lunedì 24 maggio 2021

Mario Draghi dice no alla 'tassa sui ricchi’

Mario Draghi boccia la proposta del segretario del Partito democratico di tassare le successioni dei grandi patrimoni

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Mario Draghi e Enrico Letta
(foto da theitaliantimes.it)

L’iniziativa del segretario del Partito democratico non è una novità. Non si tratta di una nuova imposizione fiscale, ma di reintrodurne una che era stata cancellata dal governo di Silvio Berlusconi.

Un'imposta del 20% sulle successione oltre i 5 milioni di euro per finanziare progetti per l’occupazione dei giovani. Questa è in sintesi la sua proposta. Il presupposto di Enrico Letta è semplice. Molti neodiplomati o neolaureati fanno fatica a trovare lavoro e spesso sono costretti ad emigrare o peggio ancora a non trovare una occupazione stabile.

Lo Stato deve invertire questa tendenza. Occorre dare un'opportunità di impiego a chi intende restare nel nostro paese. Ecco alcune proposte concrete. Portare l’obbligo scolastico a 18 anni. Finanziare gli studi universitari a chi non può permetterselo. Investire nella ricerca e nelle startup. E così via.  

Tutto questo ha un costo e, secondo il segretario democratico, non può e non deve essere coperto ricorrendo ad altro debito pubblico. Finirebbe per gravare sul futuro dei giovani che si vogliono aiutare. Una tassazione sulle successione dei ‘ricchì’ sarebbe la soluzione. Non solo. Sarebbe anche giusta da un punto di vista etico. Le eredità milionarie servono a garantire un privilegio. Ad accrescere cioè disuguaglianze ed ingiustizie. Sarebbero, inoltre, la principale causa delle migrazioni di giovani verso città e paesi che invece sono felici di accogliere italiani capaci e preparati che nel nostro paese non trovano lavoro.

La proposta di Enrico Letta è una goccia in un oceano di ingiustizie, eppure Mario Draghi ha detto di no. Che non è il momento di chiedere ma di dare. Strano modo di ragionare quello del presidente del Consiglio. Di cosa ha bisogno uno che ha ereditato un patrimonio milionario o addirittura miliardario?

Gli oltre 43 mila euro di debito pubblico che gravano su ogni italiano non fanno nessuna differenza tra il disoccupato ed il ricco, quello è un ‘fardello’ uguale per tutti, non distingue cioè tra il benestante ed il povero, tra l’anziano ed il giovane, è una ‘montagna’ che pesa indifferentemente su tutti, neonati compresi.

Oggi è un debito sostenibile perché i tassi di interesse che dobbiamo pagare ogni anno sono ‘insignificanti’, si fa per dire, ma quando questi torneranno a crescere chi dovrà sopportarne le conseguenze? Non c’è bisogno di essere un indovino per capire che saranno soprattutto i giovani, in particolare quelli che hanno un lavoro precario e malpagato, ma per il nostro premier non è il momento di chiedere ma di dare.

Quando c’è da prendere siamo tutti uguali, quando c’è da pagare emergono le differenze. Tutto, ovviamente, senza se e senza ma.

domenica 16 maggio 2021

Medio Oriente: a morire sono sempre i civili

A fare le guerre sono le élite militari e politiche, ma a subirne le conseguenze sono i popoli

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da @Barahmeh

Le vittime delle guerre sono soprattutto i civili. Quello che sta avvenendo in questi giorni in Medio Oriente è solo l’ennesima conferma: a pagare sono i più deboli, gli innocenti, quelli che muoiono e non sanno neanche il perché.

Il raid aereo israeliano su Gaza di ieri ha provocato 26 morti, tra cui 8 bambini. I feriti sono stati 50. Nella notte erano stati lanciati oltre cento razzi su Israele. Le vittime sono salite a 10, i feriti sono un centinaio, per lo più leggeri. Nella striscia di Gaza i morti sono stati finora 198, di cui 58 bambini, i feriti sono oltre mille. Intanto continuano le proteste in varie città, dall’inizio del conflitto i palestinesi uccisi nelle manifestazioni in Cisgiordania sono diciannove.

La storia si ripete ancora una volta e non ammette eccezioni. Il conflitto Medio Orientale continua a mietere vittime innocenti. Quella palestinese è una terra martoriata. Due popoli costretti a convivere nello stesso spazio, ma non riescono a farlo in pace.

Gerusalemme è una città contesa da secoli. Un luogo Santo per i fedeli di tre religioni. Chi crede in un Dio misericordioso non dovrebbe imporre con la violenza la sua fede. Il rispetto dell’altro, della vita, della dignità umana sono principi sanciti sia dal Corano che dal vecchio e dal nuovo Testamento. Fedi che hanno in comune la stessa radice monoteistica. Eppure, questi valori di pace e di fratellanza sono utilizzati spesso per giustificare guerre e conflitti.

