lunedì 23 giugno 2025
‘Record di espatri e di immigrazione straniera’
Negli ultimi due anni 269.789 italiani sono emigrati, 760mila cittadini stranieri sono arrivati in Italia e nel Mezzogiorno c’è stato un calo di residenti di -116mila unità, a certificarlo sono i dati l'Istat che smentiscono l'enfasi sui risultati economici con cui si è espressa pochi giorni fa Giorgia Meloni

Un barchino di migranti sulle acque del mediterraneo
Nel biennio 2023-2024 secondo i dati Istat le immigrazioni di cittadini stranieri (760mila +31,1%) e gli espatri degli italiani (270mila + 39,30%) hanno raggiunto valori mai osservati negli ultimi dieci anni.Nel 2024 gli arrivi sono stati 382.071, nel 2023 378.372. Nello stesso periodo sono emigrati 114.057 italiani e 155.732 l’anno successivo.
Dal Mezzogiorno al Centro-Nord si sono trasferiti 241mila residenti, contro i 125mila che hanno seguito la rotta inversa, questo significa che nel biennio preso in considerazione il Sud ha perso 116mila residenti.
I trasferimenti tra Comuni sono stati 2 milioni 847mila.
La mobilità interna media è stata del 21,7 per mille per i cittadini italiani, oltre il doppio per gli stranieri, cioè il 49,0 per mille.
L’aumento dei flussi sarebbe dovuto alle crisi e ai conflitti internazionali. Il principale Paese da cui provengono gli immigrati è l’Ucraina, seguono l’Albania, Bangladesh, Marocco, Romania, Egitto, Pakistan, Argentina e Tunisia. Questo ha determinato un aumento dei rifugiati e dei richiedenti asilo.
Il Mezzogiorno continua ad avere una dinamica migratoria negativa, mentre il Centro-Nord è l’area del Paese più attrattiva rispetto ai movimenti interni. In cima a questa graduatoria c’è la Basilicata (-5,6 per mille), seguita dalla Calabria (-5,0 per mille), e tra le città Vibo Valentia (-12,7 per mille).
Fonte istat.it
Negli ultimi due anni 269.789 italiani sono emigrati, 760mila cittadini stranieri sono arrivati in Italia e nel Mezzogiorno c’è stato un calo di residenti di -116mila unità, a certificarlo sono i dati l'Istat che smentiscono l'enfasi sui risultati economici con cui si è espressa pochi giorni fa Giorgia Meloni
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| Un barchino di migranti sulle acque del mediterraneo |
Nel 2024 gli arrivi sono stati 382.071, nel 2023 378.372. Nello stesso periodo sono emigrati 114.057 italiani e 155.732 l’anno successivo.
Dal Mezzogiorno al Centro-Nord si sono trasferiti 241mila residenti, contro i 125mila che hanno seguito la rotta inversa, questo significa che nel biennio preso in considerazione il Sud ha perso 116mila residenti.
I trasferimenti tra Comuni sono stati 2 milioni 847mila.
La mobilità interna media è stata del 21,7 per mille per i cittadini italiani, oltre il doppio per gli stranieri, cioè il 49,0 per mille.
L’aumento dei flussi sarebbe dovuto alle crisi e ai conflitti internazionali. Il principale Paese da cui provengono gli immigrati è l’Ucraina, seguono l’Albania, Bangladesh, Marocco, Romania, Egitto, Pakistan, Argentina e Tunisia. Questo ha determinato un aumento dei rifugiati e dei richiedenti asilo.
Il Mezzogiorno continua ad avere una dinamica migratoria negativa, mentre il Centro-Nord è l’area del Paese più attrattiva rispetto ai movimenti interni. In cima a questa graduatoria c’è la Basilicata (-5,6 per mille), seguita dalla Calabria (-5,0 per mille), e tra le città Vibo Valentia (-12,7 per mille).
Fonte istat.it
lunedì 9 novembre 2020
CGIA di Mestre: ‘Il Pil del Sud torna indietro al 1989’
Secondo l’ufficio studi della CGIA di Mestre con la pandemia ‘ogni italiano perde quasi 2.500 euro ed il Prodotto Interno Lordo del Meridione torna indietro di 31 anni’
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da teleborsa.it
La pandemia causata dal Coronavirus farà perdere ad ogni italiano in media 2.484 euro. A Milano saranno 5.575, a Bolzano 4.058, a Modena 3.645 e a Firenze 3.603.
Il dato più allarmante riguarda il Sud. Secondo l’Ufficio studi della CGIA di Mestre la ricchezza prodotta nel Mezzogiorno diminuirà meno delle altre aree del Paese, cioè -9%, ma, nonostante ciò, ‘il Pil del Sud tornerà allo stesso livello del 1989’. Molise, Campania e Calabria torneranno al 1988, la Sicilia addirittura al 1986.
“Con meno soldi in tasca, più disoccupati e tante attività che entro la fine dell’anno chiuderanno definitivamente i battenti – dichiara il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo - rischiamo che la gravissima difficoltà economica che stiamo vivendo in questo momento sfoci in una pericolosa crisi sociale. Soprattutto nel Mezzogiorno, che è l’area del Paese più in difficoltà, c’è il pericolo che le organizzazioni criminali di stampo mafioso cavalchino questo disagio traendone un grande vantaggio in termini di consenso.
Ed ancora: ‘solo se riusciremo a mantenere in vita le aziende potremo difendere i posti di lavoro, altrimenti saremo chiamati ad affrontare mesi molto difficili’.
Nonostante il blocco dei licenziamenti, sottolinea il rapporto, ‘gli occupati scenderanno di circa 500 mila unità’. A subire il calo maggiore sarà ancora una volta il Mezzogiorno (-180 mila addetti). La Sicilia farà registrare un -2,9%, la Campania -3,5% e la Calabria -5,1%.
Piove sul bagnato. La crisi dovuta alla pandemia sta mettendo in ginocchio l’economia delle regioni del Sud. La perdita di posti di lavoro causerà un incremento della migrazione verso il Nord Italia o verso l’estero ed un ulteriore impoverimento del tessuto sociale ed economico del Meridione.
Una seria politica di investimenti nel Mezzogiorno non è più rinviabile. E se a sostenerlo sono anche gli artigiani del profondo Nord c’è da crederci.
Fonte CGIA di Mestre
Secondo l’ufficio studi della CGIA di Mestre con la pandemia ‘ogni italiano perde quasi 2.500 euro ed il Prodotto Interno Lordo del Meridione torna indietro di 31 anni’
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
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| Foto da teleborsa.it |
La pandemia causata dal Coronavirus farà perdere ad ogni italiano in media 2.484 euro. A Milano saranno 5.575, a Bolzano 4.058, a Modena 3.645 e a Firenze 3.603.
Il dato più allarmante riguarda il Sud. Secondo l’Ufficio studi della CGIA di Mestre la ricchezza prodotta nel Mezzogiorno diminuirà meno delle altre aree del Paese, cioè -9%, ma, nonostante ciò, ‘il Pil del Sud tornerà allo stesso livello del 1989’. Molise, Campania e Calabria torneranno al 1988, la Sicilia addirittura al 1986.
“Con meno soldi in tasca, più disoccupati e tante attività che entro la fine dell’anno chiuderanno definitivamente i battenti – dichiara il coordinatore dell’Ufficio studi Paolo Zabeo - rischiamo che la gravissima difficoltà economica che stiamo vivendo in questo momento sfoci in una pericolosa crisi sociale. Soprattutto nel Mezzogiorno, che è l’area del Paese più in difficoltà, c’è il pericolo che le organizzazioni criminali di stampo mafioso cavalchino questo disagio traendone un grande vantaggio in termini di consenso.
Ed ancora: ‘solo se riusciremo a mantenere in vita le aziende potremo difendere i posti di lavoro, altrimenti saremo chiamati ad affrontare mesi molto difficili’.
Nonostante il blocco dei licenziamenti, sottolinea il rapporto, ‘gli occupati scenderanno di circa 500 mila unità’. A subire il calo maggiore sarà ancora una volta il Mezzogiorno (-180 mila addetti). La Sicilia farà registrare un -2,9%, la Campania -3,5% e la Calabria -5,1%.
Piove sul bagnato. La crisi dovuta alla pandemia sta mettendo in ginocchio l’economia delle regioni del Sud. La perdita di posti di lavoro causerà un incremento della migrazione verso il Nord Italia o verso l’estero ed un ulteriore impoverimento del tessuto sociale ed economico del Meridione.
Una seria politica di investimenti nel Mezzogiorno non è più rinviabile. E se a sostenerlo sono anche gli artigiani del profondo Nord c’è da crederci.
Fonte CGIA di Mestre
sabato 31 ottobre 2020
Whirpool, prendi i soldi e scappa
La vicenda Whirpool di Napoli è emblematica. La delocalizzazione delle fabbriche italiane non è una novità. È solo l’ultimo episodio di una lunga serie
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da startmag.it
I dipendenti della Whirpool di Napoli sono stati ‘esentati dal rendere la propria prestazione lavorativa presso il sito e qualsiasi accesso non autorizzato sarà perseguito a termini di legge’. Per questo motivo i lavoratori hanno deciso di iniziare da subito il presidio dei locali dell’azienda. La vicenda per loro non è conclusa, e come potrebbe esserlo.Dopo 18 mesi di lotte e di scioperi, con un messaggio telefonico, sono stati licenziati 400 addetti, ma il numero raddoppia se consideriamo anche l’indotto. A nulla sono valsi i tentativi di mediazione del Governo. La multinazionale statunitense negli ultimi anni ha ricevuto circa cento milioni di euro di aiuti pubblici per continuare a produrre nella città campana. Ed altri poteva riceverne, ma nulla è riuscito a far cambiare opinione agli amministratori dell’azienda produttrice di elettrodomestici.
La vicenda della fabbrica della Whirpool di Napoli è solo l’ultima di una lunga serie. Le imprese italiane ed estere acquisiscono i marchi più famosi del Made in Italy, approfittano degli aiuti statali e, infine, delocalizzano. Spesso si tratta di aziende che producono utili e lavoro, ma, nonostante ciò, si trasferiscono all’estero, perché? La risposta è ovvia: tutto è fatto in funzione della produttività. È la logica del capitalismo, è, cioè, la logica del profitto a tutti i costi. L’obiettivo degli imprenditori non è il benessere dei lavoratori e delle comunità dove le aziende hanno la sede e gli stabilimenti, ma l’arricchimento dei proprietari.
Con la globalizzazione le opportunità di accumulazione del capitale hanno varcato i confini nazionali, per cui spesso è più conveniente produrre nei paesi dove il costo del lavoro e delle materie prime sono più bassi.
Intanto, un’altra fabbrica del Sud chiude i battenti. E centinaia di lavoratori si ritrovano senza un’occupazione stabile. È una sconfitta della politica e degli imprenditori italiani. È la sconfessione dell’efficacia del Decreto Dignità introdotto dal Governo ‘pentaleghista’ e, voluto, in particolare da Luigi Di Maio. È la disfatta dell’operato del ministro dello Sviluppo Economico, Stefano Patuanelli e dell’azione dei sindacati.
Ed è la dimostrazione dell’inutilità delle politiche di incentivi statali alle imprese private. I finanziamenti e le agevolazioni concesse per garantire i posti di lavoro non bastano, occorrono politiche industriali e piani di investimento pubblico nel medio-lungo periodo. Fino a quando la logica sarà solo quella del profitto, le delocalizzazioni continueranno, specie nel Sud Italia, ed a pagarne le conseguenze saranno sempre e solo i lavoratori.
Fonte televideo.rai.it
La vicenda Whirpool di Napoli è emblematica. La delocalizzazione delle fabbriche italiane non è una novità. È solo l’ultimo episodio di una lunga serie
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
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| Foto da startmag.it |
Dopo 18 mesi di lotte e di scioperi, con un messaggio telefonico, sono stati licenziati 400 addetti, ma il numero raddoppia se consideriamo anche l’indotto. A nulla sono valsi i tentativi di mediazione del Governo. La multinazionale statunitense negli ultimi anni ha ricevuto circa cento milioni di euro di aiuti pubblici per continuare a produrre nella città campana. Ed altri poteva riceverne, ma nulla è riuscito a far cambiare opinione agli amministratori dell’azienda produttrice di elettrodomestici.
La vicenda della fabbrica della Whirpool di Napoli è solo l’ultima di una lunga serie. Le imprese italiane ed estere acquisiscono i marchi più famosi del Made in Italy, approfittano degli aiuti statali e, infine, delocalizzano. Spesso si tratta di aziende che producono utili e lavoro, ma, nonostante ciò, si trasferiscono all’estero, perché? La risposta è ovvia: tutto è fatto in funzione della produttività. È la logica del capitalismo, è, cioè, la logica del profitto a tutti i costi. L’obiettivo degli imprenditori non è il benessere dei lavoratori e delle comunità dove le aziende hanno la sede e gli stabilimenti, ma l’arricchimento dei proprietari.
Con la globalizzazione le opportunità di accumulazione del capitale hanno varcato i confini nazionali, per cui spesso è più conveniente produrre nei paesi dove il costo del lavoro e delle materie prime sono più bassi.
Intanto, un’altra fabbrica del Sud chiude i battenti. E centinaia di lavoratori si ritrovano senza un’occupazione stabile. È una sconfitta della politica e degli imprenditori italiani. È la sconfessione dell’efficacia del Decreto Dignità introdotto dal Governo ‘pentaleghista’ e, voluto, in particolare da Luigi Di Maio. È la disfatta dell’operato del ministro dello Sviluppo Economico, Stefano Patuanelli e dell’azione dei sindacati.
Ed è la dimostrazione dell’inutilità delle politiche di incentivi statali alle imprese private. I finanziamenti e le agevolazioni concesse per garantire i posti di lavoro non bastano, occorrono politiche industriali e piani di investimento pubblico nel medio-lungo periodo. Fino a quando la logica sarà solo quella del profitto, le delocalizzazioni continueranno, specie nel Sud Italia, ed a pagarne le conseguenze saranno sempre e solo i lavoratori.
Fonte televideo.rai.it
mercoledì 26 agosto 2020
Lavorare meno, lavorare tutti
‘Ridurre le ore di lavoro a parità di stipendio: la produttività ne guadagna’, a sostenerlo è la premier finlandese Sanna Marin
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

