lunedì 22 giugno 2020

Gli Esami di Stato al tempo del Coronavirus

Gli Esami di Stato 2020, quelli svolti con la mascherina saranno ricordati da tutti, anche da coloro che non li hanno sostenuti. Ora per questi ragazzi e non solo  sarà tutto diverso, sarà tutto più difficile

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da ravennaedintorni.it
Tutti ricordano gli Esami di Stato. L'ansia provata in attesa del fatidico giorno. Il ripasso veloce prima di entrare in aula. Le titubanze dei primi momenti del colloquio. La preoccupazione di dover rispondere ad un quesito difficile e il desiderio di esporre quanto studiato. Poi la visione degli scritti, l’ultima domanda ed una risposta breve con la consapevolezza di non aver detto tutto quello che nei mesi precedenti si era imparato con ore ed ore di studio. Infine, la stretta di mano dell’ultimo commissario che con un sorriso anticipava il buon esito dell’Esame e, liberatorio, l’abbraccio e gli auguri dei compagni, degli amici e dei famigliari.
No. Quest’anno non è così. Stavolta c’è la mascherina e il distanziamento ad accompagnare la solitudine del candidato. Di fronte la Commissione composta quasi esclusivamente dai docenti della propria classe. Niente scritti, solo un colloquio orale. L’ambiente predisposto per l’Esame sembra un luogo surreale, tanta è la differenza con il passato. Eppure, sono gli stessi corridoi e le stesse aule frequentate per quasi cinque anni. La stanza è spoglia, i banchi distanziati, i professori seduti ordinatamente, tutti con la mascherina.
Non una stretta di mano, non un sorriso di incoraggiamento. Soli, con il viso nascosto dalla protezione sanitaria. Conciati così si potrebbero digrignare i denti, fare una boccaccia, ridere, mandare un bacino, nessuno vedrebbe nulla. Soli, con i propri timori e le proprie incertezze. Con un tono della voce inverosimile, quasi irriconoscibile.  Ascoltare le parole dei commissari senza poter guardare il movimento delle labbra è come udire un suono in lontananza o al buio. Quello che pensavamo di quel docente, ora, con questa strana tonalità di suoni, prende un altro senso. E' un altro o un'altra, chissà se è proprio il mio prof o la mia prof. E chissà se i miei insegnanti riconosceranno, dietro il suono ovattato della voce, il loro alunno: è quello timido o quello sbruffone, chissà se è sempre lo stesso, se si confondono. Inizia il colloquio, finalmente si può abbassare la mascherina, la voce torna normale, la respirazione è comunque affannata e la tensione non va via, rimane a rendere infinito il tempo di una conversazione di pochi minuti.
Ma proprio quando si vorrebbe continuare a parlare, l’Esame finisce. È giunto il momento del congedo ed occorre rimettere la protesi che rende difficile la respirazione ed impedisce la comunicazione facciale. Non c’è la stretta di mano consueta, ma un saluto fatto con gli occhi, con il tono della voce, con un gesto del braccio o della mano. Il sorriso che esprime la soddisfazione o il sollievo c'è, ma è celato dalla mascherina.
Non importa, con o senza protesi il giovane studente è già un'altra persona, un po' più matura, un po' più sola. Non è più il ragazzo o la ragazza che pochi mesi prima stava seduta o seduto distrattamente sul suo banco, che ormai sarà per sempre di un altro o di un'altra. Eppure, è stato un Esame unico, che tutti ricorderanno, anche quelli che non lo hanno sostenuto. Ora comincia una vita nuova, quella degli adulti e con o senza mascherina sarà tutto diverso, sarà tutto più difficile.

giovedì 18 giugno 2020

Ma Di Maio ed il M5s non avevano abolito la povertà?