Nessun Dio giustifica la morte altrui in nome suo. Allora perché cristiani, ebrei e islamici continuano a farlo? Le insicurezze dell’uomo trovano nella fede uno strumento per superarle. Tutti i popoli si sono dati una religione. Una perdita di quei valori o una loro violazione sono considerate eventualità da impedire a tutti i costi. Ed è così che esse sono diventate spesso il motivo dei conflitti. Ancora oggi è così.

A fare le guerre sono le élite militari e politiche, ma a subirne le conseguenze sono i popoli. Questo spiega perché esse si ripetono con continuità nel tempo. Si possono impedire? Le organizzazioni internazionali preposte a questo scopo non bastano. Occorre fare di più. Fino a quando ci saranno disuguaglianze e ingiustizie o, comunque, situazioni considerate come tali, i conflitti non saranno evitabili.

Il bisogno di sicurezza può essere garantito anche senza guerre, ma a comprenderlo devono essere per primi le élite politiche e istituzionali. Decidere di bombardare e seminare morte è relativamente 'facile' per chi ha il potere, tanto a pagarne le conseguenze non saranno loro.

sabato 15 maggio 2021

Il super Santos era bucato o sgonfio, ma a noi bastava

Il calcio era il nostro gioco. Quello parlato e radiotrasmesso da ‘Tutto il calcio minuto per minuto’ era fantasia. Era, cioè, quello che avremmo tentato di ripetere nei campetti di periferia con la vana illusione di esserne un giorno protagonisti

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Il super Santos - (foto di Giovanni Pulvino)
Tutto avveniva con semplicità. La strada o il cortile erano il campo da gioco, due sassi i pali delle porte, un super Santos sgonfio o bucato era il pallone. Una volta uno di noi ne comprò uno di quelli buoni, costosi, almeno così ci sembrò. Quel pallone durò ventiquattro ore. Durante l’unica partita che disputammo in piazza Marina, allora era ancora in terra battuta, finì nel cortile di una signora che lo sequestrò e lo bucò. Per il nostro amico fu un piccolo dramma, fu la prima e l’ultima volta che i suoi familiari gli acquistarono un pallone. Lo sostituimmo con un super Santos bucato o comunque sgonfio. Proprio per questo raramente raggiungeva il cortile di quella signora. In ogni caso sarebbe stato facile trovarne un altro, sempre sgonfio ovviamente. Non potevamo permetterci altro. Le priorità per le famiglie allora erano altre. Non eravamo bambini impertinenti o maleducati, e, raramente, il pallone giungeva nei pressi di quell’abitazione. Quello ci arrivò perché era nuovo e gonfio. Quando giocavamo nella spiazzo vicino alle case c'era una signora che andava ad aprire l'uscio della sua abitazione con l'intento preciso di sequestrarci il pallone se questo fosse entrato dentro il suo appartamento. Non succedeva quasi mai, ma lo scopo era evidente: non voleva che giocassimo su quella parte della piazza. Non ho mai capito il perché di quel comportamento e di quel rancore. In noi non c’era cattiveria, in fondo non facevamo nulla di male, giocavamo con quel poco che avevamo. La nostra gioia era correre dietro ad un pallone di plastica, nient’altro.

Ci bastava poco per riempiere di allegria i nostri pomeriggi, sempre gli stessi, ma erano spensieratezza e felicità. Si erano felicità.

Per un breve periodo giocammo in un campo in erba, si fa per dire. Era fuori dal paese. Era un rettangolo grande, almeno così ci sembrò a quell’età, aveva qualche buca, ma ci bastò alzare i pali delle porte o mettere due pietre per dargli un aspetto verosimile a quelli della Serie A. Era piacevole fare persino il portiere. Facevamo i tuffi e divenne interessante fare un ruolo che nessuno voleva ricoprire. Di solito in porta ci andavano i ‘più scarsi’ o si giocava senza portiere. Quella piacevole sensazione di giocare su un campo in erba durò poco, il proprietario del terreno lo fece arare e lo adibì a pascolo.

I pensieri sono impressi in qualche angolo della nostra memoria. Quelli che ritornano con continuazione sono scoloriti, ma poi se ne aggiungono altri, ed altri ancora, ma sono anch’essi in bianco e nero.

I giocatori eravamo solo tre, ma non rinunciammo a fare una partita. Giocai contro due avversari. Ebbene per me fu agevole vincere, perché uno dei due rivali era così ‘scarso’ che era semplice rubargli la palla quando il suo compagno per altruismo gliela passava. Andare a segnare nella porta vuota era facile. Non ero io che ero bravo, ma era uno dei miei due avversari ad essere ‘titubante’ con il pallone tra i piedi. Io ne approfittai soltanto.

Un altro pensiero torna sempre … non riesco a fermarlo ….