La Premier Sanna Marin il giorno della nomina del suo governo, 10 dicembre 2019 - (foto da it.wikipedia.org)
Lavorare meno, lavorare tutti è ‘un modo per distribuire più equamente la ricchezza è migliorare le condizioni di lavoro e ridurre le ore, in modo che ciò non danneggi i livelli di reddito. Quando la Finlandia è passata alla giornata lavorativa di otto ore e a cinque giorni a settimana, come da obiettivi dei socialdemocratici, ciò non ha portato al collasso dei salari, che nei decenni sono invece aumentati’.
La proposta della premier socialdemocratica finlandese non è nuova, ma da come è posta sembra quasi un fatto ineluttabile, un’ovvietà dettata dalla storia. Ma non è così. In gioco c’è il rapporto, da sempre conflittuale, tra profitto e lavoro.
Negli ultimi trent’anni gli incrementi di produttività hanno favorito l’accumulazione del capitale e la crescita delle disuguaglianze. Occorrerebbe capovolgere questo andamento. Ma come? La proposta di Sanna Marin è un’opzione semplice, chiara, e, se si vuole, realizzabile. Per fare gli interessi dei lavoratori non occorrono grandi e complessi programmi, basta poco, come quella per cui intende battersi la giovane premier finlandese. Di certo, ridurre l’orario di lavoro a parità di stipendio comporterebbe una più equa redistribuzione della ricchezza prodotta e un aumento degli occupati.
Nella vita, si sa, è sempre una questione di scelte. La pandemia dovuta al Covid-19 ci sta facendo riflettere su cosa sia veramente importante. La salute ed il tempo libero da dedicare ai nostri affetti sono diventati priorità.
Dobbiamo ‘pensare alle nostre vite da un nuovo punto di vista’, sottolinea Sanna Marin. Il benessere è anche poter realizzare i piccoli e grandi sogni quotidiani o, più semplicemente, pensare a noi stessi. La riduzione dell’orario di lavoro non è solo una questione economica, ma anche e soprattutto del tempo che abbiamo per realizzare pienamente la vita che ci è concessa e che, è bene ricordarlo, è breve e non può prescindere da quella degli altri.
Fonte ilfattoquotidiano.it
‘Ridurre le ore di lavoro a parità di stipendio: la produttività ne guadagna’, a sostenerlo è la premier finlandese Sanna Marin
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
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La Premier Sanna Marin il giorno della nomina del suo governo, 10 dicembre 2019 - (foto da it.wikipedia.org)
Lavorare meno, lavorare tutti è ‘un modo per distribuire più equamente la ricchezza è migliorare le condizioni di lavoro e ridurre le ore, in modo che ciò non danneggi i livelli di reddito. Quando la Finlandia è passata alla giornata lavorativa di otto ore e a cinque giorni a settimana, come da obiettivi dei socialdemocratici, ciò non ha portato al collasso dei salari, che nei decenni sono invece aumentati’.
La proposta della premier socialdemocratica finlandese non è nuova, ma da come è posta sembra quasi un fatto ineluttabile, un’ovvietà dettata dalla storia. Ma non è così. In gioco c’è il rapporto, da sempre conflittuale, tra profitto e lavoro.
Negli ultimi trent’anni gli incrementi di produttività hanno favorito l’accumulazione del capitale e la crescita delle disuguaglianze. Occorrerebbe capovolgere questo andamento. Ma come? La proposta di Sanna Marin è un’opzione semplice, chiara, e, se si vuole, realizzabile. Per fare gli interessi dei lavoratori non occorrono grandi e complessi programmi, basta poco, come quella per cui intende battersi la giovane premier finlandese. Di certo, ridurre l’orario di lavoro a parità di stipendio comporterebbe una più equa redistribuzione della ricchezza prodotta e un aumento degli occupati.
Nella vita, si sa, è sempre una questione di scelte. La pandemia dovuta al Covid-19 ci sta facendo riflettere su cosa sia veramente importante. La salute ed il tempo libero da dedicare ai nostri affetti sono diventati priorità.
Dobbiamo ‘pensare alle nostre vite da un nuovo punto di vista’, sottolinea Sanna Marin. Il benessere è anche poter realizzare i piccoli e grandi sogni quotidiani o, più semplicemente, pensare a noi stessi. La riduzione dell’orario di lavoro non è solo una questione economica, ma anche e soprattutto del tempo che abbiamo per realizzare pienamente la vita che ci è concessa e che, è bene ricordarlo, è breve e non può prescindere da quella degli altri.
Fonte ilfattoquotidiano.it
mercoledì 19 agosto 2020
Perché non mettiamo una patrimoniale ai 400 mila milionari italiani?
L’Italia è il nono Paese al mondo per ricchezza finanziaria. A sostenerlo è la ventesima edizione del report di Boston Consulting Group
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
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| Foto da web.rifondazione.it |
Negli ultimi vent’anni si è verificato il rialzo del mercato finanziario più alto della storia. La ricchezza globale è passata dagli 80 mila miliardi di dollari del 1999 ai 226 mila miliardi di dollari di fine 2019. Nell’ultimo anno la crescita è stata del 9,6%. A sostenerlo è il ventesimo report di Boston Consulting Group intitolato Global Wealth 2020: The Future of Wealth Management – A CEO Agenda’.
Nel nostro Paese la ricchezza finanziaria era, nel 2019, di 5,3 miliardi di dollari. Si conferma, quindi, come essa sia, per i nostri connazionali, un asset strategico fondamentale. Secondo Bcg 400 mila italiani posseggono un patrimonio di almeno un milione di dollari. Si tratta dell’1% della popolazione italiana. Tra questi, 1.700 posseggono un patrimonio finanziario di oltre 100 milioni di dollari.
L’Italia è un Paese contraddittorio. Abbiamo il debito pubblico e la ricchezza personale tra le più alte al mondo. Eppure, elemosiniamo i bonus e gli ammortizzatori sociali anche quando non ne abbiamo bisogno. Eludiamo o, peggio, evadiamo le imposte e ci lamentiamo di quella burocrazia che non è capace di farci pagare il dovuto. Vogliamo tutto e subito, ma non vogliamo pagare dazio.
Non chiediamo il Mes, siamo contrari alle intromissioni dell’Unione europea sulle nostre politiche di bilancio, non vogliamo patrimoniali, ma auspichiamo il Recovery fund, cioè finanziamenti a fondo perduto.
Intanto, il debito pubblico cresce e prima o poi ne pagheremo le conseguenze, ma a farlo saranno i soliti noti, cioè gli altri, sempre gli altri. Ed è assai probabile che tra loro non ci saranno i 400 mila milionari sanciti da Bcg.
Qualcuno lo avrà già ipotizzato e detto, ma perchè non mettiamo una patrimoniale su questi milionari? Certo, questo provvedimento non risolverebbe il problema del debito pubblico, ma almeno limiterebbe la crescita delle ingiustizie e delle disuguaglianze.
Fonte image-src.bcg.com
Ubicazione: Torremuzza ME, Italia
lunedì 18 giugno 2018
Siamo il Paese dei condoni fiscali, altro che flat tax
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| Foto da cgiamestre.com |
giovedì 31 maggio 2018
'La botte piena e la moglie ubriaca'
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| Grafico rendimento Btp dal 2004 - (foto da websim.it) |
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| Andamento del rapporto debito/Pil dal 1861 |
mercoledì 16 maggio 2018
Istat: l’occupazione torna ai livelli pre-crisi ma non per il Sud
I dati che emergono dal rapporto annuale 2018 pubblicato dall’Istat confermano la crescita dell’occupazione e del Pil, ma evidenziano anche il divario economico tra le diverse categorie sociali e tra le diverse aree del Paese
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da istat.it
Nel 2017 gli occupati erano 23 milioni, 265 mila in più (+1,2%) rispetto al 2016. Il tasso di occupazione è salito al 58%, valore quasi uguale a quello massimo raggiunto nel 2008 (58,9%) anche se rimane inferiore di nove punti rispetto alla media europea. I disoccupati erano 2,9 milioni e il tasso di disoccupazione era all’11,2%, nel 2016 era all'11,7%. I nuovi posti di lavoro si concentrano soprattutto nelle regioni del Centro – Nord, dove sono tornati ai livelli pre-crisi, resta indietro il Sud. Nel Mezzogiorno il saldo occupazionale rispetto al 2008 è stato negativo per 310 mila unità, ossia -4,8%.
Migliorano i dati macroeconomici e quelli sul debito pubblico. Il Pil è cresciuto nel 2017 dell’1,5%. L’indebitamento netto è sceso dal 2,5% al 2,3% ed il rapporto debito Pil si è ridotto di due punti percentuali, al 131,8%.
L’Italia è, dopo il Giappone, il paese più vecchio al mondo. Ogni 170 anziani (persone over 65 anni) ci sono 100 giovani (tra 0 e 14 anni). L’aspettativa di vita è di 81 anni per i maschi e di 85 anni per le femmine. Le nascite sono in calo da nove anni, nel 2008 sono state 577 mila, nel 2017 464 mila. Per le donne l’età media per la nascita del primo figlio era di 26 anni nel 1980, nel 2016 è stata di 31 anni.
La popolazione totale è diminuita per il terzo anno consecutivo. Sono quasi 100 mila persone in meno rispetto all’anno precedente. Si stima che al 1° gennaio 2018 i residenti siano 60,5 milioni, il dato comprende gli stranieri che ammontano all’8,4% del totale, cioè sono 5,6 milioni di persone.
Quella fotografata dall’Istat è un’Italia a due velocità, un Paese vecchio dove continuano a crescere le disuguaglianze territoriali e sociali.
Fonte: istat.it
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| Foto da istat.it |
venerdì 20 aprile 2018
Siamo tutti debitori ‘inconsapevoli’
Il debito pubblico dello Stato italiano continua a crescere sia in valori assoluti che in rapporto al Pil, ma a pagarne le conseguenze sono solo i lavoratori
di Pulvino Giovanni (@PulvinoGiovanni)

Foto da umbvrei.blogspot.com
Oggi, ogni italiano, neonati compresi, è debitore inconsapevole di circa 37 mila euro. L’importo è il risultato della divisione tra il numero di cittadini (circa 60 milioni) e l’ammontare del debito pubblico (circa 2.287 miliardi di euro). ‘L’accollo debitorio’ cosi calcolato non tiene conto del reddito o del patrimonio del singolo cittadino, non fa differenza, cioè, tra un benestante ed un disoccupato. Ed è evidente che un ipotetico rimborso per il ‘milionario’ costituirebbe una cifra irrisoria, mentre per il disoccupato sarebbe assai complicato adempiere all’obbligo che ne deriverebbe. Inoltre, è probabile che chi dispone di risorse finanziarie sia anche possessore di titoli di Stato (Bot, Cct, ecc.). In tal caso egli, in quanto creditore dell’Erario, percepisce una rendita finanziaria derivante dalla somma degli interessi e delle plusvalenze che su di essi maturano. E’ uno dei tanti paradossi italiani che consentono ad alcuni (ceti medio - alti) di approfittare di ogni situazione per arricchirsi ed ad altri (ceti medio - bassi) di pagarne le conseguenze.

