricerca pubblico nel 2020 erano oltre due milioni le famiglie in povertà assoluta (7,7% del totale). Si tratta di 5,6 milioni di individui, cioè il 9,4% dei residenti nel nostro paese. In aumento dell’1,6% rispetto al 2019.

Nel Mezzogiorno l’incidenza si conferma più alta, lo scorso anno è passata dall’8,6% del 2019 al 9,4%. Mentre nel Nord è salita al 7,6% dal 5,8%.

Cala anche se di poco il tasso di povertà relativa. Le famiglie in tali condizioni sono circa 2,6 milioni (10,1%). Si tratta di oltre 8 milioni di individui (13,5%).

A livello territoriale l’incidenza più alta si registra al Sud con il 18,3%, mentre nel Nord si attesta al 6,3% ed al Centro al 6,4%.

Le regioni con i tassi di povertà relativa più alti sono la Basilicata (23,4%), la Campania e la Calabria (20,8%), mentre le percentuali più basse sono state registrati in Trentino-Alto Adige (4,3%), in Emilia-Romagna (5,3%) e in Valle d’Aosta (5,4%).

Le famiglie ‘sicuramente povere’ cioè con livelli di spesa mensile sotto la media standard di oltre il 20% sono il 4,5%, nel Mezzogiorno sono l’8,6%.

I nuclei familiari ‘appena poveri’ cioè con una media di spesa mensile non oltre il 20% rispetto al livello medio sono il 5,6%, al Sud il 9,8%. Mentre è ‘quasi povero’, cioè con una spesa mensile superiore alla media ma non oltre il 20%, il 7,3% del totale, al Sud è il 5,3%.

Le famiglie ‘sicuramente non povere’ sono l’82,6% del totale, nel 2019 erano l’81,4%.

Fonte istat.it

lunedì 14 giugno 2021

Ilo: nel mondo oltre 220 milioni di disoccupati

I ricchi sono sempre più ricchi, mentre i disoccupati ed i poveri aumentano di numero

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro quest’anno nel mondo oltre 220 milioni di persone reteranno disoccupate. Un miglioramento dovrebbe registrarsi nel 2022, ma rimarranno comunque al di sopra dei 117 milioni registrati nel 2019, prima cioè dello scoppio della pandemia dovuta al Covid-19.

Il tasso di disoccupazione globale dal 6,3% scenderà il prossimo anno al 5,7%, rimanendo quindi superiore al 5,4% del periodo pre-Coronavirus.

Secondo gli economisti dell’Ilo la crescita dell’occupazione non riuscirà ‘a compensare le perdite fino ad almeno il 2023’. Inoltre, occorre aggiungere la riduzione imposta dell’orario di lavoro. Quelle perse ammonterebbero a circa 144 milioni di posti a tempo pieno.

Tra le tante caratteristiche tipiche del sistema capitalistico ce n’è una che non si smentisce mai. A pagare le conseguenze delle congiunture economiche recessive sono soprattutto i ceti meno abbienti. Le indagini statistiche pubblicate negli ultimi mesi confermano questa peculiarità. L’epidemia dovuta al Covid-19 non solo sta mietendo più vittime nei paesi del terzo mondo, ma sta accentuando le ingiustizie.

I ricchi sono sempre più ricchi, mentre i disoccupati ed i poveri aumentano di numero. E non importa se la crisi è finanziaria o pandemica e se a causarla non sono i lavoratori, la conseguenza sociale che essa determina è sempre la stessa: un incremento delle disuguaglianze.

L’ineluttabilità dei privilegi non è scontata, è frutto di una volontà politica che può essere capovolta in qualunque momento. Certo è difficile ed è complicato, ma è sempre possibile, basta volerlo.

Fonte ilo.org



martedì 1 giugno 2021

L’1% più ricco ha visto aumentare il patrimonio del 43%

La pandemia non solo ha aumentato la disuguaglianza di reddito, ma anche la disparità nella distribuzione della ricchezza’, a sostenerlo è Florian Scheuer, professore di economia all’università di Zurigo

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da vocisinistre.com
Il valore dei patrimoni privati in Svizzera è raddoppiato negli ultimi 20 anni. Secondo i dati comunicati dalla Banca Nazionale (BNS) il volume di azioni, immobili e averi delle casse pensioni, esclusi oggetti come gioielli ed opere d’arte, è duplicato dal 2001 ad oggi.