Chissà quanti vasi ho rotto e quanta pazienza hanno avuto i vicini di casa. Avevo l’abitudine di giocare da solo. Andavo avanti e indietro calciando il super Santos sul muro o sui gradini delle case di piazza Marina che sono attaccate le une con le altre. L’abilità consisteva nel tirare calci di prima con entrambi i piedi senza far cadere la palla giù dal marciapiede, ovviamente c’erano gli ingressi delle case e i vasi terracotta come ostacoli da evitare, dovevo stare attento, ma credo che ci volle molta pazienza per chi ci abitava. Li ho imparato a giocare, li è nata probabilmente la passione per il calcio, mantenuta per sempre, anche ora che non ci potrà più essere nessun paragone o critica, non più almeno come avveniva allora. 

Nei piccoli paesi non puoi sceglierti i compagni di gioco, quelli sono, non possono essere altri, sono loro che segnano gli anni dell’adolescenza, quelli della gioia e della spensieratezza, dei ricordi inconsapevoli.

Ci ritrovavamo quasi sempre nel primo pomeriggio. Il pallone non mancava mai. A volte ci inventavamo i giochi. Uno di questi era a chi faceva più palleggi. Di solito a vincere erano quelli che consideravamo più scarsi. Uno di noi fece mille palleggi senza far cadere il pallone per terra. Ancora oggi facciamo fatica a crederci, ma avvenne veramente. Quel nostro amico era imbattibile, ma a calcio era una ‘schiappa’.

Quando eravamo in tanti facevamo le partite. Tutti partecipavano, torremuzzari e ‘nzusari di ogni età, anche chi non aveva nessuna voglia di giocare, ma per non essere escluso dal gruppo si cimentava lo stesso o finiva in porta. Le squadre erano sempre diverse, ma cercavamo di farle bilanciate. Due di noi sceglievano i compagni, uno per volta, l’equilibrio era facile da realizzare.

Spesso giocavamo nello spiazzale della scuola elementare. Pochi metri, con restringimenti dei muri ed una specie di discesa. Capitava che erano di più i giocatori che i metri quadrati del ‘campo’, se così possiamo chiamarlo. Erano partitelle combattute come se fossimo stati dei veri professionisti. Le regole erano quelle del buon senso, ma spesso non contavano. Non erano partite a tempo, ma a chi faceva più gol o a chi arrivava per primo a dieci. Spesso finivamo di giocare con il buio, con la tenue luce che veniva dalla strada adiacente. Una volta eravamo in tanti in pochi metri quadrati. Le mischie erano inevitabili. I difensori tentavano di impedire che la palla toccasse il muro che faceva da porta e gli attaccanti con spinte e calci tentavano invece di fare gol. Le loro grida stavano ad indicare che ci erano riusciti, ma i difendenti di solito non erano d’accordo, reclamavano una spinta di troppo o che la palla fosse uscita fuori dalla porta. Tutto era aleatorio anche i pali, quindi spesso non c’era certezza sull’esito dei tiri e dei gol.

Un’altra volta giocammo sotto la pioggia battente. Il pallone non ribalzava nelle pozzanghere anche se il campetto era in mattonelle. Ci sembrò di essere dei veri calciatori che, si sa, giocano con qualunque condizione atmosferica. Il cortile Marina era stato pavimentato da poco. Non c’erano macchine. Sembrava un campo di calcetto in un palazzetto dello sport. Lì sfidammo i ragazzi della colonia di Reitano che ogni estate venivano in gita nella piccola borgata. Li battemmo tra gli applausi di chi ci stava guardando, sembrava di essere in uno stadio vero o almeno così mi piace ricordarlo. Per noi giocare a calcio era naturale. Vincevamo quasi sempre. L’intesa era istintiva. Probabilmente perché conoscevamo ogni metro quadrato di quelle piazze o forse perché eravamo veramente bravi.

E, comunque, non importava il risultato finale, ormai avevamo dato sfogo alle nostre fantasie. Il calcio era ed è il nostro gioco, quello dell’adolescenza, quello che segna i pensieri e la vita di chi nell’infanzia ha potuto disporre solo di un super Santos bucato.

sabato 8 maggio 2021

Matteo Salvini come Matteo Renzi?

Matteo Salvini come Matteo Renzi? Il comportamento dei due segretari di partito è simile. L’insofferenza per ogni decisione presa da questo o quel ministro, da questo o quel governo di cui fanno parte è analoga. L’Esecutivo dell’ex governatore della Bce subirà la stessa sorte del Conte 2?

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Matteo Renzi e Matteo Salvini

Tutto quello che delibera il governo di Mario Draghi non è mai abbastanza per il leader della Lega. Esattamente come non era sufficiente per Matteo Renzi quello che decideva l’esecutivo del Conte 2.