Foto da agenziaradicale.it
Gli unici governi che dal 1945 ad oggi sono riusciti ad abbassare il debito, almeno in rapporto al Pil ed operando senza creare traumi finanziari e sociali, sono stati gli esecutivi di Romano Prodi e quello di Massino D’Alema. Tra il 1996 ed il 2001 il rapporto debito/Pil è sceso dal 120% al 101%. Quelle politiche economiche consentirono all’Italia di avere buoni tassi di crescita e di entrare nell’Euro, ma nelle elezioni regionali e, successivamente, in quelle politiche ad essere premiata è stata la coalizione di Centrodestra. La serietà ed il ‘buon governo’ non pagarono, ma questa non è una novità. Dal 2002 il debito è tornato a crescere. Anzi nel 2011 esso era fuori controllo ed il Paese, allora guidato da Silvio Berlusconi (che per questo fu costretto a dimettersi), era sull’orlo del default finanziario.
Negli ultimi diciotto anni i tentativi di risanamento hanno determinato tagli alla spesa pubblica (pensioni, sanità e scuola) ed incrementi delle entrate tributarie (Ici/Imu, Iva, ecc..), ma i deficit di bilancio sono cresciuti o sono rimasti pressoché invariati. L’introduzione dell’Ici, poi abolita dal governo di Silvio Berlusconi e, successivamente, reintrodotta dal governo di Mario Monti con la denominazione di Imu, non sono servite ad abbassare il debito, ma solo ad impedirne una crescita incontrollata. Le altre misure introdotte dai governi di ‘emergenza nazionale’ di Giuliano Amato (1992), Lamberto Dini (1993) e Mario Monti (2011) hanno riguardato le modalità di accesso e calcolo delle pensioni che hanno prodotto ingiustizie persino tra i pensionati.
A pagare il costo del ‘rigore finanziario’ sono stati soprattutto i lavoratori.Le statistiche pubblicate negli ultimi anni dai vari istituti di ricerca mostrano un aumento delle disuguaglianze tra le classi sociali e del divario economico tra il Centro – Nord ed il Sud del Paese. Anzi, i tentativi di risanamento dell’abnorme debito pubblico creato con decenni di politiche clientelari, con l’inefficienza della Pubblica Amministrazione e con una corruzione diffusa non solo non hanno intaccato i patrimoni dei ceti sociali più alti, ma sono stati occasioni per incrementare le loro ricchezze, mentre il debito pro-capite è di tutti, neonati compresi.
Fonti: Mef, Istat.it, italiaora.org
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| Foto da umbvrei.blogspot.com |
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| Foto da agenziaradicale.it |
Il 30% più ricco detiene circa il 75% del patrimonio netto
L’indagine pubblicata da Banca d’Italia sui bilanci 2016 delle famiglie italiane conferma la crescita delle disuguaglianze e del divario economico e sociale tra le diverse regioni del Paese
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da bancaditalia.it
‘Il reddito equivalente medio- a prezzi costanti e corretto per confrontare tra loro nuclei familiari di diversa composizione - è cresciuto del 3,5%; si è interrotta la caduta, pressoché continua, avviatasi nel 2006 ma il reddito equivalente è ancora inferiore di 11 punti percentuali a quello registrato in quell'anno’. Questo è quanto si legge nel rapporto pubblicato dalla Banca d’Italia. Secondo l'indagine, l’indice Gini, che misura la disuguaglianza, è salito al 33,5% dal 33% del 2014 e 32% del 2006. La quota di persone che hanno un reddito equivalente inferiore del 60% rispetto a quello medio, cioè circa 830 euro, è salita al 23%, nel 2006 era del 19,6%. La novità è che la crescita percentuale più alta è stata registrata nel Nord del Paese. Dall’8,35% del 2006 essa è passata al 15% del 2016. Su questo incremento incidono per il 55% (nel 2006 era del 33,9%) i lavoratori di origine straniera. Nelle regioni del Centro la percentuale è salita al 12,3%, era al 9,7% nel 2006. Il maggior numero di persone che sono a rischio povertà vive soprattutto nel Mezzogiorno,qui la percentuale del 39,4% registrata nel 2016 è simile a quella del 2006, quando era del 39,5%. Le disuguaglianze sono evidenziate anche dal confronto della ricchezza posseduta tra le diverse categorie sociali.Secondo l’indagine il 30% più povero delle famiglie detiene in media 6.500 euro, cioè l’1% della ricchezza totale. Mentre il 30% più ricco detiene circa il 75% del patrimonio netto rilevato, in media essa è di 510.000 euro. Il 5% ha mediamente un patrimonio di 1,3 milioni di euro. In questi giorni opinionisti ed esperti delle vicende politiche italiane si stanno affannando a dare una spiegazione plausibile al risultato elettorale del 4 marzo scorso, ma basterebbe leggere questo rapporto per comprenderne il significato. Un Paese diviso in due, sia dal punto di vista geografico che da quello sociale. Ed è per questo che molti italiani, stanchi delle tante e ripetute promesse non mantenute, soprattutto da parte di chi dovrebbe difendere e tutelare la parte più debole della società italiana, hanno deciso di votare contro l’etablissement e le forze politiche tradizionali che li sostengono e rappresentano.
Fonte: bancaditalia.it
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| Foto da bancaditalia.it |
Fonte: bancaditalia.it
mercoledì 6 dicembre 2017
Il 30% delle persone residenti in Italia è a rischio povertà o esclusione sociale
Con la ripresa economica cresce il reddito disponibile ed il potere d’acquisto delle famiglie, ma aumentano anche la disuguaglianza economica ed il rischio povertà o esclusione sociale
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da dire.it
I dati dell’indagine condotta dall’Istat sulle condizioni di vita, reddito e carico fiscale relativi al 2016 mostrano una ‘significativa’ crescita del reddito ‘associata ad un aumento della disuguaglianza economica’. Insomma i ricchi sono sempre più ricchi, mentre cresce il numero di coloro che vivono o rischiano di cadere in povertà. Il reddito netto medio annuo per famiglia è pari a 29.988 euro, circa 2.500 euro al mese, con un incremento percentuale del +1,8 in termini nominali e del +1,4 in termini di valore d’acquisto. Circa metà delle famiglie percepisce un reddito annuo di 24.522 euro, mentre nel Sud rimane, nonostante la crescita del +2,8%, a 20.557 euro, circa 1.713 euro mensili.

Matteo Renzi - (foto da agora24.it)
La crescita del reddito è diversa tra le categorie sociali.Per il 20% più ricco della popolazione l’incremento è maggiore, in particolare per i redditi derivanti da lavoro autonomo. Il rapporto ‘equivalente‘ tra quello percepito dal 20% della popolazione più ricca e il corrispondente più povero è aumentato da 5,8 a 6,3.L’Istat stima che il 30% delle persone residenti in Italia, vale a dire circa 18 milioni di individui, è a rischio povertà o esclusione sociale, percentuale in aumento rispetto al 2015 quando era pari al 28,7%. Nel Mezzogiorno la probabilità di cadere in una condizione d’indigenza e bisogno è del 46,9%, in crescita dal 46,4% del 2015, ed è in aumento anche nel Nord-ovest (21,0% da 18,5%) e nel Nord-est (17,1% da 15,9%), mentre è stabile nel Centro (25,1%). A rischio povertà o esclusione sociale sono soprattutto le famiglie numerose con cinque o più elementi (43,7%), la situazione peggiora anche per quelle con uno o due componenti. Quando si annunciano con enfasi i risultati positivi sull’incremento del Pil e dei posti di lavoro occorrerebbe ricordarsi anche di questi dati e del fatto che milioni d’italiani vivono in condizioni sociali difficili e che la ripresa economica anziché ridurre sta aumentando le disuguaglianze ed incrementando il divario economico e sociale tra il Centro-nord sempre più ricco ed il Sud sempre più povero ed assistito. I nostri politici invece di parlare di taglio delle tasse e di banche dovrebbero occuparsi di chi è disoccupato o vive con la pensione al minimo e fa fatica ad arrivare a fine a mese, mentre c’è chi continua ad arricchirsi e non sa che farsene del ‘superfluo’ che ha a disposizione.
Fonte: istat.it
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| Foto da dire.it |
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| Matteo Renzi - (foto da agora24.it) |
giovedì 16 novembre 2017
Il rischio di cadere in povertà è triplo al Sud rispetto al resto del Paese ed in Sicilia e Campania sfiora il 40%.
L’unico modo che hanno i meridionali per migliorare le loro condizioni economiche è emigrare, a sostenerlo è il rapporto Svimez 2017 sull’economia nel Mezzogiorno
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Roberto Maroni e Silvio Berlusconi - (foto da lettera43.it)
Il saldo migratorio delle regioni del Sud continua ad essere negativo (-28 mila unità nel 2016), mentre nel Centro Nord nello stesso periodo è aumentato di 93.500 unità. In particolare la Sicilia ha perso 9.300 abitanti, la Campania 9.100, la Puglia 6.900. In forte aumento anche il fenomeno del ‘pendolarismo’. Nel Mezzogiorno ha interessato 208 mila persone, di cui 154 mila sono andate a vivere per lavoronel Centro-Nord o all’estero. Questo fenomeno spiega, almeno per un quarto, l’aumento dell’occupazione al Sud avvenuto nel 2016 (+101 mila unità). Negli ultimi quindici anni circa 200 mila giovani meridionali si sono laureati nelle università del Centro-Nord, causando una ‘perdita netta in termini finanziari del Sud di circa 30 miliardi’ (quasi due punti di Pil).

Fotot da conquistedellavoro.it
Nel 2016 ’10 meridionali su 100 risultano in condizioni di povertà assoluta’, mentre nel Centro Nord sono 6 su 100. Non solo, il rischio di cadere in povertà è triplo al Sudrispetto al resto del Paese e in Sicilia e in Campania sfiora il 40%. Il prodotto medio per abitante è nel Sud il 56,1% di quello del Centro-Nord. Nel Trentino Alto Adige è di 38.745 euro pro capite, mentre in Calabria è stato di 16.848 euro, vale a dire il 56,52% in meno. L’indagine condotta da Svimez evidenzia anche ‘l’interdipendenza economica’ tra le regioni italiane. La domanda interna del Sud ‘attiva’ il 14% del Pil del Centro-Nord (in termini assoluti nel 2016 è stato 117 miliardi di euro). I flussi redistributivi fiscali verso le regioni meridionali sono diminuiti del 10%, sono passati cioè da oltre 55,5 miliardi di euro a 50. ‘Di questi 20 miliardi ritornano direttamente al Centro-Nord’, altri rimangono per sostenere un mercato che è ancora decisivo per tutto il Paese. Inoltre nel 2016 gli investimenti in opere pubbliche sono stati 286 euro pro capite al Centro-Nord, nel Mezzogiorno invece meno di 107 euro.Nel 1970 il rapporto era di 340,80 euro al Centro-Nord contro i 529 euro del Sud.Nell’ultimo cinquantennio la spesa per infrastrutture è crollata nelle regioni settentrionali del -2% l’anno, al Sud del -4,8% l’anno. Infine, il surplus di depositi dei meridionali finanzia le imprese del Centro-Nord.Nelle regioni settentrionali a fronte di depositi per 959 miliardi di euro di depositi gli impieghi sono stati 1.610 miliardi di euro. Con questi dati non si comprendono i recenti referendum consultivi che si sono svolti in Lombardia e Veneto per chiedere maggiore autonomia amministrativa e fiscale. Il Nord è ricco ed al Sud arrivano le briciole. Ed è paradossale che ha chiedere più risorse pubbliche siano due regioni del Nord Italia anziché quelle meridionali.
Fonte: svimez.info
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| Roberto Maroni e Silvio Berlusconi - (foto da lettera43.it) |
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| Fotot da conquistedellavoro.it |
sabato 11 novembre 2017
Il tasso di occupazione nel Mezzogiorno rimane il più basso d’Europa
Il Mezzogiorno è uscito dalla recessione, ma la ripresa congiunturale non è sufficiente per affrontare le emergenze sociali, a sostenerlo è il rapporto Svimez 2017 sull’economia del Mezzogiorno
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da svimez.info
Nel 2016 il Pil è cresciuto dell’1% nel Meridione e dello 0,8% nel resto d’Italia. Il prossimo anno il Pil crescerà nel Centro-Nord dell'1,6% e dell'1,3% al Sud. Nel 2018 le variazioni si attesteranno rispettivamente al +1,4% nel Centro-Nord e al +1,2% nel Meridione, mentre l’occupazione crescerà rispettivamente dello 0,8% e dello 0,7%. L’industria manifatturiera del Sud è cresciuta negli ultimi due anni del 7%, il doppio del resto del Paese (3%). Questi risultati sono dovuti, secondo Svimez, a due misure adottate dal Governo: le ZES (Zone economiche speciali) e le ‘clausole del 34%’ sugli investimenti ordinari. Tuttavia, il tasso di occupazione nel Mezzogiorno nonostante negli ultimi otto mesi siano stati incentivati oltre 90 mila rapporti di lavoro nell’ambito della misura ‘Occupazione Sud’ rimane il più basso d’Europa (-35%) e la crescita dell’1,7% (101 mila unità) registrata nel 2016 è dovuta 'a rapporti di lavoro a basso reddito e al cosiddetto part time involontario (+1,8%)'. Inoltre, mentre nelle regioni del centro e del settentrione i posti di lavoro persi con la crisi sono stati tutti recuperati(+48 mila nel 2016 rispetto al 2008), in quelle meridionali la perdita di occupazione è ancora oggi pari a -381 mila unità. In Sardegna e in Sicilia la situazione è ancora più grave, nelle due isole gli occupati continuano a calare. Rispetto al 2008 i posti di lavoro sono il 10,5% in meno in Calabria, -8,6% in Sicilia, -6,6% in Sardegna e Puglia, -6,3% in Molise, -5% in Abruzzo. Un po’ meglio sono, invece, i dati della Campania (-2,1%) e della Basilicata (-0.8%). Secondo l’Associazione per lo sviluppo nel Mezzogiorno nel Sud si assiste, a causa di un’occupazione di minore qualità e della riduzione d’orario, ad ‘un graduale dualismo generazionale’ e ad ‘un incremento dei lavoratori a bassa retribuzione’. Insomma, la ripresa economica non è sufficiente per affrontare le emergenze sociali ed il divario economico tra Centro-Nord e Sud Italia continua a crescere.
Fonte: svimez.info
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| Foto da svimez.info |
sabato 23 settembre 2017
Al Nord si pagano più tasse, ma ad essere povero è il Sud dove è cresciuta anche la pressione tributaria
‘Il nostro sistema tributario grava maggiormente sulle regioni dove la concentrazione della ricchezza è più elevata’, a sostenerlo è Paolo Zabeo coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia di Mestre
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da cigiamestre.com
Nel 2015 ogni residente della Lombardia, compresi i neonati, ha pagato in media al fisco 11.898 euro. Ad affermarlo è l’Ufficio studi della Cgia di Mestre. Nella graduatoria seguono gli abitanti del Trentino Alto Adige con 11.029 euro, gli emiliano - romagnoli con 18.810 euro, i laziali con 10.452 euro ed i liguri con 10.121 euro. Nello stesso periodo il gettito medio è stato di 5.703 euro in Campania, 5.610 euro in Sicilia e 5.436 euro in Calabria. L’84% del gettito (7.390 euro pro-capite) è stato incassato dallo Stato centrale, il 9,3% dalle Regioni (825 euro pro-capite) e il restante 6,7% dagli Enti locali (585 euro pro-capite). Secondo la Cgia nel 2017 la pressione fiscale dovrebbe attestarsi al 42,7%, in calo dello 0,4%. Pertanto dovrebbe proseguire il trend positivo iniziato dopo il record storico registrato nel biennio 2012/2013 (43,6%). A livello europeo siamo al 7° posto, 2,8 punti in più rispetto alla media europea (40,1%) e 1,6 punti superiore rispetto al dato dell’area euro (41,3%). ‘Negli ultimi tempi la pressione tributaria sui contribuenti del Mezzogiorno ha subito degli aumenti decisamente superiori al resto d’Italia'. A precisarlo è Il segretario della Cgia Renato Mason. Ed ancora: 'A seguito del disavanzo sanitario che ha contraddistinto in questi ultimi anni i bilanci di quasi tutte le Regioni meridionali, i Governatori di queste realtà sono stati costretti ad innalzare fino alla soglia massima sia l’aliquota dell’Irap sia quella dell’addizionale regionale Irpef con l’obbiettivo di riequilibrare il quadro finanziario’. ‘L’esito di quest’analisi – dichiara il coordinatore dell’Ufficio studi della CGIA Paolo Zabeo - dimostra come ci sia una correlazione tra le entrate fiscali versate, il reddito dichiarato e, in linea di massima, anche la qualità/quantità dei servizi erogati in un determinato territorio. Essendo basato sul criterio della progressività, il nostro sistema tributario grava maggiormente sulle regioni dove la concentrazione della ricchezza è più elevata e il numero di grandi aziende è maggiore, anche se i cittadini e le imprese di queste aree dispongono, nella stragrande maggioranza dei casi, di servizi pubblici migliori rispetto a quelli presenti in altre parti del Paese’.
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| Foto da cigiamestre.com |
venerdì 8 settembre 2017
CGIA: 'Negli ultimi otto anni è crollato il numero delle imprese artigiane'
Con la chiusura di 145.000 imprese artigiane e di 12.000 piccoli negozi di vicinato tra il 2009 ed il 2016 si sono persi circa 400.000 posti di lavoro. A sostenerlo è l’Ufficio studi della CGIA di Mestre
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da pulvino.blogspot.com (free advertising)
Negli ultimi otto anni il numero complessivo delle imprese attive nell’artigianato è sceso da 1.463.318 a 1.322.640, le attività del commercio al dettaglio, invece, sono diminuite in misura più contenuta. Se nel 2009 erano 805.147, nel giugno di quest’anno si sono attestate a quota 793.102. Le categorie artigiane che hanno subito le contrazioni più importanti sono quelle degli autotrasportatori (-30%), dei falegnami (-27,7%), degli edili (-27,6%), dei produttori di vetro e ceramica (-22,1%). Mentre in controtendenza ci sono parrucchieri ed estetisti (+2,4%), gelaterie, pasticcerie e take away (+16,6%), designer (+44,8%), riparatori, manutentori e installatori di macchine (+58%).