Il Rapporto pubblicato dall’Istat sulla povertà è un duro e triste ritorno alla realtà. Forse qualcuno dovrebbe chiedere scusa, ma probabilmente sarebbe inutile

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Luigi Di Maio, 28 settembre 2018
(foto dal profilo Facebook)
Secondo il Report 2019 pubblicato dall’Istat le famiglie in condizione di povertà assoluta sono quasi 1,7 milioni, cioè il 6,4%, nel 2018 era al 7,0%. Il numero complessivo è di 4,6 milioni di persone, cioè il 7,7% del totale, nel 2018 erano l’8,4%. Di questi 1,3 milioni sono minori ed il 26,9% sono cittadini stranieri residenti. Le famiglie in condizioni di povertà relativa sono circa 3 milioni (11,4%), che corrispondono a 8,8 milioni di persone, il 14,7% del totale. La situazione è leggermente migliorata rispetto agli anni precedenti, ma siamo ancora a livelli molto superiori rispetto a quelli del 2008/2009. 
Ma la povertà non era stata abolita con i provvedimenti emanati dal governo Gialloverde? Era il 28 settembre del 2018 quando dal balcone di Palazzo Chigi l’allora Vicepremier, nonché ministro del Lavoro e leader del M5s, Luigi Di Maio annunciava enfaticamente il lieto evento: Abbiamo abolito la povertà?
Pari nu babbu priatu’, un ingenuo contento, così si dice in Sicilia delle persone che si vantano di un fatto che non ha riscontro nella realtà. In quelle ore il leader grillino sembrò un ‘sempliciotto’ che riteneva di aver risolto un problema secolare come la povertà con una manovra finanziaria. Nella realtà tutti sapevano che così non era e che così non sarebbe stato. Nessuno glielo disse o fece finta di non capire? Forse qualcuno dovrebbe chiedere scusa per quelle parole, ma probabilmente sarebbe inutile. Come sarebbe inutile chiedere come mai il Reddito di cittadinanza non abbia risolto il problema.
Il Report dell’Istat è un triste e duro ritorno alla realtà. ‘La povertà purtroppo non è abolita, ma la misura sta dando ottimi risultati e ossigeno a milioni di italiani sfortunati’, ha dichiarato a La Stampa il presidente dell’Inps, Pasquale Tridico. Le vicende umane sono quasi sempre più complesse di quello che pensiamo o che vorremmo che fossero.
La storia dell’uomo è caratterizzata dal conflitto di classe. Dalla continua lotta tra chi comanda e chi ubbidisce, tra padroni e servi, tra borghesi e proletari, tra imprenditori e dipendenti, tra ricchi e poveri. Pensare di risolvere questa contrapposizione con un provvedimento legislativo è ingenuo e velleitario o peggio ancora è ‘disonesto’ verso chi ha bisogno e vive di illusioni.
Comunque sia, il dramma della povertà non si elimina o, più verosimilmente, non si limita con l’assistenzialismo, ma con la dignità del lavoro e con un’equa distribuzione della ricchezza. Sembrano ovvietà, ma metterle in pratica finora è stato impossibile.

Fonte istat.it

martedì 16 giugno 2020

Negli Usa circolano più armi che persone

‘Il diritto dei cittadini di detenere e portare armi non può essere infranto’, questo è quanto afferma il Secondo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti d’America

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da freespeech.org
La conquista del West non è stato un fatto epico come hanno tentato di inculcarci con la cinematografia di Hollywood e non solo. Un intero popolo è stato annientato con la violenza. Consentire ai civili di armarsi era funzionale alla realizzazione di quell’obiettivo. Esigenza confermata con la Guerra d’Indipendenza. I Padri costituenti, quindi, non potevano non inserire nella Costituzione il principio della legittimità del possesso di armi.
Quello che sorprende è come sia stato possibile che in oltre due secoli di storia nel popolo americano non sia nata l’esigenza di un cambiamento. Ancora oggi la maggioranza dei cittadini continua a ritenere necessario il mantenimento di quel principio sancito nel 1787. Cambiare opinione è difficile. Poche multinazionali e decine di migliaia di venditori al dettaglio impediscono ogni tentativo di limitare per legge la vendita di armi e di conseguenza di ridurre la produzione di armi. Secondo un ‘report del Congressional Research Service negli Usa circolano 357 milioni di armi da fuoco contro una popolazione di 318,9 milioni di persone’. Sul suolo del Paese a stelle e strisce circolano più armi che persone. Non solo, ‘il 42% di civili armati del mondo’ è di nazionalità americana.
Per comprare armi basta essere maggiorenni e presentare un documento di identità, ‘il venditore si limiterà a registrare i dati ed associali all’arma’. Chiunque può farsi un arsenale. Nonostante le rigorose misure di repressione previste dall’ordinamento giudiziario, gli Stati Uniti sono il Paese occidentale dove maggiore è il numero di vittime causato da armi da fuoco. Non solo, maggiore è anche il numero di suicidi e l’uccisione di civili attribuita alla polizia. E non è un caso che le sparatorie di massa, cioè quelle con un numero di vittime pari o superiore a 4, siano quasi giornaliere.
Gli Usa sono una superpotenza economica e militare e si ritengono una grande Democrazia, ma, nonostante ciò, restano uno dei Paesi dove i diritti civili non sono pienamente affermati. Non rappresentano cioè un valore primario. Prima viene la libertà di fare profitti, poi, dopo, tutto il resto. Il diritto alla salute, ad una retribuzione dignitosa, all’uguaglianza tra bianchi e neri e, persino, il diritto alla vita sono secondari rispetto al 'business' delle armi. La cultura di un Paese si misura con la sua capacità a garantire i diritti civili e sociali ai suoi cittadini, ed in questo gli Usa hanno molto da imparare da altri popoli, e non solo da quello europeo.