C’è una specie di sintonia politica e caratteriale tra il Matteo fan di Albert de Giussan e quello di Italia viva. Entrambi operano nel solo interesse di parte. La loro è una conduzione verticistica dei rispettivi gruppi parlamentari e non ammettono contestazioni. Non concepiscono critiche o dubbi sulla linea politica. La leadership, nonostante la caduta di consensi, non è mai messa in discussione.

Per loro è una sofferenza dover sostenere un Governo di cui non sono Premier. Per Renzi è stato il Mes il motivo addotto per far cadere la maggioranza Giallo-rossa, per Salvini quale sarà il 'casus belli' della rottura?

Entrambi sono reduci da maggioranze parlamentari di cui erano protagonisti. Il primo riteneva che la rottamazione della Sinistra sarebbe stata la strada maestra per consolidare il potere. Il secondo, invece, ha valutato superfluo ed ingombrante l’accordo con il M5s. Matteo Salvini lo ha fatto per andare alle elezioni anticipate, Matteo Renzi per impedirle.

L’obiettivo era ed è gestire il potere senza intralci, senza mediazioni, per loro queste ultime non sono necessarie. Ed è per questo che non riescono a stare fermi. Sono sempre in movimento. Non conta la strategia e la coerenza nel medio o lungo periodo, ma solo il fine immediato da raggiungere.

Il ruolo di 'outsider' non è ritenuto adeguato alle loro capacità di direzione e comando. Fare da spalla al protagonista della commedia non rientra nei loro parametri caratteriali e politici. Sostenere maggioranze di cui non sono leader è un’afflizione malcelata, ma entrambi hanno dovuto abbozzare in attesa di tempi migliori.

Di certo al Matteo leghista non sembra vero di essere tornato al governo, ma di questo deve ringraziare il Matteo fiorentino. Così come il Matteo toscano deve esprimere gratitudine a quello padano per avergli permesso di essere protagonista del Conte 2.

I due politici si ispirano a principi e valori in apparenza diversi, ma i comportamenti sono simili. Salvini invoca l’abolizione del coprifuoco alle ventidue, Renzi pure. L’ex Sindaco di Firenze ha fondato la sua politica sulla meritocrazia, quella degli altri ovviamente, il leader leghista non è da meno. Il primo vuole abbassare le tasse, il secondo anche. Il loro nemico politico comune è la Sinistra. Entrambi, in attesa di ereditarne il consenso, non possono fare a meno di un’alleanza con Forza Italia.

Sono destinati ad incontrarsi? Chissà. Se così sarà lo sarà solo per necessità e di certo un Governo con tali presupposti e con questi leader non potrebbe durare a lungo.

 

giovedì 29 aprile 2021

Governatore del West Virginia: ‘100 dollari per vaccinarsi’

‘100 dollari per vaccinarsi. È la proposta fatta dal governatore del West Virginia (Usa) per convincere i giovani americani a vaccinarsi, intanto nei paesi più poveri e non solo decine di migliaia di persone continuano a morire di Covid-19

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da vocidallastrada.org

La diffusione del Covid-19 e la campagna di immunizzazione stanno accentuando le differenze tra i paesi ricchi e quelli poveri. Negli Stati Uniti d’America i cittadini sono pagati per vaccinarsi. In India le persone muoiono per strada ed il sistema sanitario è al collasso. Queste due notizie confermano quanto sia ingiusto il sistema economico e sociale che gli economisti chiamano Capitalismo.

Tutto ha un prezzo, anche la salute nostra ed altrui. Il fatto che i giovani americani siano restii a vaccinarsi è emblematico. Il benessere diffuso ci ha fatto perdere il senso della comunità. Sono gli effetti nefasti del consumismo. È la sublimazione dell’edonismo reaganiano.

Il governatore del West Virginia, Jim Justice, ha proposto di dare 100 dollari ad ogni giovane tra i 18 ed i 35 anni che si farà vaccinare. Non è che il primo dei tanti incentivi proposti negli Usa. Qualcuno dà un drink gratuito, le Università danno la possibilità agli studenti di vincere del denaro per comprare i libri o una borsa di studio, altre un alloggio gratuito per un anno accademico, e così via.

I sieri negli Stati Uniti d’America ci sono, ma una parte degli americani per vaccinarsi ha bisogno di un ‘spinta economica’. Tutto questo avviene mentre migliaia di indiani e non solo muoiono di Covid-19.

Nell’immediato le dosi non ci sono per tutti. Una immunizzazione di massa è comunque inevitabile e necessaria, ma prima vengono i paesi ricchi. Siamo in una situazione paradossale: chi ha la possibilità di vaccinarsi ha bisogno di un ‘incentivo’, chi invece vorrebbe farlo ‘senza se e senza ma’ non può, perché c’è penuria di siero.