Foto da lentepubblica.it
A livello territoriale le regioni più colpite sono quelle del Sud, dove la diminuzione è stata del 12,4%. In particolare in Sardegna è stata del -17,1%, in Abruzzo del -14,5%, in Sicilia del -13,5%, in Molise del -13,2%, in Basilicata del -13,1%. Le chiusure, nonostante l’uscita dalla recessione, sono continuate anche nel 2016 (-1,2%). ‘La crisi, il calo dei consumi, le tasse, la burocrazia, la mancanza di credito e l’impennata del costo degli affitti - sostiene il coordinatore dell’Ufficio studi della CGIA Paolo Zabeo - sono le principali cause che hanno costretto molti piccoli imprenditori ad abbassare definitivamente la saracinesca della propria bottega. Se, inoltre, teniamo conto che negli ultimi quindici anni le politiche commerciali della grande distribuzione si sono fatte sempre più mirate ed aggressive, per molti artigiani e piccoli negozianti non c’è stata via di scampo. L’unica soluzione è stata quella di gettare definitivamente la spugna’.
Per il rilancio dell’artigianato non sarà sufficiente l’uscita dalla crisi economica, ma sarà ‘necessario recuperare - rileva Renato Mason segretario della CGIA - la svalutazione culturale che ha subito in questi ultimi decenni il lavoro artigiano. Anche se bisogna evidenziare che attraverso le riforme della scuola avvenute in questi ultimi anni, il nuovo Testo unico sull’apprendistato del 2011 e le novità introdotte con il Jobs act, sono stati realizzati dei passi importanti verso la giusta direzione, ma tutto ciò non è stato ancora sufficiente per invertire la tendenza’.
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| Foto da pulvino.blogspot.com (free advertising) |
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| Foto da lentepubblica.it |
sabato 2 settembre 2017
Il Sismabonus non è accessibile a tutti, ecco un esempio concreto
La legge di Stabilità 2017 ha previsto il bonus per la messa in sicurezza degli edifici, ma c’è chi può usufruirne e chi invece, più bisognoso, è escluso
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da cngeologi.it
Secondo i dati Istat relativi al 2015 in Italia vivono in uno stato di povertà assoluta 1 milione 582 mila famiglie, vale a dire 4,6 milioni di individui, il numero più alto dal 2005 ad oggi. Si tratta di disoccupati, precari, pensionati al minimo e lavoratori con nuclei famigliari numerosi che fanno fatica ad arrivare a fine mese. Nella maggior parte dei casi sono persone che vivono nel Sud dell’Italia, dove si registrano il maggior numero di costruzioni abusive. I costi che si devono sostenere per effettuare i lavori per la messa in sicurezza dell’abitazione di proprietà non sono una cosa da poco, almeno per alcune categorie di cittadini. La spesa oscilla tra i 300 ed i 700 euro al metro quadrato. Ed è evidente che gli edifici che hanno bisogno di questi lavori sono quelli più fatiscenti e/o costruiti nel secolo scorso. Chi è benestante di certo non vive in questi immobili. Le case da mettere a ‘posto’ sono soprattutto quelle della povera gente, che, probabilmente, ha ereditato la struttura o ha costruito in condizioni di necessità e che, per cultura o per furbizia, è stata 'poco attenta' al rispetto delle regole.

Foto da ancecatania.it
Per capire le difficoltà in cui si possono venire a trovare queste famiglie facciano un esempio concreto. Se ipotizziamo una spesa di 50mila euro la detrazione sarà di 35mila euro. Il credito si potrà detrarre dalle imposte con cinque rate annuali di pari importo. Nel nostro caso 7mila euro ciascuna. Chi vive con una pensione minima è un incapiente, cioè percepisce un reddito così basso che è esentato dal pagamento delle imposte dirette come l’Irpef per cui non potrà detrarre nulla. Per questi soggetti l’agevolazione non è fruibile a meno che essi non vivano in un condominio. In questi casi se l’assemblea dei proprietari decide di eseguire i lavori essi saranno obbligati a contribuire per la quota spettante indipendentemente dal fatto di disporre o meno delle risorse finanziare. Essi, tuttavia, potranno utilizzare la detrazione cedendola all’impresa che esegue i lavori. La procedura su come questo possa avvenire non è ancora chiara, sarà l’Agenzia delle entrate a dare le relative indicazioni.

Foto da avantionline.it
In tutte le ipotesi il nostro pensionato, ma potrebbe essere un disoccupato, un precario o un padre di famiglia con un reddito incapiente o medio basso, è comunque obbligato a far fronte al 30% o al 20% della spesa. Nel nostro esempio corrisponde a 15 mila euro, ma se il costruttore e l’ingegnere non sono disposti ad aspettare cinque anni per essere pagati dovrà affrontare l’intera spesa (50mila euro). Solo successivamente essa sarà restituita per il 70 o l’80% (35mila euro) dallo Stato come credito d’imposta, sempreché il contribuente disponga di un reddito adeguato. Nella nostra ipotesi il reddito annuo deve essere di almeno 36mila euro lordi, che corrispondono a circa 29mila euro netti l’anno. Secondo le ultime statistiche il reddito medio pro-capite nel Sud dell’Italia è di 17.984 euro, più basso di quello che abbiamo ipotizzato. Ora, se un padre di famiglia deve scegliere tra il garantire un’esistenza dignitosa ai suoi figli o investire le poche risorse di cui dispone per ristrutturare la propria casa, non c’è alcun dubbio su quale sarà la sua scelta. Insomma, il credito d’imposta per la messa in sicurezza degli edifici assomiglia molto al bonus degli 80 euro, c’è chi può usufruirne e chi invece, più bisognoso, è escluso. Ancora una volta quella che a prima vista può apparire come una buona legge in realtà realizza un’altra ingiustizia e, pertanto, finirà per allargare il divario economico tra le classi sociali benestanti e quelle più povere.
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| Foto da cngeologi.it |
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| Foto da ancecatania.it |
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| Foto da avantionline.it |
sabato 26 agosto 2017
Bonus fino all’85% della spesa sostenuta per l’adeguamento antisismico, ma finora sono in pochi ad averlo richiesto
Introdotto con la legge di stabilità 2017 il bonus è un importante strumento per mettere a norma gli edifici che si trovano nelle zone a rischio sismico, ecco come funziona e chi può usufruirne
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da professionisti.it
L’agevolazione riguarda gli immobili per uso abitativo e quelli utilizzati per lo svolgimento di attività agricole, professionali e commerciali che si trovano nelle zone a rischio sismico 1, 2 e 3 (la tabella è disponibile sul sito dell’Agenzia delle entrate). La valutazione compresa in una scala che va da A (meno rischi) a G (più rischi) deve essere fatta da ingegneri e/o architetti che successivamente indicheranno i lavori da effettuare per la riduzione del rischio. Per gli edifici privati la percentuale di detrazione è del 70%, ma sale all’80% se il rischio si riduce di due classi. Per gli interventi sugli immobili condominiali la detrazione sale rispettivamente all’80% e all’85%. Le agevolazioni saranno riconosciute fino al 31 dicembre 2021 ed il bonus potrà essere detratto dalle imposte in cinque rate annuali di pari importo e non in 10 come avviene per le ristrutturazioni. La spesa massima detraibile è di 96mila euro e comprende anche i costi sostenuti per classificazione e la verifica sismica degli immobili. Anche gli incapienti potranno usufruire del credito d’imposta, ma solo se la ristrutturazione riguarda un condominio. Le relative modalità saranno indicate dall’Agenzia delle entrate.
Fonte: Agenzia delle entrate
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| Foto da professionisti.it |
giovedì 24 agosto 2017
Con l’affaire Neymar i ‘Signori del calcio’ faranno un mucchio di soldi
I 600 milioni di euro pagati dal Psg per il calciatore Neymar non devono sorprendere perché rientrano nei meccanismi tipici del sistema capitalistico
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Neymar - (foto da lastampa.it)
In molti si sono meravigliati della cifra (600 milioni di euro, 222 vanno al Barcellona, il resto tra ingaggi annuali, bonus e commissioni al calciatore) spesa da Qatar Sports Investment per l’acquisto del campione brasiliano, ma non è certo una novità, anche in passato ci sono stati passaggi di calciatori da una squadra all’altra con cifre via via crescenti e ritenute sempre iperboliche. Nel 2001 il giovanissimo Gianluigi Buffon passò dal Parma calcio alla Juventus per 100 miliardi di lire, cioè 54,2 milioni di euro, mentre il club torinese cedette nella stessa stagione Zinédine Zidane al Real Madrid per 150 miliardi di lire, cioè 75,5 milioni di euro ed un anno fa Paul Pogba è passato al Manchester United per 110 milioni di euro. Non deve meravigliare neanche la proposta, trapelata in questi giorni, del Manchester City che sembra voglia spendere 300 milioni di euro solo per il cartellino di Lionel Messi. Questi trasferimenti milionari di calciatori sono sempre avvenuti perché le società ritengono così di accrescere le possibilità di vittoria e di conseguenza generare maggiori profitti.

Foto da forum.rojdirecta.es
I club ‘vincenti’ sono quasi sempre quelli che spendono di più. Di certo le società con maggiori disponibilità finanziarie hanno sempre acquistato i cartellini dei calciatori più bravi dalle squadre cosiddette di ‘provincia’. Insomma, anche nel calcio a dettare legge è il capitale. Chi è ricco o benestante dispone di risorse finanziarie che utilizza per generare altra ricchezza. L’accumulazione del capitale si realizza anche quando l’investimento è finanziato da soggetti terzi, come le banche. L’acquisto di Neymar, quindi, non è uno sfizio o una follia, ma un investimento fatto per generare profitti. Il calcio, oltre ad essere uno sport popolare, è una vera e propria industria ed oggi esso è diventato il simbolo del capitalismo moderno. Il problema è che l'accumulazione del capitale crea disuguaglianze ed ingiustizie. Quello che meraviglia non è solo il fatto che questo avvenga, è sempre stato così, ma l’indifferenza con cui si accettano le disparità e le iniquità che ne derivano. Si afferma cioè come giusto e legittimo il principio secondo cui esso sia frutto di capacità personali. Ora, ammesso e non concesso che sia così, chi erediterà milioni o miliardi di euro che meriti ha? La risposta è nessuno, ma nonostante questo acquisirà privilegi che rimarranno tali per 'sempre' o per diverse generazioni, diventeranno cioè ingiustizie e disuguaglianze difficili da estirpare.
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| Neymar - (foto da lastampa.it) |
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| Foto da forum.rojdirecta.es |
venerdì 18 agosto 2017
Cresce il Pil, ma il debito pubblico non scende e la disoccupazione è a livelli inaccettabili
Esprime soddisfazione il segretario del Pd, Matteo Renzi, ma la crescita economica e la riduzione del debito devono camminare di pari passo, altrimenti i sacrifici fatti sono inutili
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Mario Draghi - (foto da forexinfo.it)
Nel secondo trimestre del 2017 il Pil è cresciuto rispetto ai primi tre mesi dell’anno dello 0,4% e dell’1,5% rispetto allo stesso periodo del 2016. A comunicarlo è l’Istat nella stima preliminare del prodotto interno lordo. E’ il dato più alto degli ultimi sei anni. Nel primo trimestre del 2011 l’incremento fu del 2,1%.Il Pil italiano è stimato a 387.458 milioni, mentre nel 2008 era a 424,824 milioni, cioè è ancora inferiore del 6%. Senza considerare le differenze a livello territoriale, tutte le ultime statistiche evidenziano, infatti, un crescente divario tra Nord e Sud del paese. Su questi dati hanno espresso soddisfazione il presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, ed il segretario del Pd, Matteo Renzi.

Andamento % debito/Pil dal 1861 al 2015
(foto da umbrvei.blogspot.com)
I pochi che hanno avuto l’opportunità di studiare i concetti più elementari di economia politica (la materia è prevista solo nei programmi ministeriali degli istituti tecnici con l’indirizzo affari e marketing, cioè l’ex ragioneria) sanno cosa sono e come funzionano i cicli economici. Ad una fase di recessione segue sempre, dopo un certo periodo di tempo, la ripresa e lo sviluppo. Le ragioni possono essere diverse. Di certo influiscono le politiche economiche dei governi, ma, nel nostro caso, sembrano determinanti i fattori economici e finanziari di carattere internazionale.