Un’indagine compiuta nel 2019 dall’Amministrazione federale elvetica (AFC) sui dati 2003-2015 ha stabilito che l’1% più ricco della popolazione ha visto aumentare il patrimonio del 43%, mentre per il 75% meno benestante l’incremento è stato del 19%. Ad aumentare è stato soprattutto il valore dei beni immobiliari. Lo svizzero medio secondo questa indagine è il più ricco del pianeta.

Non solo. La concentrazione del capitale è destinata ad accrescersi in questa fase di epidemia dovuta al Covid-19. A sostenerlo è il professore di economia all’università di Zurigo, Florian Scheuer. La pandemia non solo ha aumentato la disuguaglianza di reddito, ma anche la disparità nella distribuzione della ricchezza’.

Ed ancora: ‘I super-ricchi hanno ad esempio visto i loro beni attraversare la crisi molto bene, grazie alla rapida ripresa dei mercati azionari. Ma anche i benestanti (ma non ultraricchi) hanno potuto risparmiare di più: le famiglie con redditi elevati sono state spesso in grado di spostare il loro lavoro a casa, economizzando sulle spese di consumo. Al contrario chi ha un reddito basso ha dovuto attingere ai risparmi o addirittura indebitarsi. Queste diversità, secondo Scheuer, probabilmente contribuiranno ad alimentare ulteriormente la crescente disuguaglianza in materia di ricchezza’.

Fonte RSINEWS

lunedì 24 maggio 2021

Mario Draghi dice no alla 'tassa sui ricchi’

Mario Draghi boccia la proposta del segretario del Partito democratico di tassare le successioni dei grandi patrimoni

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Mario Draghi e Enrico Letta
(foto da theitaliantimes.it)

L’iniziativa del segretario del Partito democratico non è una novità. Non si tratta di una nuova imposizione fiscale, ma di reintrodurne una che era stata cancellata dal governo di Silvio Berlusconi.

Un'imposta del 20% sulle successione oltre i 5 milioni di euro per finanziare progetti per l’occupazione dei giovani. Questa è in sintesi la sua proposta. Il presupposto di Enrico Letta è semplice. Molti neodiplomati o neolaureati fanno fatica a trovare lavoro e spesso sono costretti ad emigrare o peggio ancora a non trovare una occupazione stabile.

Lo Stato deve invertire questa tendenza. Occorre dare un'opportunità di impiego a chi intende restare nel nostro paese. Ecco alcune proposte concrete. Portare l’obbligo scolastico a 18 anni. Finanziare gli studi universitari a chi non può permetterselo. Investire nella ricerca e nelle startup. E così via.  

Tutto questo ha un costo e, secondo il segretario democratico, non può e non deve essere coperto ricorrendo ad altro debito pubblico. Finirebbe per gravare sul futuro dei giovani che si vogliono aiutare. Una tassazione sulle successione dei ‘ricchì’ sarebbe la soluzione. Non solo. Sarebbe anche giusta da un punto di vista etico. Le eredità milionarie servono a garantire un privilegio. Ad accrescere cioè disuguaglianze ed ingiustizie. Sarebbero, inoltre, la principale causa delle migrazioni di giovani verso città e paesi che invece sono felici di accogliere italiani capaci e preparati che nel nostro paese non trovano lavoro.

La proposta di Enrico Letta è una goccia in un oceano di ingiustizie, eppure Mario Draghi ha detto di no. Che non è il momento di chiedere ma di dare. Strano modo di ragionare quello del presidente del Consiglio. Di cosa ha bisogno uno che ha ereditato un patrimonio milionario o addirittura miliardario?

Gli oltre 43 mila euro di debito pubblico che gravano su ogni italiano non fanno nessuna differenza tra il disoccupato ed il ricco, quello è un ‘fardello’ uguale per tutti, non distingue cioè tra il benestante ed il povero, tra l’anziano ed il giovane, è una ‘montagna’ che pesa indifferentemente su tutti, neonati compresi.

Oggi è un debito sostenibile perché i tassi di interesse che dobbiamo pagare ogni anno sono ‘insignificanti’, si fa per dire, ma quando questi torneranno a crescere chi dovrà sopportarne le conseguenze? Non c’è bisogno di essere un indovino per capire che saranno soprattutto i giovani, in particolare quelli che hanno un lavoro precario e malpagato, ma per il nostro premier non è il momento di chiedere ma di dare.

Quando c’è da prendere siamo tutti uguali, quando c’è da pagare emergono le differenze. Tutto, ovviamente, senza se e senza ma.

domenica 16 maggio 2021

Medio Oriente: a morire sono sempre i civili

A fare le guerre sono le élite militari e politiche, ma a subirne le conseguenze sono i popoli

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da @Barahmeh

Le vittime delle guerre sono soprattutto i civili. Quello che sta avvenendo in questi giorni in Medio Oriente è solo l’ennesima conferma: a pagare sono i più deboli, gli innocenti, quelli che muoiono e non sanno neanche il perché.