Tutto ha un costo ed un prezzo. Tutto deve generare un profitto. È la logica del Capitalismo che ha prodotto e produce un mondo ingiusto e diseguale.

lunedì 19 aprile 2021

Super League? A noi bastava un super Santos bucato

Nasce la Super League, ossia una competizione destinata solo ad alcuni tra i club europei più ricchi e potenti e che ha come fine solo quello di aumentare gli incassi e tutelare le squadre fondatrici da eventuali défaillance sportive

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Il Grande Torino - (foto di @bolognari)

Sono dodici i club europei che hanno annunciato di aver raggiunto un accordo per costruire la Super League. I fondatori sono: il Milan, l’Inter, la Juventus, l’Arsenal, l’Atletico Madrid, il Real Madrid, il Chelsea, il Tottenham, il Manchester United, il Manchester City, il Liverpool ed il Barcellona. A questi club se ne aggiungeranno altri tre prima dell’inizio della competizione. Altri cinque cambieranno da stagione in stagione. In tutto saranno 20.

Non ci sono squadre della Germania, della Francia, dell’Olanda, del Portogallo, etc. Alcuni grandi giocatori ed allenatori hanno già detto che lasceranno i club che hanno aderito al nuovo torneo. Contro l’iniziativa si sono espresse la Uefa, l’Eca e la Fifa.

La nuova competizione è stata voluta fortemente dal presidente della Juventus Andrea Agnelli. Il suo è il ragionamento di un uomo che è nato ricco e che non accetta la possibilità che si possa essere bravi anche se non si dispone di risorse finanziarie illimitate. Chissà cosa avrebbe detto l’avvocato Gianni Agnelli e cosa ne pensano Silvio Berlusconi e Massimo Moratti.

Prima i soldi, poi lo sport. Il potere nel Calcio non può essere dei 'poveri'. Solidarietà e meritocrazia sono parole obsolete per i grandi club di Spagna, Italia e Inghilterra. Solo chi ha più tifosi e risorse conta. La ridistribuzione equa degli introiti miliardari derivanti dai diritti televisivi è, per loro, un peso insopportabile. È la legge del più forte o, almeno, di chi si sente tale.

Lo sport come inclusività e solidarietà è, per questi ‘paperoni’, un valore superato. È l’addio al calcio dilettantistico ed a quello amatoriale, quello dei campetti di provincia o di periferia che praticavamo da adolescenti e che ci ha fatto amare questo gioco. Oggi contano solo i club dei più ricchi. Tutto il resto è ‘inutile’ e superfluo. È il passato.

Il paradosso è che si tratta di società che dispongono già di ingenti risorse finanziare. Club che continuano a spendere di più di quanto incassano e che, spesso, lo fanno a debito. Non solo. Esse hanno il supporto di grandi multinazionali pronte a coprire le ingenti perdite accumulate. 

L’avidità non ha limiti.

C’è un’altra stranezza. Alcuni di questi club sono di proprietà di miliardari stranieri. Il loro scopo è fare speculazioni finanziarie. Utilizzano lo sport per ottenere riconoscimenti e fama e per continuare ad accumulare ricchezza.

Ma tutto questo ai ricchi non basta.

La nuova Super League è la sublimazione del capitalismo e delle sue disuguaglianze. E non è un caso che a volerla siano pochi miliardari privilegiati che, tra l’altro, non hanno nessun merito sull’accumulazione spropositata della loro ricchezza. Ma forse è proprio questo che li spinge ad essere egoisti. Chi non ha mai vissuto nella privazione non può capire né tantomeno accettare i principi di solidarietà ed altruismo.

A noi bastava poco. La strada o il cortile erano il campo da gioco, due sassi i pali delle porte, un super Santos sgonfio o bucato era il pallone. Nient’altro. Era allegria e spensieratezza. Era poesia, era il gioco del calcio. Chi non ha vissuto l'adolescenza nei campetti di periferia non può capire.

Se lo sport perde la sua essenza, allora resteranno solo i soldi. Diventerà uno sport di élite, per pochi come il golf o il Polo.

Se la Super League sarà questo, allora sarà meglio passare ad altro.

giovedì 15 aprile 2021

‘Scusa Ciotti … la Fiorentina è passata in vantaggio …’

Ad un certo punto della radiocronaca irrompeva la voce rauca di Sandro Ciotti: ‘Scusa Ameri, scusa Ameri … la Pistoiese è passata in vantaggio ...

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Schedina del 17/09/1981
da vigevano24.it

La domenica pomeriggio era nostra abitudine seguire le partite di calcio alla radio. Ascoltavamo ‘Tutto il calcio minuto per minuto’. Bastava una radiolina ed era subito condivisione. Allora gli incontri si svolgevano in contemporanea. Alle ore 15.00, puntuale come un orologio svizzero, la sigla della trasmissione annunciava l’inizio delle partite. Dallo studio a coordinare gli interventi dei vari cronisti c’era la voce di Roberto Bortoluzzi.