Foto da businessonline.it
Sulla ‘ripresina’ italiana incide di sicuro l’immissione di moneta sul mercato finanziario operata da Mario Draghi con il Quantitative easing. Fino a quando la Banca centrale europea continuerà con l’acquisto del debito sovrano (60 miliardi di euro al mese) non avremo grossi problemi sul debito pubblico e soprattutto con i tassi sugli interessi così bassi continueremo a pagare i nostri creditori con esborsi ‘accettabili’. La cifra è, comunque, ‘monstre’, nel 2016 il debito ci è costato 66,5 miliardi di euro, con una riduzione di 17 miliardi rispetto al 2012. Nonostante ciò il debito pubblico ha raggiunto nel mese di giugno la cifra record di 2.281,40 miliardi di euro, cioè il 132,6% del Pil. La logica ed il buonsenso vorrebbero l’attuazione di politiche 'parsimoniose' sulla spesa pubblica ed una graduale riduzione del debito. Come fece, per intenderci, il governo di Centrosinistra tra il 1996 ed il 2001. Ma tutto questo non sta avvenendo. Il debito non scende e la crescita è minima, tra le più basse in Europa. Un segnale veramente positivo sarebbe quello di una sostanziale riduzione della disoccupazione, in particolare quella dei giovani che vivono nel Sud del paese, ma anche in questo caso siamo lontani da un risultato soddisfacente.
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| Mario Draghi - (foto da forexinfo.it) |
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| Andamento % debito/Pil dal 1861 al 2015 (foto da umbrvei.blogspot.com) |
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| Foto da businessonline.it |
martedì 11 luglio 2017
L’1% delle famiglie possiede il 45% della ricchezza globale
Il rapporto pubblicato dal Boston Consulting Group sulla ricchezza finanziaria conferma la crescita delle disuguaglianze e del divario economico tra le classi sociali
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Silvio Berlusconi e Flavio Briatore
(foto da notizie.virgilio.it)
Il numero di famiglie milionarie è cresciuto del 7%, a sostenerlo è la società di consulenza finanziaria BCG che ha pubblicato la 17esima edizione del report ‘Global Wealth 2017: Transforming the Client Experience’. Secondo il rapporto sono 18 milioni i nuclei familiari, cioè l’1% del totale, che posseggono il 45% della ricchezza globale. In Italia sono 307mila le famiglieche hanno investimenti in titoli di Stato, azioni, depositi e altri strumenti finanziari superiori ad un milione di dollari. L’1,2% delle famiglie possiede il 20,9% della ricchezza finanziaria, cioè 4.500 miliardi di dollari. Questa somma è destinata ad aumentare nei prossimi anni, nel 2021 il numero delle famiglie dovrebbe crescere fino a 433mila unità, con un percentuale che salirà all’1,6 e che possiederà una ricchezza del 23,9%, vale a dire quasi un quarto del totale.

Foto da fanpage.it
Insomma, cresce la concentrazione della ricchezza ed aumentano le disuguaglianze economiche e sociali.Nel mondo ci sono persone e famiglie che utilizzano per i loro bisogni solo una piccolissima parte della loro ricchezza ed altre che invece non posseggono nulla e che vivono con meno di un dollaro al giorno o addirittura muoiono di fame. Basterebbe impiegare il ‘superfluo’ della risorse finanziarie a disposizione dei super ricchi per consentire una vita dignitosa a miliardi di persone, invece si perpetuano le ingiustizie e le disuguaglianze.
In Italia sarebbe sufficiente un prelievo una tantum sui grandi patrimoni per risolvere i problemi di finanza pubblica che, negli ultimi anni, i vari governi di Centrosinistra si sono affannati a tenere sotto controllo, senza peraltro riuscirvi. Il debito pubblico continua a crescere ed oggi è di circa 2.200 miliardi di euro. Sarebbe sufficiente una piccola parte del ‘troppo’ che i nostri Peperoni posseggono per risanare il bilancio pubblico e consentire allo Stato politiche di investimenti che diano lavoro e dignità a chi oggi è disoccupato, precario o è un pensionato al minimo.
L’ingiustizia è anche nelle opportunità. Le possibilità di ascesa sociale non sono uguali per tutti, anzi oggi sono quasi del tutto inesistenti per i ceti meno abbienti. E’ assai probabile, infatti, che il figlio di un operaio diventi egli stesso un operaio o che il figlio di un disoccupato non riesca a trovare lavoro o diventi un precario, mentre il figlio di un magnate non si pone neanche il problema, l’unica sua preoccupazione è quella di spendere 'a piene mani' il patrimonio famigliare, ma per quanto possa sperperare sarà sempre una piccola parte del totale.
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| Silvio Berlusconi e Flavio Briatore (foto da notizie.virgilio.it) |
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| Foto da fanpage.it |
sabato 24 giugno 2017
Nel Mezzogiorno una persona su due è a rischio povertà
Negli ultimi otto anni il divario economico e sociale tra Nord e Sud Italia è aumentato, a sostenerlo è l’Ufficio studi della Cgia di Mestre
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da firstonline.it
L’analisi fatta dell’associazione degli artigiani e delle piccole imprese venete ha messo a confronto quattro indicatori: il Pil pro-capite, il tasso di occupazione, il tasso di disoccupazione e il rischio povertà o esclusione sociale.
La differenza di reddito pro-capite tra il Nord ed il Sud era, nel 2007, di 14.255 euro, nel 2015 il divario è aumentato a 14.905 euro, cioè è cresciuto di 650 euro. Nel Settentrione il reddito medio pro-capite è stato di 32.889 euro, al Sud di 17.984 euro. In Sicilia è diminuito del 2,3%, in Campania del 5,6% ed in Molise dell’11,2%.
Il divario del tasso di disoccupazione era, nel 2007, del 20,1%, nel 2016 è salito a 22,5% (+2,4%). Nella provincia autonoma di Bolzano la percentuale di occupati era del 72,7%, in Calabria è stata del 39,6%.
Il differenziale più evidente è quello relativo al tasso di disoccupazione.Nel 2007 era del 7,5%, nel 2016 è salito al 12% (+4,5%). I senza lavoro sono cresciuti del 9,2% in Sicilia e del 12% in Calabria.
Nel 2007 il rischio di povertà al Sud era del 42,7%, nel 2015 è aumentato al 46,4%. Un meridionale su due è in gravi difficoltà economiche. Anche al Nord è aumentato, dal 16 al 17,4%, ma il divario con il Meridione è cresciuto di due punti percentuali.

Foto da cgiamestre.com
“Il Mezzogiorno – dichiara il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia, Paolo Zabeo - ha delle potenzialità straordinarie ed è in grado di contribuire al rilancio dell’intera economia del Paese. Pensiamo solo al patrimonio culturale, alle bellezze paesaggistiche - naturali che contribuiscono a renderla una delle aree potenzialmente a più alta vocazione turistica d’Europa. Certo, bisogna tornare a investire per ammodernare questa parte del Paese che, purtroppo, presenta ancora oggi delle forti sacche di disagio sociale e di degrado ambientale che alimentano il potere e la presenza delle organizzazioni criminali di stampo mafioso’.
‘Il Sud si rilancia anche rendendo – sottolinea il Segretario della Cgia Renato Mason - più efficienti i servizi offerti dagli enti locali, in modo che siano sempre più centrali per il sostegno della crescita, perché migliorare i servizi vuol dire elevare il prodotto delle prestazioni pubbliche e quindi il contributo dell’attività amministrativa allo sviluppo del territorio in cui opera’.
L’analisi della Cgia è corretta, ma i suggerimenti indicati per superare il divario economico e sociale sono insufficienti. La condizione di sottosviluppo del Sud Italia è strutturale ed ha ragioni storiche precise, sottovalutarle con motivazione di carattere amministrativo o con il federalismo fiscale significa non affrontare il problema. I cittadini delle regioni meridionali hanno grandi responsabilità sul peggioramento delle condizioni economiche e sociali del Sud, ma maggiori sono quelle della classe dirigente nazionale. La ‘Questione meridionale’ non è stata risolta, anzi negli ultimi tre decenni si è aggravata perché è stata accantonata, ogni forma d’investimento pubblico al Sud è stato considerato dalle forze politiche e dalla classe dirigente uno spreco.
In queste settimane si parla dei contenuti su cui costruire un nuovo Centrosinistra. Lo studio pubblicato dalla Cgia è un ottimo punto di partenza ed è evidente che il tema della ‘Questione meridionale’ non può non stare al centro dell’analisi economica e sociale di una forza politica progressista. La prima battaglia che deve combattere un partito di Sinistra è la difesa dei diritti delle classi sociali più deboli e questi ancora oggi, nonostante siano passati oltre 150 anni dall’Unità d’Italia, sono soprattutto nel Sud del Paese.
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| Foto da firstonline.it |
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| Foto da cgiamestre.com |
giovedì 22 giugno 2017
Fuga di lavoratori all’estero, ma in gran parte sono laureati del Sud Italia
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| Foto da corriereUniv.it |
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| Logo Rapporto - (foto da consulentidellavoro.it) |
sabato 17 giugno 2017
I più ricchi esercitano a Milano
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| (foto da today.it) |
sabato 8 aprile 2017
L’insopportabile demagogia della Corte dei Conti sul cuneo fiscale
Ridurre il cuneo fiscale ed il debito pubblico, a sostenerlo è la magistrature contabile, ma non spiega come questo debba avvenire ed a spesa di chi
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da ansa.it
Nel Rapporto 2017 sulla finanza pubblica la Corte dei Conti afferma che il cuneo fiscale in Italia è ‘di ben 10 punti’ superiore a quello che si registra mediamente in Europa. Il 49% della busta paga viene trattenuto ‘a titolo di contributi e di imposte’. I magistrati della Corte denunciano l’esigenza di ridurre la pressione fiscale in quanto ‘un’esposizione tributaria tanto marcata non aiuta il contrasto all’economia sommersa e alla lotta all’evasione’.
‘L’andamento dell’economia italiana – sottolinea la Corte – sembra aver segnato un’inversione di marcia verso un’espansione meno fragile e più qualitativa’. Nello stesso tempo si ribadisce che il risanamento finanziario è, per il nostro Paese, ‘più faticoso anche se necessario considerato il maggior livello del debito. Occorre quindi – secondo il Rapporto – porre il debito su un sentiero discendente, non troppo ripido ma costante, procedendo speditamente alle azioni di riforme strutturali per sostenere la crescita e migliorare, anche sotto questo profilo, le condizioni di sostenibilità della finanza pubblica’.

L'incipit de 'Il Gattopardo'
(foto da wikipedia.org)
Sono decenni che si discute del cuneo fiscale e della necessità di ridurlo, ma si evita di dire con quali risorse finanziarie questo debba avvenire. La Corte dei Conti sottolinea anche la necessità di ridurre il debito pubblico, ma non dice come, perché? Le misure da prendere sarebbero impopolari e di conseguenza nessuno ne parla, nessuno ne indica i relativi provvedimenti. Per diminuire il cuneo fiscale ed il debito pubblico occorre ridistribuire la ricchezza oppure tagliare la spesa pubblica, vale a dire meno pensioni, meno scuola pubblica, meno assistenza sanitaria, meno sprechi e regalie a cominciare dai privilegi e dagli stipendi d’oro degli stessi magistrati della Corte dei Conti.
Quello che si legge nel Rapporto è, quindi, l’ennesima enunciazione demagogica di chi afferma cosa è opportuno fare, ma non spiega i sacrifici che sono necessari per realizzare quell’obiettivo. Allora è meglio non dirlo oppure far finta di ‘cambiare tutto per non cambiare niente’ come scriveva nel 1958 Giuseppe Tomasi di Lampedusa ne ‘Il Gattopardo’.
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| Foto da ansa.it |
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| L'incipit de 'Il Gattopardo' (foto da wikipedia.org) |
venerdì 6 gennaio 2017
Vibo Valentia, tasso di occupazione al 35,8%, mentre a Bolzano è al 71,4%
Il Report pubblicato dalla Fondazione dei consulenti del lavoro conferma l’enorme divario economico che c’è tra il Nord e il Sud Italia
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da zoom24.it
Bolzano è la provincia italiana con il tasso di occupazione più alto (71,4%), mentre Vibo Valentia è quella con la percentuale più bassa (35,8%). A sostenerlo è il Report pubblicato dalla Fondazione studi dei consulenti del lavoro che ha elaborato i dati Istat sul 2015. Crotone registra il più alto tasso di disoccupazione in generale (32,2%), quasi il triplo della media nazionale, mentre è Cosenza la città con il più alto tasso di disoccupazione giovanile femminile (84,4%). Nelle grandi città – sottolineano i consulenti – il tasso di occupazione degli stranieri (66,6%) è in media, nei 13 grandi comuni considerati, superiore di 9 punti rispetto a quello degli italiani (57,4%). Il divario più alto è a Napoli, dove si registra un tasso di occupazione degli stranieri del 58,3%, di ventiquattro punti superiore a quello degli italiani nel comune (34,8%). I dati sugli immigrati non devono meravigliare. Gli stranieri per rimanere legalmente in Italia devono avere un lavoro formalmente regolare ed è per questo che sono disposti a svolgere qualunque mansione pur di avere un contratto di lavoro. Inoltre, il Report è un’ulteriore conferma dell’enorme distanza economica che c’è tra le diverse aree del Paese. Un Sud sempre più in difficoltà, mentre al Settentrione si vive, nonostante la stagnazione, nel benessere. Ma questo divario non è certo una novità.
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| Foto da zoom24.it |
venerdì 30 dicembre 2016
6,5 milioni d’italiani ‘sognano’ un lavoro, ma intanto Almaviva licenzia 1.666 dipendenti
Mentre milioni di lavoratori vorrebbero un posto di lavoro, i dipendenti di Almaviva della sede di Roma riceveranno, nei prossimi giorni, le lettere di licenziamento
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da tg24.sky.it
‘Sommando ai disoccupati le forze di lavoro potenziali, ammontano a 6,5 milioni le persone che vorrebbero lavorare’. Questo è quanto sostiene l’Istat nell’Annuario 2016 che riporta i dati sul mercato del lavoro nel 2015. La forza lavoro disponibile è, quindi, molto più numerosa dei disoccupati iscritti nelle liste di collocamento e comprende tutti coloro che ‘sognano’ un'occupazione ma vi rinunciano perché sanno che non riusciranno ad ottenerla.