Il raid aereo israeliano su Gaza di ieri ha provocato 26 morti, tra cui 8 bambini. I feriti sono stati 50. Nella notte erano stati lanciati oltre cento razzi su Israele. Le vittime sono salite a 10, i feriti sono un centinaio, per lo più leggeri. Nella striscia di Gaza i morti sono stati finora 198, di cui 58 bambini, i feriti sono oltre mille. Intanto continuano le proteste in varie città, dall’inizio del conflitto i palestinesi uccisi nelle manifestazioni in Cisgiordania sono diciannove.

La storia si ripete ancora una volta e non ammette eccezioni. Il conflitto Medio Orientale continua a mietere vittime innocenti. Quella palestinese è una terra martoriata. Due popoli costretti a convivere nello stesso spazio, ma non riescono a farlo in pace.

Gerusalemme è una città contesa da secoli. Un luogo Santo per i fedeli di tre religioni. Chi crede in un Dio misericordioso non dovrebbe imporre con la violenza la sua fede. Il rispetto dell’altro, della vita, della dignità umana sono principi sanciti sia dal Corano che dal vecchio e dal nuovo Testamento. Fedi che hanno in comune la stessa radice monoteistica. Eppure, questi valori di pace e di fratellanza sono utilizzati spesso per giustificare guerre e conflitti.

Nessun Dio giustifica la morte altrui in nome suo. Allora perché cristiani, ebrei e islamici continuano a farlo? Le insicurezze dell’uomo trovano nella fede uno strumento per superarle. Tutti i popoli si sono dati una religione. Una perdita di quei valori o una loro violazione sono considerate eventualità da impedire a tutti i costi. Ed è così che esse sono diventate spesso il motivo dei conflitti. Ancora oggi è così.

A fare le guerre sono le élite militari e politiche, ma a subirne le conseguenze sono i popoli. Questo spiega perché esse si ripetono con continuità nel tempo. Si possono impedire? Le organizzazioni internazionali preposte a questo scopo non bastano. Occorre fare di più. Fino a quando ci saranno disuguaglianze e ingiustizie o, comunque, situazioni considerate come tali, i conflitti non saranno evitabili.

Il bisogno di sicurezza può essere garantito anche senza guerre, ma a comprenderlo devono essere per primi le élite politiche e istituzionali. Decidere di bombardare e seminare morte è relativamente 'facile' per chi ha il potere, tanto a pagarne le conseguenze non saranno loro.

sabato 15 maggio 2021

Il super Santos era bucato o sgonfio, ma a noi bastava

Il calcio era il nostro gioco. Quello parlato e radiotrasmesso da ‘Tutto il calcio minuto per minuto’ era fantasia. Era, cioè, quello che avremmo tentato di ripetere nei campetti di periferia con la vana illusione di esserne un giorno protagonisti

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Il super Santos - (foto di Giovanni Pulvino)
Tutto avveniva con semplicità. La strada o il cortile erano il campo da gioco, due sassi i pali delle porte, un super Santos sgonfio o bucato era il pallone. Una volta uno di noi ne comprò uno di quelli buoni, costosi, almeno così ci sembrò. Quel pallone durò ventiquattro ore. Durante l’unica partita che disputammo in piazza Marina, allora era ancora in terra battuta, finì nel cortile di una signora che lo sequestrò e lo bucò. Per il nostro amico fu un piccolo dramma, fu la prima e l’ultima volta che i suoi familiari gli acquistarono un pallone. Lo sostituimmo con un super Santos bucato o comunque sgonfio. Proprio per questo raramente raggiungeva il cortile di quella signora. In ogni caso sarebbe stato facile trovarne un altro, sempre sgonfio ovviamente. Non potevamo permetterci altro. Le priorità per le famiglie allora erano altre. Non eravamo bambini impertinenti o maleducati, e, raramente, il pallone giungeva nei pressi di quell’abitazione. Quello ci arrivò perché era nuovo e gonfio. Quando giocavamo nella spiazzo vicino alle case c'era una signora che andava ad aprire l'uscio della sua abitazione con l'intento preciso di sequestrarci il pallone se questo fosse entrato dentro il suo appartamento. Non succedeva quasi mai, ma lo scopo era evidente: non voleva che giocassimo su quella parte della piazza. Non ho mai capito il perché di quel comportamento e di quel rancore. In noi non c’era cattiveria, in fondo non facevamo nulla di male, giocavamo con quel poco che avevamo. La nostra gioia era correre dietro ad un pallone di plastica, nient’altro.