Fonte focus.it

domenica 31 maggio 2020

Il 2 giugno è la Festa dell’Italia antifascista e repubblicana

Il tentativo di Silvio Berlusconi, Matteo Salvini e di Giorgia Meloni di trasformare la Festa della Repubblica in una festa di partito è patetico  

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Il volto 'simbolo' di Anna Iberti, sovrapposta ad una
copia del Corriere della Sera del 6 giugno del 1946, 
con la notizia dei risultati della nascita della 
Repubblica Italiana. La celebre foto fu realizzata da 
Federico Patellani per isettimanale Tempo. Oggi s
trova  presso il Museo di fotografia contemporanea 
di Cinisello Balsamo. (foto da it.wikipedia.org)
Tutte le formazioni politiche che parteciparono alla lotta di Liberazione erano apertamente repubblicane. Nell’aprile del 1946 nel corso del suo primo congresso anche la Democrazia Cristiana si espresse a favore delle Repubblica. L’unica forza politica del Comitato di Liberazione Nazionale che il 2 giugno di quell'anno si schierò a favore della Monarchia fu il Partito Liberale. Comunisti, socialisti, azionisti, cattolici ebbero un ruolo fondamentale nella nascita della nuova forma di Governo. 
Vittorio Emanuele III è stato il principale responsabile dell’ascesa al potere di Benito Mussolini. La marcia su Roma del 28 ottobre del 1922 di poche migliaia di scalmanati poteva essere fermata, ma il Re preferì consegnare il Paese al Duce. L’ondata rivoluzionaria di quegli anni intimorì i Savoia ed i poteri ‘forti’ dell’economia e dell’industria italiana. Ed è per questa ragione che l’avvento del fascismo fu favorito dalla Monarchia e dalle forze anticomuniste ed antidemocratiche. Consenso che continuò anche quando, tra il 1925 ed il 1926, furono approvate le 'leggi fascistissime’ e quelle a ‘difesa della razza’ del 1938. Obbrobri che hanno macchiato in modo indelebile la storia giuridica ed istituzionale del nostro Paese. Non solo. Il due giugno del 1946 gli antifascisti sancirono con il Referendum e l’elezione dell’Assemblea costituente i valori di libertà e democrazia negati durante il Ventennio fascista. Quel giorno la Destra dov’era? Con chi stava? 
La storia non può essere modificata a piacimento e per giustificare la propaganda politica di questo o quel partito. ‘L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro’, stabilisce il primo articolo della Costituzione. Libertà, democrazia, solidarietà sono i valori fondamentali su cui si fonda lo Stato italiano. Sono principi e diritti inviolabili dell’Italia antifascista e repubblicana. Il 2 giugno non è la Festa di una parte politica, ma di tutto il popolo italiano. 
Il fatto è che nel calendario non c’è e non ci può essere una ricorrenza che possa essere ricondotta all’ideologia del Ventennio. Dall’8 settembre del 1943 l’Italia è uno Stato antifascista e dal 2 giugno 1946 è una Repubblica parlamentare e democratica. La Destra quando ne prenderà atto? E soprattutto quando farà i conti con la sua storia?  