Foto da tgcom24.mediaset.it
E’ di ieri la notizia che conferma la chiusura del call center Almaviva Contact di Roma. L’ultimo tentativo di riapertura della trattativa presso il Ministero dello Sviluppo Economico è fallito. 1.666 dipendenti riceveranno, nei prossimi giorni, le lettere di licenziamento. L’accordo siglato dai lavoratori della sede di Napoli è stato rifiutato da quelli di Roma. I dipendenti campani di Almaviva hanno ottenuto altri tre mesi di cassa integrazione, tempo utile, si spera almeno, per raggiungere un accordo che ha come primo obiettivo quello di evitare altri licenziamenti.
Resta il fatto che le aziende italiane, nonostante le agevolazioni fiscali garantite negli ultimi due decenni dal Governo, continuano a delocalizzare ed il caso di Almaviva è solo l’ultimo di una lunga serie. Milioni di lavoratori attendono con ansia il 2017 ed altri 1.666 si aggiungeranno ai tanti che un lavoro lo ‘sognano’. Fino a quando prevarrà il principio del profitto su quello del lavoro e non si adotteranno politiche economiche di redistribuzione della ricchezza, sarà impossibile superare il dramma della disoccupazione. Questa regola purtroppo non è una novità del 2016, ecco cosa scrisse, a proposito dei senza lavoro, John Lennon nel 1969: ‘Il lavoro è vita e senza quello esiste solo paura e insicurezza’.
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
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| Foto da tg24.sky.it |
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| Foto da tgcom24.mediaset.it |
martedì 6 dicembre 2016
Istat: nel 2015 sono aumentate la povertà e la distanza reddituale tra ricchi e poveri
Le stime pubblicate dall’Istat sulla povertà nel 2015 ed i livelli di reddito delle famiglie italiane nel 2014, evidenziano il crescente divario tra ricchi e poveri e tra Nord e Sud del Paese
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da dazabeonews.it
Secondo le stime dell’Istatgli italiani che sono a rischio di povertà (19,9%), grave deprivazione materiale (11,5%) o bassa intensità di lavoro (11,7%) sono il 28,7%. Il dato è sostanzialmente stabile rispetto al 2014 (28,3%), anche se è aumentato il rischio povertà, passato dal 19,4% al 19,9%. A livello territoriale la situazione più grave è nel Mezzogiorno. Le persone coinvolte nel Sud sono salite dal 45,6% al 46,4%. La quota è in aumento anche al Centro (dal 22,1% al 24%), mentre al Nord si registra un calo sia pure minimo (dal 17,9% al 17,4%).

da avantionline.it
Le persone più a rischio (43,7%) sono nelle famiglie con cinque o più componenti. Nel 2014 il reddito medio annuo per nucleo famigliare è rimasto sostanzialmente stabile rispetto al 2013 (29.472 euro ossia 2.546 euro mensili). Metà delle famiglie ha percepito un reddito netto non superiore a 24.190 euro (2.016 euro mensili), la media scende a 20.000 euro (circa 1.667 euro mensili) al Sud. Secondo le stime dell’Istat il 20% delle famiglie ha percepito il 37,3% del reddito totale, mentre il 20% più povero solo il 7,7%. Inoltre dal 2009 al 2014 il reddito in termini reali è calato di più per le famiglie meno abbienti, ampliando così la distanza tra le famiglie più ricche, il cui reddito è passato dal 4,6 a 4,9 volte quello delle più povere.
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| Foto da dazabeonews.it |
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| da avantionline.it |
lunedì 17 ottobre 2016
In Italia 4,6 milioni di poveri, al Sud gli italiani indigenti superano gli stranieri
Nel Mezzogiorno gli italiani che, nel 2015, si sono rivolti ai centri di ascolto della Caritas sono stati il 66,6 %, il doppio degli stranieri. Si è invertito anche il vecchio modello di povertà, oggi i più indigenti non sono gli anziani ma i giovani
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da tuttosu.virgilio.it
Le persone costrette a lasciare le proprie case a cause di guerre, conflitti e persecuzioni sono state, nel 2015, oltre 65 milioni. In Europa il numero di profughi giunti via mare è stato quattro volte superiore a quello dell’anno precedente. I migranti sbarcati nelle nostre coste lo scorso anno sono stati 153.842. Le persone che hanno fatto domanda di asilo sono state 83.970. Di fronte a questa situazione la politica europea risulta ‘frammentata’ ed ‘inadeguata’. A sostenerlo è la Caritas nel suo ‘Rapporto 2016 su povertà ed esclusione sociale in Italia e alle porte dell’Europa’.

Foto da caritas.it
Secondo i dati Istat in Italia vivono in uno stato di povertà assoluta 1 milione 582 mila famiglie, vale a dire 4,6 milioni di individui, il numero più alto dal 2005 ad oggi. La condizione di povertà assoluta è quella di chi non riesce ad accedere ai beni e servizi necessari per una vita dignitosa. In questa situazione si trovano soprattutto le famiglie che vivono nel Mezzogiorno e quelle con due o più figli minori o nuclei familiari stranieri e quelli in cui il capofamiglia è in cerca di un’occupazione. Inoltre, oggi la povertà assoluta è inversamente proporzionale all’età, aumenta cioè al diminuire di quest’ultima. Penalizza soprattutto i giovani in cerca di prima occupazione. Il Rapporto cita anche i dati raccolti presso i Centri di Ascolto della Caritas o collegate con esse. Il peso degli stranieri continua ad essere maggioritario (57,2%), ma nel Mezzogiorno la percentuale di italiani è stata, nel 2015, del 66,6%. Al Nord la media delle persone ascoltate è stata del 34,8%, al Centro del 36,2%. L’indagine della Caritas si conclude con una serie di proposte. Tra queste un piano pluriennale di contrasto alla povertà e di politiche tese a contrastare la disoccupazione, soprattutto giovanile, ed ancora, l'attivazione di politiche inclusive e di accoglienza dei migranti e l'apertura di canali legali di ingresso nell’UE.
‘La cifra totale di 4,6 milioni di poveri, più che raddoppiata rispetto all’inizio della crisi, 8 anni fa, non è compatibile con i doveri di un Paese tra i più sviluppati al mondo’. Così la presidente della Camera Laura Boldrini, nel messaggio per la Giornata contro la povertà. ‘La povertà è come una macchia scura che si allarga nella società italiana e resta ancora senza risposta la diffusa domanda di un reddito di dignità’, malgrado varie proposte di legge. ‘Mi auguro – conclude Laura Boldrini - che Governo e Parlamento trovino la strada’.
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
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| Foto da tuttosu.virgilio.it |
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| Foto da caritas.it |
venerdì 14 ottobre 2016
Non ci può essere crescita economica senza ridurre le disuguaglianze
Eugenio Scalfari in un editoriale su repubblica.it sostiene la necessità della ‘patrimoniale’ perché essa ‘attenua le diseguaglianze ed incita occupazione e consumi’
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Eugenio Scalfari - (Foto da huffintonpost.it)
La crescita economica è determinata dall’incremento dei consumi e degli investimenti. I primi crescono aumentando le retribuzioni più basse o creando nuovi posti di lavoro. Questi ultimi dipendono dagli investimenti sia pubblici che privati. Lo Stato e gli enti locali possono farlo solo incrementando le entrate tributarie oppure il debito pubblico. Ovviamente il presupposto indispensabile per attuare politiche di ‘deficit spending’ è un debito sovrano sostenibile, eccessivi ed ulteriori disavanzi del bilancio sarebbero pericolosi e potrebbero provocare il default com’è avvenuto in Grecia, in Argentina, ecc..

Foto da wallstreetitalia.com
Dal 2011 in Italia l’unica alternativa ‘pubblica’ praticabile per favorire la crescita economica è la redistribuzione della ricchezza.L’ipotesi, non nuova, è stata formulata da Eugenio Scalfari in un suo editoriale su repubblica.it. Il ragionamento del giornalista romano è semplice ed è il seguente: sulle buste paga dei lavoratori gravano contributi previdenziali per il 9,19% e sui datori di lavoro per il 23,81%. L’ammontare totale del cosiddetto cuneo fiscale è di circa 300 miliardi di euro l’anno. Secondo Scalfari occorre ridurre questo prelievo di almeno il 30%, vale a dire di circa 80 miliardi che lo Stato dovrebbe fiscalizzare sui redditi superiori a 120 mila euro annui. Una sorta di patrimoniale che ‘attenua le diseguaglianze e incita occupazioni e consumi’.

Vignetta da documentazione.info
Poichè lo Stato italiano è obbligato a limitare la spesa pubblica (sia perché non può incrementare il suo debito sovrano, sia perché le sue politiche economiche spesso sono inefficienti o di natura assistenziale) non resta che incentivare gli investimenti dei privati. Con la globalizzazione molte imprese hanno delocalizzato all’estero, hanno cioè trasferito la produzione nei Paesi dove la pressione fiscale è minore e il costo del lavoro è più conveniente. Secondo Scalfari per indurre le aziende private ad investire, creare lavoro ed incrementare i consumi è indispensabile ridurre le tasse sul lavoro.L’argomentazione è logica, ma resta un dubbio: basterà la riduzione del cuneo fiscale per indurre le imprese italiane e straniere ad incrementare gli investimenti nel nostro Paese?
Inoltre, in questo ragionamento non c’è nessun riferimento alla Questione meridionale. La disoccupazione ed il sottosviluppo non sono in tutto il Paese, ma solo nelle regioni del Sud. Tornare ad investire nel Meridione non sarebbe proprio una cattiva idea. E’ solo una questione di scelte politiche e pertanto, se si vuole una ‘vera’ crescita Pil, è necessario che l’annosa questione delle disuguaglianze economiche tra le diverse aree del Paese torni al centro del dibattito politico.
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| Eugenio Scalfari - (Foto da huffintonpost.it) |
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| Foto da wallstreetitalia.com |
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| Vignetta da documentazione.info |
giovedì 6 ottobre 2016
Pil: il Sud cresce la metà del Nord
Nel 2016 il Pil crescerà dell’0,8%, ma continuerà ad aumentare il divario economico tra le regioni del Mezzogiorno e quelle Settentrionali
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da economia.rai.it
Quest’anno il Pil crescerà dello 0,8%, a dirlo è l’ultimo rapporto del Fondo Monetario. Siamo negli ultimi posti della classifica tra i paesi industrializzati e sotto la media Ue (+1,7%). Tuttavia, al netto della spesa delle famiglie e della Pubblica amministrazione, l’Italia, a sorpresa, va meglio della stessa Germania. A livello territoriale la situazione è più complessa. Il Mezzogiorno cresce la metà del Nord. In alto nella classifica c’è l’Emilia Romagna (+1,1%), seguita dalla Lombardia (+1%), mentre la Calabria e la Sardegna fanno registrare un +0,3%.
La crescita è a macchia di leopardo e riguarda soprattutto i distretti industriali. Tra i settori che nel secondo trimestre del 2016 hanno fatto registrare il maggior incremento ci sono le ceramiche in Emilia, la termomeccanica a Padova e Verona, ma anche qualche realtà del Sud come le conserve in Campania e l’elettromeccanica nel barese. In taluni casi l’andamento è migliore di quello della Germania. Eppure il Pil italiano non cresce come quello tedesco, perché? La differenza è determinata dai consumi delle famiglie e della Pa che nel nostro Paese è calata, dalla fine del 2014, dello 0,5%, mentre in Germania è cresciuta del 5,4%. Negli ultimi tre anni l'incremento del Pil italiano è stato, al netto della Pa, dell’1,3%, vale a dire uno 0,1% in meno rispetto a quello tedesco.
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| Foto da economia.rai.it |
domenica 2 ottobre 2016
Assegno di ricollocazione fino a 5000 euro, a novembre parte la sperimentazione
Il progetto riguarderà quasi 20 mila disoccupati che saranno estratti a sorte tra coloro che avranno percepito la Naspi da almeno 4 mesi
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Vignetta da jobyourlife.com
Il progetto riguarderà tutti i senza lavoro e rappresenterà la prima esperienza di politiche attive nel mercato del lavoro in Italia. Lo Stato non si limiterà a garantire l’assegno di disoccupazione per un certo numero di mesi (Naspi), ma fornirà ai disoccupati anche strumenti utili a ritrovare il lavoro. L’ammontare dell’assegno dipenderà da quanto sarà ‘difficile’ ricollocare il lavoratore. La cifra minima sarà di mille euro, ma potrà salire fino a 5000 euro per coloro che avranno minori possibilità di reinserimento. L’importo dipenderà dal tipo di qualifica del lavoratore (esempio operaio o ingegnere), dalla sua residenza (Sud o Nord), ecc. L’indennità consisterà in un buono da spendere per ottenere uno o più servizi.

Foto da ilpotafoglio.info
Il disoccupato potrà rivolgersi ad un centro per l’impiego o ad un’agenzia privata. L’ente pubblico o privato assegnerà a ciascun lavoratore un tutor che, dopo aver individuato la sua qualifica professionale e le sue competenze, lo guiderà nella compilazione del curriculum e nel fissare colloqui di lavoro.
Nella fase di sperimentazione l’assegno spetterà a circa 20 mila disoccupati che avranno percepito la Naspi da almeno 4 mesi. L’obiettivo sarà quello di testare il modello e di apportarvi se necessario eventuali modifiche. Essa sarà preceduta dall’introduzione del nuovo portale dell’Anpal (Agenzia per le politiche attive del lavoro) che sostituirà l’attuale ‘clicca lavoro’. Quest’ultima fase dovrebbe essere attivata nel mese di novembre.
I lavoratori prescelti dovranno accedere in un’area riservata del sito ed iscriversi. Così potranno vedere a quanto ammonterà l’assegno e decidere come e dove spenderlo. Tuttavia, nessuno sarà obbligato a rispondere ed incassare l’indennità ma, in tal caso, si perderà la possibilità di ottenere un lavoro e si vedrà decurtata la Naspi.
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| Vignetta da jobyourlife.com |
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| Foto da ilpotafoglio.info |
lunedì 19 settembre 2016
Inps: nei primi sette mesi del 2016 calano le assunzioni stabili
I dati sui nuovi rapporti di lavoro nel settore privato pubblicati dall’osservatorio sul precariato dell’Inps evidenziano una diminuzione del 9,1% dei nuovi contratti a tempo indeterminato
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da rainews.it
Le assunzioni nel periodo gennaio-luglio 2016 sono state 3.428.000, con una riduzione rispetto allo stesso periodo del 2015 di 383.000 unità (-10%). La diminuzione più consistente riguarda i contratti stabili (-9,1%), mentre quelli a tempo determinato si sono ridotti del 6,9%. Il ricorso ai voucher (buoni per il lavoro accessorio dal valore nominale di 10 euro) è aumentato del 36,2% rispetto al +73% di un anno prima.
La differenza tra assunzioni e cessazioni del periodo (+805.000) rimane positiva rispetto al 2014 (+703.000), ma è inferiore rispetto al 2015 (+938.000). Su base annua il saldo complessivo a luglio 2016 è positivo ed è pari a +488.000, per quelli a tempo indeterminato è pari a +541.000.