Gentili ascoltatori buongiorno, stiamo per collegarci con san Siro per Milan-Perugia, con Torino per Torino-Napoli, con Ascoli per Ascoli-Internazionale, con Bergamo per Atalanta-Juventus e con Lecce per Lecce-Pescara. Ai microfoni sono i colleghi Enrico Ameri, Sandro Ciotti, Claudio Ferretti, Alfredo Provenzali ed Ezio Luzzi. Cominciamo con i primi tempi, la linea a Milano’.

Tra un collegamento e l’altro non mancavano i commenti, ma, di solito, si ascoltava senza parlare. Ognuno di noi poteva immaginare le azioni ed i gol descritti dai commentatori. Non c’erano vincoli alla nostra fantasia se non quelli delle parole usate con grande stile e competenza dai radiocronisti. Ci facevamo un film delle partite. Era come ascoltare una radio in bianco e nero. I nostri ‘replay’ erano pure essi senza colore. Le poche immagini televisive trasmesse in prima serata dalla Rai erano anch’esse in bianco e nero. Solo allora potevamo confrontare quanto avevamo immaginato con quanto era realmente accaduto qualche ora prima sui vari campi di calcio.

Quando si è giovani è bello sognare, non costa nulla, un futuro c’è sempre, poi, più tardi, capisci che così non è. I domani diventano sempre di meno e ti rendi conto che presto non ci saranno più neanche quelli.

Le parole giungevano estemporanee dall’etere, si sapeva che venivano da lontano, ma erano diventate familiari. Erano un appuntamento domenicale a cui nessuno di noi poteva mancare. Durante la settimana c’erano anche le partite della Coppa delle Coppe, della Coppa Uefa o della Coppa dei Campioni, ma si svolgevano di sera e la condivisione non era possibile. Avevano un altro sapore ed un altro colore, sapevano di solitudine e malinconia anche se ti 'immergevi' in una dimensione internazionale. La domenica pomeriggio invece ovunque ci fosse qualcuno con la radio accesa si formava un campanello intento ad ascoltare. Stavamo seduti a Sant’Antonino, sul muretto di piazza Marina, in piedi nel cortiletto della scuola elementare o davanti al tabacchino.

Scusa Ciotti … la Fiorentina è passata in vantaggio…’

Uno, ics o due? Nel quadratino della schedina si poteva indicare solo uno dei tre risultati possibili delle tredici partite da pronosticare. Lo facevamo praticamente tutti. Due colonne erano il minimo. Il sistema, invece, ci consentiva di giocare le triple e le doppie. Costava di più, pertanto eravamo costretti a condividere la spesa per giocarlo, era un altro modo di essere comunità. Pochi di noi avevano le disponibilità finanziare o l’intenzione di spendere tanti soldi per giocare da soli.

Ed ora un breve riepilogo dai campi … Roma 1 - Lecce 2, Juventus 3 - Catania 1, … in serie C la Carrarese è passata in vantaggio sulla Cremonese…’

Una volta mancammo un tredici milionario per un nulla. Altre volte facemmo undici o dodici, quel poco che ci fruttarono lo utilizzammo per le schedine successive. Il difficile era combinare i risultati più probabili con le ‘sorprese’, cioè quelli delle partite ‘scontate’ con quelli inverosimili. Spesso capitava di indovinare i primi e non i secondi o viceversa. E poi c’erano gli incontri di Serie C ed a volte di Serie D. Erano squadre sconosciute, il pronostico era difficile da fare. Non tutti erano d’accordo con le triple o le doppie da inserire o con i pronostici da fare, ma si fidavano sempre di chi faceva il sistema o la schedina. Non ho mai capito a cosa fosse dovuta tanta fiducia, ma c’era e ci sarebbe stata sempre. Questo bastava ed incentivava a fare meglio.

Linea a Napoli fino al termine, i colleghi possono interrompere solo per i risultati finali’ ….

Spesso i gol arrivavano in zona cesarini ed erano quelli che decidevano le sorti della schedina. Allo scadere del novantesimo minuto il recupero non era indicato dalla lavagna luminosa, solo l’arbitro sapeva quanto doveva durare. Al termine delle partite restava sempre un po' di delusione, ma non importava. Quello che contava era che alle tre della domenica successiva saremmo stati di nuovo tutti lì a tifare ed a sperare in un gol o in un interruzione da Milano o dal Cibali di Catania che ci raccontasse la buona notizia. E se questo non fosse avvenuto pazienza, ci saremmo rifatti la volta dopo.

‘Bene gentili ascoltatori abbiamo terminato, vi ricordiamo che su Radio 2 andrà in onda la seconda parte di ‘Domenica sport’, assistenza tecnica di ….