venerdì 29 maggio 2020

Nel 2020 il debito pubblico pro-capite di ogni italiano salirà a 43.000 euro

La Banca d’Italia ha diffuso la Relazione annuale 2019 e le previsioni per il 2020, i dati confermano il notevole incremento del debito pubblico ed il forte calo del Pil

di Pulvino Giovanni (@PulvinoGiovanni)

Foto da bancaditalia.it
Secondo le previsioni della Banca d’Italia ‘il disavanzo del 2020 e quello del 2021 saliranno rispettivamente di circa 8 e 4 punti percentuali’. Ed il rapporto tra il debito ed il Pil aumenterà ‘di oltre 20 punti percentuali’, cioè salirà ad oltre il 155,7%, ma nel 2021 dovrebbe calare grazie alla ripresa economica. Nel primo trimestre di quest’anno il Prodotto interno lordo è già diminuito del 4,7%. Tutto ciò comporterà un forte calo dei redditi delle famiglie, soprattutto per quelle con redditi più bassi. Gli effetti ‘dovrebbero essere attenuati dagli ammortizzatori sociali’ e dai provvedimenti emanati dal Governo
Il 31 marzo scorso il debito pubblico era, in termini assoluti, di 2.431 miliardi di euro. Per il 2020 è prevista una crescita di circa 190 miliardi di euro, cioè salirà a circa 2.600 miliardi di euro. Questo significa che il debito pro-capite di ogni italiano, disoccupato o miliardario che sia, aumenterà ad oltre 43.000 euro
La crisi causata dal Coronavirus è la più grave dalla Seconda guerra mondiale. Il Governo italiano ha dovuto prendere misure importanti per contenere il disagio sociale e per garantire liquidità alle imprese. Provvedimenti che stanno incrementando in modo abnorme il debito pubblico. Il Recovery fund predisposto dall’UE limiterà le conseguenze finanziarie del disavanzo di bilancio, ma resterà comunque un enorme fardello con cui gli italiani dovranno fare i conti. 
Il peso che dovremo sopportare per l'incremento del debito sarà diverso a seconda del ceto sociale di appartenenza, come diverse e più gravi saranno le conseguenze economiche sulle categorie meno abbienti, ma anche questa non è una novità.


domenica 24 maggio 2020

La rivoluzione post-Coronavirus ‘non s'ha da fare’

Riduzione dell’orario di lavoro, reddito minimo universale, economia circolare e sostenibile, sono cambiamenti possibili oltreché necessari, ma questa rivoluzione non ci sarà

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Influenza spagnola, 1918/1920 (foto da vanillamagazine.it)
La crisi sanitaria causata dal Covid 19, il crollo del Pil e l’incremento abnorme del debito pubblico potrebbero essere l’inizio di un mutamento radicale nei rapporti sociali. In questi mesi ci siamo resi conto che senza l’abnegazione degli operatori sanitari non ci sarebbero state cure per tutti. Ed ancora, se i lavoratori rimangono a casa l’economia crolla. Niente produzione e niente ricchezza. Tutto finisce.
La pandemia ci ha insegnato che nessuno può essere lasciato da solo. Questo principio di solidarietà dovrebbe essere alla base della società post-Coronavirus. Per realizzare questa ‘rivoluzione’ è indispensabile ripartire dal lavoro e dalla giustizia sociale. Non è più accettabile che ci siano pochi individui 'straricchi' e centinaia di milioni di persone che vivono in povertà. Non ora, almeno, dopo aver constatato la fragilità della vita e le difficoltà che l’uomo deve affrontare quotidianamente.
E non ci potrà essere crescita economica e sociale se gli ultimi continueranno ad essere ultimi e se non ci sarà la consapevolezza che al centro dello sviluppo umano non c’è il capitale, ma il lavoro ed i lavoratori. Le soluzioni, se si vuole, ci sono e sono semplici: ridurre l’orario settimanale di lavoro per garantire a tutti un’occupazione dignitosa ed un reddito minimo universale per eliminare la piaga della povertà e della miseria. Oggi tutto questo è possibile. Le nuove tecnologie ci permettono di produrre di più e meglio, ma poi è necessario distribuire la ricchezza creata in modo equo.
Le grandi crisi economiche e sanitarie possono essere un’opportunità per ridurre le ingiustizie sociali, ma occorre volerlo. Tutela dell’ambiente ed economia circolare sono già il presente. Riutilizzo delle risorse ed energie rinnovabili, riduzione delle disuguaglianze e pari opportunità per tutti sono esigenze necessarie ed ineludibili del sistema economico. Primo o poi questo sarà. Allora perchè non ora?
Per tanti, la rivoluzione post-Coronavirusnon s'ha da fare’. L’individualismo e la logica del profitto, per loro, saranno prioritari nel cammino dell’uomo ancora per molto tempo. Vedremo. Quello che è certo è che le sofferenze e le difficoltà vissute in queste settimane non saranno state inutili se l’uomo sarà capace di fare un passo avanti verso il bene comune ed una maggiore giustizia sociale.