Ci bastava poco per riempiere di allegria i nostri pomeriggi, sempre gli stessi, ma erano spensieratezza e felicità. Si erano felicità.

Per un breve periodo giocammo in un campo in erba, si fa per dire. Era fuori dal paese. Era un rettangolo grande, almeno così ci sembrò a quell’età, aveva qualche buca, ma ci bastò alzare i pali delle porte o mettere due pietre per dargli un aspetto verosimile a quelli della Serie A. Era piacevole fare persino il portiere. Facevamo i tuffi e divenne interessante fare un ruolo che nessuno voleva ricoprire. Di solito in porta ci andavano i ‘più scarsi’ o si giocava senza portiere. Quella piacevole sensazione di giocare su un campo in erba durò poco, il proprietario del terreno lo fece arare e lo adibì a pascolo.

I pensieri sono impressi in qualche angolo della nostra memoria. Quelli che ritornano con continuazione sono scoloriti, ma poi se ne aggiungono altri, ed altri ancora, ma sono anch’essi in bianco e nero.

I giocatori eravamo solo tre, ma non rinunciammo a fare una partita. Giocai contro due avversari. Ebbene per me fu agevole vincere, perché uno dei due rivali era così ‘scarso’ che era semplice rubargli la palla quando il suo compagno per altruismo gliela passava. Andare a segnare nella porta vuota era facile. Non ero io che ero bravo, ma era uno dei miei due avversari ad essere ‘titubante’ con il pallone tra i piedi. Io ne approfittai soltanto.

Un altro pensiero torna sempre … non riesco a fermarlo ….

Chissà quanti vasi ho rotto e quanta pazienza hanno avuto i vicini di casa. Avevo l’abitudine di giocare da solo. Andavo avanti e indietro calciando il super Santos sul muro o sui gradini delle case di piazza Marina che sono attaccate le une con le altre. L’abilità consisteva nel tirare calci di prima con entrambi i piedi senza far cadere la palla giù dal marciapiede, ovviamente c’erano gli ingressi delle case e i vasi terracotta come ostacoli da evitare, dovevo stare attento, ma credo che ci volle molta pazienza per chi ci abitava. Li ho imparato a giocare, li è nata probabilmente la passione per il calcio, mantenuta per sempre, anche ora che non ci potrà più essere nessun paragone o critica, non più almeno come avveniva allora. 

Nei piccoli paesi non puoi sceglierti i compagni di gioco, quelli sono, non possono essere altri, sono loro che segnano gli anni dell’adolescenza, quelli della gioia e della spensieratezza, dei ricordi inconsapevoli.

Ci ritrovavamo quasi sempre nel primo pomeriggio. Il pallone non mancava mai. A volte ci inventavamo i giochi. Uno di questi era a chi faceva più palleggi. Di solito a vincere erano quelli che consideravamo più scarsi. Uno di noi fece mille palleggi senza far cadere il pallone per terra. Ancora oggi facciamo fatica a crederci, ma avvenne veramente. Quel nostro amico era imbattibile, ma a calcio era una ‘schiappa’.

Quando eravamo in tanti facevamo le partite. Tutti partecipavano, torremuzzari e ‘nzusari di ogni età, anche chi non aveva nessuna voglia di giocare, ma per non essere escluso dal gruppo si cimentava lo stesso o finiva in porta. Le squadre erano sempre diverse, ma cercavamo di farle bilanciate. Due di noi sceglievano i compagni, uno per volta, l’equilibrio era facile da realizzare.

Spesso giocavamo nello spiazzale della scuola elementare. Pochi metri, con restringimenti dei muri ed una specie di discesa. Capitava che erano di più i giocatori che i metri quadrati del ‘campo’, se così possiamo chiamarlo. Erano partitelle combattute come se fossimo stati dei veri professionisti. Le regole erano quelle del buon senso, ma spesso non contavano. Non erano partite a tempo, ma a chi faceva più gol o a chi arrivava per primo a dieci. Spesso finivamo di giocare con il buio, con la tenue luce che veniva dalla strada adiacente. Una volta eravamo in tanti in pochi metri quadrati. Le mischie erano inevitabili. I difensori tentavano di impedire che la palla toccasse il muro che faceva da porta e gli attaccanti con spinte e calci tentavano invece di fare gol. Le loro grida stavano ad indicare che ci erano riusciti, ma i difendenti di solito non erano d’accordo, reclamavano una spinta di troppo o che la palla fosse uscita fuori dalla porta. Tutto era aleatorio anche i pali, quindi spesso non c’era certezza sull’esito dei tiri e dei gol.