Finite le partite ed in attesa delle immagini televisive era tempo dei commenti. Tutti esperti, si sa. In fondo il calcio è un gioco semplice ed è democratico, chiunque poteva dire la sua ed era comunque un giudizio valido. I tifosi eravamo tutti sullo stesso piano, le squadre un po' meno, lì contavano i soldi. Ancora oggi è così, anzi oggi lo è ancora di più. E non ci importava e non ci importa che il Sud anche nello sport era ed è un passo indietro rispetto al resto del Paese. La passione per il calcio non ci faceva e non ci fa ‘vedere’ questa discriminazione economica e sportiva. Lo davamo e lo diamo per scontato, ma, a pensarci bene, era ed è una grande ingiustizia.

Intanto, un’altra domenica pomeriggio era trascorsa. Altra memoria a perdere era nata, inutile ed effimera come tutto, come sempre.

sabato 10 aprile 2021

I 'furbetti' del vaccino

Oltre due milioni di italiani hanno ricevuto una dose del vaccino senza essere nelle liste di priorità, com’è stato possibile?

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da governo.it

Solo il 38,78% degli over 80 ha ricevuto la seconda dose del vaccino, mentre al 68,21% è stata somministrata solo la prima. Il 2,48% degli italiani tra i 70 ed i 79 anni è stato vaccinato, mentre il 19,89% ha ricevuto la prima dose. È un ritardo inaccettabile. A chi sono andati parte dei vaccini disponibili?

Il report del commissario per l’emergenza è chiaro: sono oltre due milioni gli italiani che hanno ricevuto una dose del siero sotto la voce ‘altro’. Più del 20% dei dodici milioni di vaccini disponibili è stato somministrato a soggetti non rientranti nelle liste di priorità.

Con che coscienza uno salta la lista e si fa vaccinare? Ha detto con enfasi il commissario Figliuolo. Concetto ribadito successivamente anche dal Presidente del Consiglio, Mario Draghi.

Questo fenomeno è particolarmente evidente in alcune regioni. In Sicilia, in Calabria, in Puglia, in Valle d’Aosta e in Toscana questi presunti ‘abusi’ hanno sfiorato il 30% del totale. Dirigenti, avvocati, professori universitari, presunti sanitari, guide turistiche dei parchi e persino sacerdoti e seminaristi hanno ricevuto la prima dose di vaccino, mentre decine di migliaia di ultraottantenni sono ancora in attesa.

Come è stato possibile tutto questo?

Siamo il paese dei furbetti, questo si sa. Il precedente governo guidato da Giuseppe Conte è stato accusato di non aver saputo accelerare sulle somministrazioni. Ebbene il cambio di passo auspicato con il nuovo esecutivo di unità nazionale di Mario Draghi finora non si è visto. Certo i vaccini a disposizione non sono sufficienti, ma c’è anche altro.

Ogni regione va per conto suo. La legislazione concorrente introdotta con la riforma costituzionale del 2001 è alla base di questo disastro. Chi decide sulla Sanità? Il sistema introdotto con l’articolo 117 della Costituzione funziona così. Il ministero della Sanità stabilisce le direttive nazionali, ma poi ad attuarle sono gli enti locali. Le indicazione spesso vengono interpretate diversamente da regione a regione. Stando così le cose per i 'furbetti' dei vaccini è facile trovare un cavillo o una norma che gli consente di saltare la fila.

Tutto questo è possibile soprattutto perché le autorità locali lo hanno consentito e favorito. Poi come al solito esse scaricano la responsabilità delle loro decisioni sul Governo e sul ministro della Salute.

Ma anche questo non sorprende.

venerdì 9 aprile 2021

Renzi e i 'renziani' del Pd

Matteo Renzi è uscito dal Partito democratico, ma continua a condizionarne le scelte e la linea politica

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Andrea Marcucci e Simona Malpezzi
(foto da zazoom.it)

Il ritorno di Enrico Letta alla guida del Partito democratico è già pieno di ostacoli. La nomina di due donne come capogruppo al Senato della Repubblica e alla Camera dei deputati è stata più ostica del previsto. La ragione è politica. Sono state elette due democratiche che sono molto vicine all’ex segretario. Andrea Marcucci, grande amico di Matteo Renzi, ha fatto un passo indietro, ma solo per una 'renziana' doc: la senatrice Simona Malpezzi.

Per comprendere le ragioni di questo paradosso occorre risalire ai giorni che precedettero la presentazione delle liste per le elezioni politiche del 2018.

Allora alla guida del Pd c’era l'ex sindaco di Firenze. Come si sa le liste elettorali sono predisposte dai partiti, in particolare dalle segreterie. Con l’attuale sistema elettorale si possono inserire le candidature dei ‘propri amici’ nei collegi 'blindati' e quelle degli avversari in quelli dove l’elezione è improbabile.