martedì 19 maggio 2020

L’assessore leghista all’Identità siciliana inneggiava alle SS di Hitler

È il giornalista Alberto Samonà il nuovo assessore ai Beni culturali e all’Identità siciliana. La delega apparteneva al compianto Sebastiano Tusa, deceduto un anno fa nell’incidente aereo di Addis Abeba in Etiopia

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Matteo Salvini e Alberto Samonà - (foto da indelebiliweb.it)
E’ la giusta sintesi della militanza politica e della competenza professionale’, ha dichiarato all’Ansa il presidente della regione Sicilia, Nello Musumeci. Intellettuale e scrittore, il nuovo assessore, Alberto Samonà, è il direttore del sito giornalistico online ilSicilia.it. Il suo percorso politico è stato ‘tortuoso’. Negli anni Ottanta è stato dirigente del Fronte della Gioventù. Successivamente ha fondato a Palermo il Circolo politico-culturale Julius Evola. Nel 2018 si è presentato alle ‘parlamentarie’ del Movimento 5 Stelle, ma è stato escluso dalla lista. Nel settembre dello stesso anno è stato nominato responsabile per il Dipartimento cultura della Lega Salvini Premier. Pochi giorni fa la designazione in quota Lega ad assessore ai Beni culturali e all’Identità siciliana.
Incalzato da Claudio Fava a dire pubblicamente se è iscritto ad una loggia massonica, come prevede il regolamento della regione Sicilia per tutti i deputati ed assessori anche se non eletti, Alberto Samonà ha dichiarato: ‘Si sono stato iscritto alla massoneria. Ma adesso non lo sono più da tempo’.
Di ieri la notizia pubblicata dal Fatto quotidiano di una raccolta di poesie pubblicata nel 2001 in cui il nuovo assessore inneggia alle SS di Hitler: ‘Guerrieri della luce generati da padre antico e dalla madre terra’. Era una citazione si è giustificato l’esponente politico della Lega.
Insomma, il nuovo assessore all’Identità siciliana è, al di là delle sue competenze, un ex militante del Fronte della Gioventù, un mancato senatore grillino, un leghista, un ex massone ed un cantore delle squadre della morte naziste, ma perché il governatore della Sicilia lo ha voluto nella sua Giunta?
Di certo ci sono affinità culturali ed ideologiche, ma ci sono anche ragioni politiche ed amministrative. Ora la giunta Musumeci potrà contare sul sostegno senza se e senza ma della Lega di Matteo Salvini. Il partito che ha come simbolo l’eroe indipendentista, Alberto da Giussano, ora governa i ‘terroni’. Solo nella terra di Pirandello e di Sciascia poteva accadere un paradosso simile. E chissà cosa avrebbe pensato e detto Andrea Camilleri di un leghista custode della cultura e dell’identità siciliana.



sabato 16 maggio 2020

Chi pagherà i costi economici e finanziari causati dal Coronavirus?

Il Governo per evitare il conflitto sociale sta erogando decine di miliardi di euro a cittadini ed imprese in difficoltà, ma cosa succederà quando dovremo fare i conti con i costi della pandemia? Chi pagherà?     