Foto da economia.ilmessaggero.it
Nei primi sette mesi del 2016 sono stati stipulati 972.946 contratti a tempo indeterminato (comprese le trasformazioni di contratti a termine e di apprendistato) a fronte di 896.622 cessazioni di contratti stabili, con un saldo positivo per 76.324 unità. Il dato è peggiore dell'83,5% rispetto a quello dello stesso periodo del 2015, ma anche del dato riferito al 2014 quando non c'erano sgravi ed il saldo sui rapporti a tempo indeterminato era positivo per 129.163 unità.
Il calo, secondo l’Istituto previdenziale, è dovuto ‘al forte incremento delle assunzioni a tempo indeterminato registrato nel 2015, anno in cui potevano beneficiare dell'abbattimento integrale dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro per un periodo di tre anni. Analoghe considerazioni possono essere sviluppate per la contrazione del flusso di trasformazioni a tempo indeterminato (-36,2%)'.
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| Foto da rainews.it |
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| Foto da economia.ilmessaggero.it |
lunedì 15 agosto 2016
Un dipendente deve lavorare 1.227 anni per eguagliare i compensi annuali del top manager
Negli ultimi due decenni la differenza tra le indennità percepite dai dirigenti rispetto a quella dei loro dipendenti è aumentata a dismisura
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto da corriere.it
Secondo l’annuario di R&S Mediobanca nel 2015 i top manager di cinquanta aziende pubbliche e private italiane hanno percepito compensi per 256,80 milioni. Mediamente un dipendente deve lavorare trentuno anni per eguagliare i compensi del proprio consigliere delegato che diventano quarantatre se si fa riferimento al direttore generale. Ma ci sono casi in cui le differenze sono ancora più grandi. Oltre al record di 1.227 anni, nella lista ci sono casi pari 582 anni, a cui seguono 525, 234, 232, 165, 111 anni e cosi via. Queste indennità, oltre all’aspetto etico che ormai non è più preso in considerazione, non sono giustificate neanche dai risultati aziendali. I ricavi, infatti, sono diminuiti del 16,1% nelle imprese del settore pubblico, invece sono aumentati in quelle del settore privato, ma solo grazie al balzo del fatturato prodotto all’estero (+11,1%).

Foto da valoreazione.com
Anche i livelli occupazionali sono diminuiti (-14,8%) per le aziende pubbliche prese in considerazione dal Rapporto, le imprese private al contrario hanno aumentato gli occupati (+12%), ma solo fuori dai nostri confini. E’ cresciuta la redditività industriale, nel pubblico è stata al 6,8%, nel privato è stata quasi doppia, al 12,8%. Lo Stato ha incassato, nel 2015, 12,8 miliardi di dividendi, mentre nel privato sono stati 6,8 miliardi. Il record è stato dell’Eni con 5,6 miliardi, seguita dall’Enel (2,3), dalle Poste (1,6) e da Snam (1,3), mentre nel privato hanno realizzato dividendi per 1,2 miliardi Luxottica e Prada per 1,0 miliardo di euro.
Crescono gli utili ed aumenta a dismisura la distanza tra i compensi dei manager e quelle dei loro dipendenti. Sono gli effetti della globalizzazione e della mancanza di regole nel sistema economico e finanziario che limitino le ingiustizie ed i privilegi. Sette anni di recessione hanno, così, accentuato le disuguaglianze, ma per chi ci ha le leve del potere economico va bene così.
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| Foto da corriere.it |
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| Foto da valoreazione.com |
martedì 26 luglio 2016
Rai: stipendi d’oro per non fare nulla
Sono novantaquattro i super manager e giornalisti che prendono ciascuno oltre 240 mila euro l’anno, tra loro sono diversi coloro che non svolgono alcun incarico
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Fabrizio Maffei, Carmen Lasorella e Francesco Pionati
Foto da liberoquotidiano.it
Il Governo obbliga i cittadini al pagamento del canonenella bolletta della luce elettrica, mentre la Rai eroga stipendi d’oro a decine di dirigenti e giornalisti, in alcuni casi l'indennità è corrisposta per non fare nulla.Novantaquattro persone su tredicimila dipendenti, cioè lo 0,7%, superano il tetto imposto ai manager pubblici di 240 mila euro, il costo totale per l’azienda pubblica è di 21.984.483,657 euro l’anno. Tra questi, 12 dirigenti e 6 giornalisti percepiscono, da ‘mamma rai’ uno stipendio di oltre 300 mila euro l’anno.

Il direttore generale della Rai Antonio Campo Dall'Orto
Foto da ilpost.it
Tra i super ‘paperoni’ stipendiati a tempo interminato ci sono quelli che attualmente sono senza un incarico preciso come gli ex direttori generali Lorenza Lei (243 mila), Alfredo Meocci (240 mila), l’ex direttore di rai Tre Andrea Vianello (320 mila) e di Nuovi Media Pietro Gaffuri (242 mila), l’ex responsabile delle risorse umane Valerio Fiorespino (303.678 euro), il condirettore di Rai International Sandro Testi (231.119 euro) l’ex direttore del Tg2 Mauro Mazza (340 mila). Ed ancora, i giornalisti Anna La Rosa (240 mila), Fabrizio Maffei (240 mila), Carmen Lasorella (204 mila) e Francesco Pionati (203 mila).

Anna La Rosa - Foto da tvblog.it
A proposito del tetto dei 240 mila euro applicato ai manager pubblici, l’ex conduttrice di ‘Telecamere’, Anna La Rosa, in un’intervista rilasciata a Repubblica.it ha dichiarato: ’Il tetto per gli stipendi di Rai? A me è stato applicato ed è ancora in vigore. E visto che la Rai si è adeguata in ritardo alle nuove norme, sto restituendo quello che ho guadagnato in più per circa un anno. Ogni mese restituisco 1000 euro netti, più di 20mila euro lordi l'anno, ne avrò ancora per un anno. E per fortuna che superavo di poco i 240mila’.
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| Fabrizio Maffei, Carmen Lasorella e Francesco Pionati Foto da liberoquotidiano.it |
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| Il direttore generale della Rai Antonio Campo Dall'Orto Foto da ilpost.it |
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| Anna La Rosa - Foto da tvblog.it |
lunedì 27 giugno 2016
Istat: ‘Il Pil del Sud Italia torna a crescere dopo 7 anni di cali consecutivi’
Nelle regioni meridionali, dopo sette anni di recessione, tornano ad aumentare il Prodotto interno lordo e l’occupazione
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
L’Istat ha comunicato la stima preliminare del Pil e dell’occupazione nel 2015. La crescita è stata in linea con quella nazionale (+0,8%) nel Nord-est, più modesta nel Centro (+0,2%), e superiore alla media (+1,0%) nel Nord-ovest e nel Mezzogiorno.
Nelle regioni del Nord le performance migliori si registrano nell’industria, mentre nel Centro (+5,6%) e nel Mezzogiorno (+7,3%) nell’agricoltura. Il recupero del Pil nel Sud interrompe sette anni di cali ininterrotti.
L’occupazione è cresciuta, nel 2015, dello 0,6%. A livello territoriale, l’incremento maggiore, si registra nel Mezzogiorno (+1,5%), mentre aumenta dello 0,5% nel Nord-ovest e nel Centro, cala dello 0,5% nel Nord-est. La nuova occupazione è trainata dall’incremento nei settori dall’agricoltura, del commercio, dei trasporti, delle telecomunicazioni e nelle costruzioni.
L’Istat ha comunicato la stima preliminare del Pil e dell’occupazione nel 2015. La crescita è stata in linea con quella nazionale (+0,8%) nel Nord-est, più modesta nel Centro (+0,2%), e superiore alla media (+1,0%) nel Nord-ovest e nel Mezzogiorno.L’occupazione è cresciuta, nel 2015, dello 0,6%. A livello territoriale, l’incremento maggiore, si registra nel Mezzogiorno (+1,5%), mentre aumenta dello 0,5% nel Nord-ovest e nel Centro, cala dello 0,5% nel Nord-est. La nuova occupazione è trainata dall’incremento nei settori dall’agricoltura, del commercio, dei trasporti, delle telecomunicazioni e nelle costruzioni.
domenica 12 giugno 2016
‘Tax day’ per 25 milioni di italiani, ma ad essere penalizzati sono soprattutto i disoccupati, i pensionati al minimo ed i piccoli imprenditori
Entro il 16 giugno gli italiani saranno obbligati a versare gli acconti o i saldi sulla Tasi, sull’Imu, sull’Irpef, e, se si tratta di imprese o liberi professionisti, di diversi altri tributi
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Foto havingfunsaving.com
Secondo i calcoli fatti dalla Uil, a pagare l’acconto dell’Imu e della Tasi per gli immobili sulla seconda casa saranno quasi 25 milioni di italiani. In totale nelle casse dello Stato e degli Enti locali entreranno, per queste due imposte, circa 10,1 miliardi di euro per l’acconto ed altrettanti per il saldo di dicembre, in totale saranno circa 20,2 miliardi di euro.
L’esborso medio totale sarà di 1.070 euro, che nelle grandi città raggiungerà i duemila euro. Sulle prime case di lusso peserà mediamente per 2.610 euro, ma in alcuni casi raggiungerà i seimila euro. La città con l'aliquota più alta è Roma, dove in media saranno versati 2.064 euro, mentre il valore più contenuto è ad Asti con 580 euro medi.
Con l’abolizione della Tasi sulla prima casa il risparmio maggiore sarà per i cittadini di Torino, dove si registrerà un calo medio di 403 euro a famiglia, mentre ad Asti il risparmio sarà, mediamente, di 19 euro.