Con le liste bloccate del ‘Rosatellum’ è stato semplice per l'ex segretario del Pd inserire i ‘propri’ sostenitori nelle liste e nelle circoscrizioni dove era assai probabile ottenere il seggio. Tutto a danno delle altre correnti, in particolare di quella di ‘Sinistra’.

Il Pd ha perso le elezioni del 2018, ma Matteo Renzi ha vinto lo stesso. Nonostante la scissione di Italia Viva la gran parte dei senatori e dei deputati democratici che oggi siedono in Parlamento appartengono alla sua corrente. Molti di questi costituiscono il gruppo di maggioranza relativa del Pd. Si tratta dei cosiddetti riformisti. Sono guidati da Andrea Marcucci e Luca Lotti. Insomma, l’ex sindaco di Firenze oltre ad essere il segretario di IV, può influenzare le scelte dei democratici attraverso la sua corrente all’interno del Partito democratico.

Sembra un stramberia, ma così non è. Mentre il senatore di Rignano va in giro per il mondo a fare conferenze, i 'suoi' parlamentari fanno il lavoro ‘sporco’. All’inizio della legislatura hanno inserito esponenti della loro corrente nei posti di rilievo del Pd. Nel 2019 hanno ‘costretto’ l'ex segretario ed il suo gruppo parlamentare a dare vita al Giuseppe Conte 2 e nel 2021 al governo di Mario Draghi. Ora hanno imposto anche i capigruppo.

Probabilmente Nicola Zingaretti si è dimesso proprio perché non è riuscito ad impedire queste dinamiche interne. Enrico Letta dovrà affrontare lo stesso problema: riuscirà a liberare il Pd dai 'renziani'? La risposta è no. Per farlo dovrà aspettare il 2023, quando ci saranno le elezioni politiche. Nel frattempo, il maggior partito del centrosinistra dovrà abbozzare ed evitare che al danno segua la beffa, quella dell’estinzione.

sabato 3 aprile 2021

Elica delocalizza, la storia si ripete ancora una volta

‘Prima gli italiani’ ripetono spesso i leader della Destra, ma per incrementare i profitti delle loro aziende sono i primi ad andare all’estero

di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Protesta degli operai della società Elica
(Foto da operaicontro.it)

Dopo aver usufruito della Cig la società Elica dell’ex senatore di Forza Italia Francesco Casoli delocalizzerà in Polonia. Già dieci anni fa la proprietà della società di Fabriano aveva proceduto ad una ristrutturazione riducendo la forza lavoro da 1000 addetti a circa 600. Quei sacrifici non portarono a nuovi investimenti come era stato promesso.

Ora la delocalizzazione. Per evitare i licenziamenti gli operai avevano deciso di ridursi l’orario di lavoro e di rinunciare ad una parte del salario, ma tutto questo non è bastato. La società leader nella produzione di cappe da cucina ha deciso di spostare circa il 70% dell’attività in Polonia. E' l'ennesima beffa per i lavoratori. Dei 560 addetti, 400 saranno licenziati.

Il piano di ristrutturazione prevede il taglio della produzione di bassa gamma. Sarà chiuso lo stabilimento di Cerreto d’Esi. Le linee saranno spostate a Jelcz-Laskowice. Mentre l’attività di gamma alta rimarrà nello stabilimento di Mergo.

I lavoratori hanno chiesto un incontro urgente con il ministro dello Sviluppo Economico Giancarlo Giorgetti. Ma i sindacati e gli esponenti di Sinistra italiana denunciano l’assenza di iniziative da parte del dicastero guidato dall’esponente leghista. Una situazione di inerzia sulle vertenze industriali come questa non si era mai verificata nel nostro paese, sottolineano.

La storia si ripete. Il rischio della desertificazione industriale di gran parte del territorio è evidente. La motivazione è sempre la stessa: incrementare i profitti e non importa se a pagarne le conseguenze sono i lavoratori e le loro famiglie. Ormai è ‘macelleria sociale’. Il post Covid-19 potrebbe causare decine di migliaia di licenziamenti. I prossimi mesi saranno molto difficili per molte famiglie italiane.

'È una sconfitta della politica e degli imprenditori italiani. È la sconfessione dell’efficacia del Decreto Dignità introdotto dal governo Penta-leghista e, voluto, in particolare da Luigi Di Maio. Ed è la dimostrazione dell’inutilità delle politiche di incentivi statali alle imprese private. I finanziamenti e le agevolazioni concesse per garantire i posti di lavoro non bastano, occorrono politiche industriali e piani di investimento pubblico nel medio-lungo periodo. Fino a quando la logica sarà solo quella del profitto, le delocalizzazioni continueranno, specie nel Sud Italia, ed a pagarne le conseguenze saranno sempre e solo i lavoratori'.

Fonte: REDNEWS