Un’altra volta giocammo sotto la pioggia battente. Il pallone non ribalzava nelle pozzanghere anche se il campetto era in mattonelle. Ci sembrò di essere dei veri calciatori che, si sa, giocano con qualunque condizione atmosferica. Il cortile Marina era stato pavimentato da poco. Non c’erano macchine. Sembrava un campo di calcetto in un palazzetto dello sport. Lì sfidammo i ragazzi della colonia di Reitano che ogni estate venivano in gita nella piccola borgata. Li battemmo tra gli applausi di chi ci stava guardando, sembrava di essere in uno stadio vero o almeno così mi piace ricordarlo. Per noi giocare a calcio era naturale. Vincevamo quasi sempre. L’intesa era istintiva. Probabilmente perché conoscevamo ogni metro quadrato di quelle piazze o forse perché eravamo veramente bravi.

E, comunque, non importava il risultato finale, ormai avevamo dato sfogo alle nostre fantasie. Il calcio era ed è il nostro gioco, quello dell’adolescenza, quello che segna i pensieri e la vita di chi nell’infanzia ha potuto disporre solo di un super Santos bucato.

sabato 8 maggio 2021

Matteo Salvini come Matteo Renzi?

Matteo Salvini come Matteo Renzi? Il comportamento dei due segretari di partito è simile. L’insofferenza per ogni decisione presa da questo o quel ministro, da questo o quel governo di cui fanno parte è analoga. L’Esecutivo dell’ex governatore della Bce subirà la stessa sorte del Conte 2?

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Matteo Renzi e Matteo Salvini

Tutto quello che delibera il governo di Mario Draghi non è mai abbastanza per il leader della Lega. Esattamente come non era sufficiente per Matteo Renzi quello che decideva l’esecutivo del Conte 2.

C’è una specie di sintonia politica e caratteriale tra il Matteo fan di Albert de Giussan e quello di Italia viva. Entrambi operano nel solo interesse di parte. La loro è una conduzione verticistica dei rispettivi gruppi parlamentari e non ammettono contestazioni. Non concepiscono critiche o dubbi sulla linea politica. La leadership, nonostante la caduta di consensi, non è mai messa in discussione.

Per loro è una sofferenza dover sostenere un Governo di cui non sono Premier. Per Renzi è stato il Mes il motivo addotto per far cadere la maggioranza Giallo-rossa, per Salvini quale sarà il 'casus belli' della rottura?

Entrambi sono reduci da maggioranze parlamentari di cui erano protagonisti. Il primo riteneva che la rottamazione della Sinistra sarebbe stata la strada maestra per consolidare il potere. Il secondo, invece, ha valutato superfluo ed ingombrante l’accordo con il M5s. Matteo Salvini lo ha fatto per andare alle elezioni anticipate, Matteo Renzi per impedirle.

L’obiettivo era ed è gestire il potere senza intralci, senza mediazioni, per loro queste ultime non sono necessarie. Ed è per questo che non riescono a stare fermi. Sono sempre in movimento. Non conta la strategia e la coerenza nel medio o lungo periodo, ma solo il fine immediato da raggiungere.

Il ruolo di 'outsider' non è ritenuto adeguato alle loro capacità di direzione e comando. Fare da spalla al protagonista della commedia non rientra nei loro parametri caratteriali e politici. Sostenere maggioranze di cui non sono leader è un’afflizione malcelata, ma entrambi hanno dovuto abbozzare in attesa di tempi migliori.

Di certo al Matteo leghista non sembra vero di essere tornato al governo, ma di questo deve ringraziare il Matteo fiorentino. Così come il Matteo toscano deve esprimere gratitudine a quello padano per avergli permesso di essere protagonista del Conte 2.

I due politici si ispirano a principi e valori in apparenza diversi, ma i comportamenti sono simili. Salvini invoca l’abolizione del coprifuoco alle ventidue, Renzi pure. L’ex Sindaco di Firenze ha fondato la sua politica sulla meritocrazia, quella degli altri ovviamente, il leader leghista non è da meno. Il primo vuole abbassare le tasse, il secondo anche. Il loro nemico politico comune è la Sinistra. Entrambi, in attesa di ereditarne il consenso, non possono fare a meno di un’alleanza con Forza Italia.

Sono destinati ad incontrarsi? Chissà. Se così sarà lo sarà solo per necessità e di certo un Governo con tali presupposti e con questi leader non potrebbe durare a lungo.