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da occhionotizie.it
Secondo gli specialisti la battaglia contro il Covid 19 non è stata vinta ed un ritorno alla normalità non potrà avvenire prima di uno o due anni. Questo sarebbe infatti il tempo necessario per raggiungere l’immunità di gregge. Qualcuno è ancora più pessimista. Ritiene che il Coronavirus resterà tra noi per lungo tempo, come è avvenuto con l’Hiv. Con l’arrivo della ‘bella stagione’ la pandemia ridurrà i suoi effetti, ma molti temono una rapida e pericolosa ripartenza nel prossimo autunno. Una nuova crisi sanitaria è quindi una eventualità che potrebbe verificarsi. 
Il Governo sta erogando decine di miliardi di euro a cittadini ed imprese in difficoltà. Sono provvedimenti inevitabili. Ma tutto questo ha un costo finanziario. Il Prodotto interno lordo potrebbe calare del 10%. Si tratta, nei fatti, di un impoverimento generalizzato che determinerà un calo preoccupante delle entrate tributarie. In questa situazione il rapporto tra il debito ed il Pil potrebbe superare abbondantemente il 150%. All’inizio del 2020 era circa il 135%. Con il Trattato di Maastricht del 1992 ci eravamo impegnati a ridurlo al 60% del Pil (allora era al 120%). Insomma, per evitare il conflitto sociale ci stiamo indebitando ulteriormente ed in modo abnorme. In futuro, sapremo sostenere questo fardello? E soprattutto i mercati finanziari ed i risparmiatori fino a quando saranno disposti a darci fiducia e non avranno timore a comprare in nostri titoli di Stato? 
L’unico strumento finanziario che potrebbe evitarci il peso di questi ulteriori debiti è il cosiddetto ‘Recovery fund’. Esso, infatti, non graverebbero sui singoli bilanci statali, ma su quello dell’Unione europea. Sarebbe il passaggio decisivo verso gli Stati Uniti d’Europa, ma i Paesi membri, Italia in primis, saranno disposti a rinunciare ad una parte consistente della loro sovranità nazionale? 
Intanto, stando così le cose, in autunno rischieremo un doppio tsunami: quello sanitario e quello economico. Finora il Governo ha evitato il conflitto sociale. Ma cosa succederà quando dovremo fare i conti con i costi della pandemia? Chi pagherà per il disavanzo di bilancio? E soprattutto, reggerà il sistema democratico o ci affideremo ancora una volta a l’uomo della ‘Provvidenza’?


venerdì 8 maggio 2020

Sud vs Nord

Ci sono voluti meno di ventidue mesi per ricostruire i 1.067 metri del ponte di Genova, mentre per rifare i 270 metri del viadotto Himera sull’autostrada A19 Palermo-Catania sono stati necessari oltre cinque anni

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

A sinistra il nuovo ponte di Genova, a destra il viadotto Himera
Il 10 aprile del 2015 cedette, lungo la A19 Palermo – Catania, il viadotto Himera. L’interruzione, causata da una frana, divise in due la Sicilia. Nell’isola, infatti, non esiste un’altra autostrada che la attraversi da Nord a Sud o da Est a Ovest. Per diversi mesi gli automobilisti furono costretti a fare il giro da Polizzi Generosa. E gli autoarticolati per raggiungere Catania dovevano passare addirittura da Messina. Ancora oggi è obbligatorio utilizzare la bretella costruita dall’Anas. L’azienda pubblica ha comunicato che i lavori di ripristino del cavalcavia saranno completati entro la fine di luglio, ma visti i continui rinvii, forse sarebbe stato meglio non fare previsioni. Pochi giorni fa il Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha assistito alla posa dell’ultima campata del nuovo ponte di Genova. Il tutto in diretta televisiva.
Per rifare un viadotto di nemmeno trecento metri non sono stati sufficienti oltre cinque anni, mentre per realizzare un ponte di 1.067 metri sono bastati meno di ventidue mesi. Il committente delle due opere è sempre lo stesso, eppure, l’efficienza organizzativa e burocratica è diversa, perché?
Non è solo una questione di procedure amministrative o di capacità imprenditoriali. Piuttosto è un fatto di scelte politiche ed economiche. La viabilità di una città settentrionale è, per chi ci governa, molto più importante che ripristinare un’arteria autostradale che collega cinque milioni di siciliani. Non è la prima volta che si verifica questa disparità di trattamento. Il Sud, spesso, è abbandonato a sé stesso, come se fosse un peso per l’opulento e operoso Settentrione.
Due pesi e due misure. Due Italie. È sempre stato così. Dalla nascita dello Stato unitario la priorità è sempre stata quella di favorire lo sviluppo economico del Nord. Sia chiaro, i meridionali hanno tante responsabilità, ma forse la più grave è quella di non aver saputo imporre gli interessi e le esigenze economiche e sociali del proprio territorio. Spesso, troppo spesso, i ‘terroni’ si sono limitati ad accettare quel poco che il resto del Paese era disposto a concedere, cioè poco o niente.
Ora la storia potrebbe ripetersi. Stiamo affrontando una gravissima crisi sanitaria. Ad essa seguirà un crollo del Pil peggiore di quello del 1929. E non è necessario essere un indovino per prevedere che a pagare saranno i più deboli ed i territori con un’economica più fragile, Mezzogiorno compreso. Ovviamente, il tutto avverrà nell’indifferenza di chi governa e di chi è governato, ma anche questa non è una novità.


sabato 2 maggio 2020

L’inizio della Fase 2 non vuol dire ‘liberi tutti’

Secondo gli esperti occorreranno dai 12 ai 18 mesi per ritornare alla ‘normalità, pertanto, con il rientro al lavoro e alle attività quotidiane occorreranno maggiore cautela ed un rigido rispetto delle direttive sanitarie

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Migranti, campo profughi in Libia - (foto di @fcantagallo)
Il lockdown totale sta per finire, il 4 maggio inizierà la cosiddetta Fase 2. Il divieto di circolazione sarà allentato. Oltre 4 milioni di lavoratori torneranno negli uffici e nelle fabbriche. Inoltre, potremo andare a trovare i congiunti, fare jogging, andare al mare e prendere bus e metrò. 
Finora è stato relativamente facile, bastava stare a casa. I problemi iniziano adesso. Sapremo rispettare le nuove indicazioni del Governo? Sapremo interpretare correttamente le nuove direttive? Dal ridurre le limitazioni al ‘liberi tutti’, il passaggio per molti è scontato.
Cautela e rispetto delle nuove disposizioni, quindi. La pandemia non è stata debellata. Decine di migliaia di asintomatici continuano ad essere portatori inconsapevoli del virus. I focolai potrebbero riaccendersi in qualsiasi momento e in qualsiasi città. Il ritorno alla ‘normalità’ potrà avvenire solo quando la maggioranza dei residenti sarà vaccinata o comunque sarà diventata immune al Covid 19.
I prossimi 12 o 18 mesi saranno complicati. L’attenzione non deve diminuire, anzi con il ritorno al lavoro e alle attività quotidiane occorrerà maggiore cautela. Con l’arrivo della 'bella stagione' sarà tutto più difficile. In attesa di un vaccino, molto dipenderà dai nostri comportamenti. Il pericolo di una nuova e più virulenta fase di pandemia non è escluso, anzi gli esperti ci dicono che il peggio potrebbe non è essere alle nostre spalle.
Intanto, dall’opposizione parlamentare e dalla stessa maggioranza di Governo aumentano le critiche all’operato dell’Esecutivo e diversi Governatori e Sindaci annunciano ordinanze meno stringenti di quelle indicate nei decreti ministeriali. Il fai da te degli amministratori locali oltreché incostituzionale è molto pericoloso, ma si sa, per molti politici è più agevole parlare alla 'pancia' del Paese che prendere decisioni che scontentano una parte dell’elettorato.
Inoltre, lanciare invettive dai salotti delle proprie abitazioni o in estemporanei flashmob è comodo e facile, tanto le responsabilità sono di chi governa ed a correre i pericoli di infezione sono i lavoratori e le lavoratrici che da lunedì torneranno nelle fabbriche e negli uffici.
Attenzione quindi, la Fase 2 non è il ‘liberi tutti’, ma deve essere un altro momento di serietà ed altruismo, sempreché gli italiani non decidano di ritornare alle cattive abitudini, cioè all'anarchia e all'individualismo