Foto Agenzia delle Entrate
Ad essere penalizzati con i tributi patrimoniali sono le categorie sociali più deboli come pensionati al minimo, disoccupati e titolari di piccole imprese artigiane. Le imposte sulla casa che gli italiani sono chiamati a versare nei prossimi giorni sono necessarie per ‘risanare’ le disastrate casse dello Stato e degli Enti locali, ma sono inique perché esse non tengono conto del reddito del proprietario e non considerano l’uso o meno dell’immobile oggetto del tributo. Un libero professionista, un’impresa artigiana o una piccola attività imprenditoriale utilizza l’immobile per svolgere la propria professione o produzione, ma le aliquote previste dall’Imu e dalla Tasi per lo studio o il laboratorio sono uguali a quelle delle seconde case.
Inoltre, non tengono conto dell’uso o meno dell’immobile. In un piccolo Comune del profondo Sud il proprietario di una seconda casa spesso non riesce a sfruttarla economicamente, non riesce cioè ad affittare o vendere l’immobile che ha disposizione, ma, nello stesso tempo, è obbligato a pagare i due tributi come se fossero case di villeggiatura. Invece, spesso, si tratta d’immobili costruiti con enormi sacrifici per i figli che magari nel frattempo sono stati costretti ad emigrare.
L’articolo 53 della Costituzione sancisce il principio della capacità contributiva, ma con i tributi patrimoniale esso non si realizza, anzi accresce le disuguaglianze e le ingiustizie. Alcune correzioni normative devono essere fatte, intanto, però, gli italiani sono chiamati a pagare tutti, sia che essi siano economicamente benestanti, disoccupati o precari.
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| Foto havingfunsaving.com |
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| Foto Agenzia delle Entrate |
martedì 31 maggio 2016
Ignazio Visco: ‘Per sostenere la ripresa sono necessari gli investimenti pubblici ed il taglio del cuneo fiscale’
Più investimenti pubblici, taglio delle tasse sul lavoro, lotta all’evasione fiscale e riforma della P.A. sono, secondo il Governatore della Banca d’Italia, le priorità per consolidare la ripresa economica
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Ignazio Visco
‘La ripresa è ancora da consolidare. Le previsioni di consenso indicano per l'Italia il ritorno ai livelli di reddito precedenti la crisi in un tempo non breve, sono deludenti le valutazioni sul potenziale di crescita della nostra economia. Si deve, e si può, fare di più’.Questo è quanto ha detto il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nelle considerazioni finali sulle condizioni dell’economia.
‘Nel 2016, uno stretto controllo dei conti pubblici e la realizzazione del programma di privatizzazioni possono consentire di avvicinare il più possibile il rapporto tra debito e prodotto a quanto programmato e garantirne una riduzione significativa nel 2017".
‘Benessere e sicurezza sono beni primari: il tentativo di garantirli dando alle sfide globali risposte frammentate, di tenere le minacce fuori dall'uscio di casa tornando a erigere barriere nazionali ha però ben poche probabilità di riuscita, causa danni certi e ingenti’. Il Governatore auspica inoltre un ‘salto di qualità’ in Ue e cita Altiero Spinelli che voleva un'unione ‘che spezzi decisamente le autarchie economiche’.
La domanda di lavoro è tornata a crescere a un ritmo superiore alle attese di un anno fa ed il tasso di disoccupazione dei giovani è sceso per la prima volta dal 2007 di oltre due punti percentuali, ma ‘la disoccupazione resta però troppo alta’.
‘Per una ripresa più rapida e duratura è necessario il rilancio degli investimenti pubblici’ ed è importante anche ‘un'ulteriore riduzione del cuneo fiscale gravante sul lavoro’. Ed ancora: "è possibile programmare l'attuazione di questi interventi su un orizzonte temporale più ampio’.
‘La legalità è condizione cruciale per lo sviluppo. L'azione di contrasto dell'evasione fiscale, della corruzione e della criminalità organizzata può permettere di sostenere l'attività delle tante imprese competitive’. Per il Governatore le priorità di riforma sono: rimozione illegalità, ridare efficienza a Pubblica amministrazione, giustizia civile, investimenti nell’innovazione e nella ricerca del capitale umano.
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| Ignazio Visco |
‘Benessere e sicurezza sono beni primari: il tentativo di garantirli dando alle sfide globali risposte frammentate, di tenere le minacce fuori dall'uscio di casa tornando a erigere barriere nazionali ha però ben poche probabilità di riuscita, causa danni certi e ingenti’. Il Governatore auspica inoltre un ‘salto di qualità’ in Ue e cita Altiero Spinelli che voleva un'unione ‘che spezzi decisamente le autarchie economiche’.sabato 2 aprile 2016
La PA del Sud Italia è tra le più inefficienti d’Europa
L’indagine condotta dall’UE sulla qualità della Pubblica Amministrazione ed esaminata dall’Ufficio Studi della Cgia di Mestre ha delineato una classifica impietosa per le regioni del Sud Italia
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Lo studio dell'UE sulla qualità della PA nel vecchio continente ha preso in considerazione diversi servizi pubblici come la formazione, la sanità, la sicurezza, la giustizia ed il modo in cui essi sono stati assegnati e gli eventuali fenomeni di corruzione.
Rispetto ai 206 territori presi in considerazione la Campania si trova al 202° posto, mentre le altre regioni meridionali compaiono 7 volte tra le peggiori trenta della classifica.Al primo posto in Europa c’è, con un indicatore di +2.781, la regione finlandese di Åland, mentre all’ultimo c’è, con -2.658 punti, Bati Anadolu, regione che si trova in Turchia.
In Italia i servizi pubblici migliori sono quelli erogati nelle due province autonome del Trentino Alto Adige e nelle due regioni a statuto speciale del Nord e cioè la Valle d’Aosta ed il Friuli Venezia Giulia che presentano indici superiori alla media dell’UE.
Tutte le altre regioni italiane sono in terreno negativo, ma con valori accettabili nel Centro Italia e nel Nord Ovest. Inveceè disastrosa la situazione nelle regioni del Mezzogiorno. In particolare in Sicilia, Puglia, Molise e Calabria con indici che variano da -1588 a -1687, con la Campania addirittura a -2.242 punti.
‘Il quadro dipinto da questo indice europeo – dichiara il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia di Mestre, Paolo Zabeo – evidenzia come l’Italia sia il Paese che presenta, al suo interno, la più ampia variabilità in termini di qualità della PA, tra le prime regioni del Nord e le ultime del Sud. Si pensi che, secondo quanto indicato dal Fondo Monetario Internazionale, se l’efficienza del settore pubblico si attestasse sui livelli ottenuti dai primi territori, come le province di Trento e di Bolzano, la produttività di un’impresa media potrebbe crescere del 5-10 per cento e il Pil di due punti percentuali, ovvero di 30 miliardi di euro’.
Lo studio dell'UE sulla qualità della PA nel vecchio continente ha preso in considerazione diversi servizi pubblici come la formazione, la sanità, la sicurezza, la giustizia ed il modo in cui essi sono stati assegnati e gli eventuali fenomeni di corruzione.
Tutte le altre regioni italiane sono in terreno negativo, ma con valori accettabili nel Centro Italia e nel Nord Ovest. Inveceè disastrosa la situazione nelle regioni del Mezzogiorno. In particolare in Sicilia, Puglia, Molise e Calabria con indici che variano da -1588 a -1687, con la Campania addirittura a -2.242 punti.sabato 26 marzo 2016
Almaviva licenzia, ma a pagare è sempre il Sud
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| Foto rassegna.it |
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| Foto sudpress.it |
lunedì 22 febbraio 2016
'Agromafie' diffuse da Sud a Nord
L’indagine
ha preso in considerazione
la diffusione e l’intensità del fenomeno delinquenziale, le conseguenze degli
eventi denunciati ed i fattori economici e sociali. I reati più frequenti rilevati
dal Rapporto sono l’usura, il racket, i furti di attrezzature e macchinari
agricoli, le macellazioni clandestine ed i danneggiamenti alle colture. martedì 16 febbraio 2016
Inps: nel 2015 sono stati creati 606.000 nuovi posti di lavoro
Nel 2015 il numero
complessivo di assunzioni nel settore privato è stato di 5.408.804, in crescita
dell’11% sul 2014 e del 15% sul 2013. Le nuove attivazioni sono state oltre 2,4 milioni, quelle che
beneficiano dell’esonero contributivo sono state 1,4 milioni, cioè il 61% del totale
e sono il doppio rispetto al 2014.sabato 23 gennaio 2016
Il Mezzogiorno ha perso 575mila posti di lavoro
di Giovanni Pulvino (@Pulvino Giovanni)
“Dal 2008 al 2014 il Pil della
Sicilia ha perso oltre 13 punti percentuali, contro il Centro-Nord che nello stesso periodo ne ha
persi 7,4. Se poi si considera il periodo più ampio che va dal 2001 al 2014, il
Mezzogiorno ha subito un calo del 9,4, con la Sicilia in testa alla classifica
che ha perso ben 9 punti, mentre il Pil del Centro-Nord è cresciuto dell’1,5%”.
A dirlo, durante il convegno su ‘Le leggi di stabilità per il Sud e la Sicilia’
organizzato dall’associazione Pio La Torre, è il direttore di Svimez, Riccardo
Padovani, che ha aggiunto: ”Il problema
dell’occupazione, poi, è tutto a carico del Sud, perché su oltre 811mila
posti di lavoro persi in Italia dal 2008 al 2014, il Meridione ha registrato
575mila occupati in meno, mentre il Centro-Nord si è fermato a 80mila posti in
meno, con un impatto negativo sette volte maggiore nel Meridione, e questo richiede una politica strategica. Nel 2015
il tasso di disoccupazione al Centro- Nord è stato dell’8,9%, mentre nel
Mezzogiorno è più del doppio, supera, cioè, il 20%. Inoltre, il Pil nazionale
nel 2015 è cresciuto dello 0,8% al Centro-Nord, mentre al Sud si è fermato allo
0,1%. Se guardiamo agli investimenti fissi lordi, nel Mezzogiorno sono
addirittura diminuiti dell’1%, mentre nel resto d’Italia sono aumentati dell’1,5%”.![]() |
| Pio La Torre |
martedì 19 gennaio 2016
Inps: aumentano i contratti fissi, record di voucher in Sicilia
giovedì 14 gennaio 2016
Petrolchimico di Gela: Eni sotto processo per ‘inquinamento ambientale’
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| Il petrolchimico di Gela |
L’avvocato
delle famiglie ricorrenti,
Giuseppe Fontanella, ha chiesto il sequestro dei pozzi e degli impianti ancora
in esercizio a Gela. mercoledì 13 gennaio 2016
Crolla l’occupazione nelle costruzioni e nell’industria, mentre cresce nei servizi, ma ad essere penalizzato è sempre il Sud
Il
settore delle costruzioni ha fatto registrare il calo più elevato di occupati dal
2008 ad oggi. L’emorragia
di addetti nel comparto è stata di 464mila unità ed è continuata anche
negli
ultimi due anni. A differenza di quanto è avvenuto negli altri settori
produttivi dal 2013 sono stati persi altri 64mila900 posti di lavoro. A
dirlo è un’elaborazione
dei dati Istat fatta dal Centro studi di ImpresaLavoro.
L’agricoltura
ha fatto registrare cali più modesti,
con otto regioni che, anzi, hanno incrementato l’occupazione rispetto al 2008. Si
tratta di Marche ed Abruzzo con aumenti di oltre il 30%, seguite da Toscana
(+17,9%), Sardegna (+13,26%), Lazio (+12,43%) e Friuli Venezia Giulia (+10,96%).
Record negativo, invece, per il Molise (-40,49%) e la Puglia (-23,54%).lunedì 4 gennaio 2016
Solo il 14,9% dei distretti industriali si trova nel Mezzogiorno
In
Italia le aree industriali assorbono circa il 40% dell’occupazione e, anche se il loro numero è calato, nell’ultimo decennio sono rimasti sostanzialmente stabili. A dirlo è l’Istat sulla base dei dati dell’ultimo
censimento.lunedì 28 dicembre 2015
Nel Mezzogiorno i posti di lavoro sono aumentati di 89mila unità
Secondo
i dati rilevati dal Centro studi di ImpresaLavoro nel periodo tra il 2008 ed il 2015 il numero di occupati in Italia è diminuito di 656.911 unità. I posti persi al
Sud e nelle Isole sono stati 486mila, al Nord 249mila, mentre le regioni del
Centro hanno fatto registrare un aumento di 78mila unità, ma solo grazie all’incremento
di 116mila posti di lavoro avvenuto nel Lazio.
In termini assoluti la regione che ha fatto peggio è stata la Sicilia,
con una diminuzione di 137.033 unità, seguita dalla Puglia con -95.959 e dalla
Campania con -92.150. Ad essere sopra i livelli del 2008, oltre al Lazio, c’è solo il Trentino Alto Adige con +20mila unità.martedì 22 dicembre 2015
Nella Legge di Stabilità solo ‘briciole’ per il Sud
Il
valore del provvedimento, che prevede oltre 1000 commi, è di 35,4 miliardi di
euro,
l’incremento
dai 29,6 miliardi previsti inizialmente è stato determinato soprattutto
dalle
misure aggiuntive sulla sicurezza. I benefici fiscali per le regioni del
Mezzogiorno che sono stati introdotti con la manovra finanziaria
approvata oggi dal Senato sono ‘briciole’ rispetto a quanto sarebbe
stato necessario per ridare vigore
all’economia meridionale.
L’importo
complessivo previsto è di 2 miliardi e 468 milioni di euro, vale a dire 617
milioni di euro all’anno.
L’agevolazione è differenziata a seconda delle dimensioni aziendali: il 20% per
le piccole imprese, il 15% per quelle medie e il 10% per quelle di grandi
dimensioni. Il tetto massimo utilizzabile è di 1,5 milioni di euro per le piccole
imprese, di 5 milioni per le medie e di 15 per quelle di grandi dimensioni. Le
modalità di attuazione del provvedimento saranno stabilite dall’Agenzia delle
Entrate. A
queste misure si aggiunge
la possibilità di ‘superare il patto di stabilità interno’ il cui scopo è
di attivare, ‘dai meccanismi di gestione del bilancio’, risorse
pubbliche per 11 miliardi di
euro, di cui 7 da investire nelle regioni meridionali. Infine specifici
interventi sono previsti per l’area di Bagnoli e per la Terra dei
Fuochi. Queste
agevolazioni si uniscono
a quelle previste con il cosiddetto ‘super ammortamento’, cioè la maggiorazione
del 40% del costo fiscalmente deducibile dei beni strumentali acquistati dalle
imprese dal 15 ottobre 2015 al 31 dicembre 2016.lunedì 7 dicembre 2015
Il 24,9% dei lavoratori autonomi vive sotto la soglia di povertà
Lo
scorso anno il 24,9% delle famiglie con reddito principale da lavoro autonomo ha
vissuto con una disponibilità economica inferiore a 9.455 euro, considerata
dall’Istat come soglia di povertà. La
percentuale scende al 20,9% per i nuclei familiari con reddito da pensione ed al
14,6% per quelle con reddito da lavoro dipendente. Insomma la povertà si concentrerebbe
soprattutto tra gli autonomi, a sostenerlo è uno studio della Cgia di Mestre.martedì 1 dicembre 2015
Istat: disoccupazione ai minimi degli ultimi tre anni
Nel
mese di ottobre, secondo
la stima fatta dall’Istat, il numero di occupati è diminuito dello 0,2% (-39 mila
unità). Il calo è stato determinato dai lavoratori autonomi, mentre rimane
sostanzialmente stabile il numero dei dipendenti. La stima dei disoccupati
diminuisce di 13 mila unità. Il calo riguarda le donne e la popolazione
di età superiore a trentaquattro anni.lunedì 30 novembre 2015
Fibra ottica: le regioni più virtuose saranno quelle meridionali
La
consultazione avviata nel maggio scorso da Infratel (Infrastrutture e Telecomunicazioni
per l’Italia), società costituita su iniziativa del MISE (Ministero dello
Sviluppo Economico) e da Invitalia (l’Agenzia nazionale per l’attrazione degli
investimenti e lo sviluppo d’impresa), ha delineato un quadro accurato della
situazione della rete in fibra ottica nel nostro Paese ed esso, ora, rappresenta
un punto di partenza per la sua realizzazione.
Il
piano del Governo
prevede la suddivisione del Paese in circa 95mila aree. Lo scopo
principale della
ricerca di Infratel è stato quello di capire a quali di esse sono
interessati gli operatori privati ed in quali invece sarà necessario
l’intervento pubblico. Per quanto riguarda le unità immobiliari
residenziale le
zone che, nel 2018, rimarranno scoperte e su cui dovrà intervenire il
Governo
sono il 36,3%. Dalla consultazione è emerso che, nella costruzione delle rete a banda ultralarga, oltre una casa su tre non interessa agli
operatori telefonici. Essi, infatti,
si concentreranno nelle aree più redditizie, tra queste c’è il Lazio,
mentre tra quelle da ‘evitare’ c’è il Molise. Le zone grigie o nere, cioè quelle
coperte dai privati, sono circa 1100, mentre quelle bianche, cioè quelle
snobbate dagli operatori telefonici, sono circa 83mila. Per coprire tali aree il
Cipe ha stanziato 2,2 miliardi di euro.mercoledì 25 novembre 2015
Un lavoratore su tre si ammala di lunedì, record in Lombardia
Secondo i dati diffusi
dall’Inps i
certificati medici emessi nel 2014 sono stati 11.494.805 nel settore privato con
una diminuzione rispetto all’anno precedente del 3,2%, mentre in quello
pubblico sono stati 6.031.362, con un lieve incremento dello 0,8%. ‘La
distribuzione del numero degli eventi malattia del 2014 è simile per entrambi i
comparti, con frequenza massima il
lunedì: 2.576.808 eventi per il settore privato e 1.325.187 per la Pubblica
amministrazione, pari rispettivamente al 30,2% e al 27,2% del totale’, a
sostenerlo, in una nota, è l’Istituto di previdenza. E’ assai probabile che il
lavoratore che si ammala sabato o domenica attenda il lunedì per far partire il
primo giorno di malattia. lunedì 23 novembre 2015
Istat: nel Mezzogiorno bassi livelli di reddito e maggiore disuguaglianza
Nel
2014 le persone residenti in Italia a rischio di povertà sono il 28,3%, a sostenerlo è l’Istat. Si tratta
di quella parte di popolazione che soffre di una ‘grave deprivazione materiale e
bassa intensità di lavoro’.
Il
20% delle famiglie residenti in Italia percepisce il 37,5% del reddito totale, mentre al 20% della popolazione spetta il 7,75%.
Nel 2013, l’Istat stima che metà delle famiglie abbia percepito un reddito
netto annuo non superiore a 24.310 euro, circa 2.026 euro al mese, nel
Mezzogiorno questa cifra scende a 20.188 euro, circa 1.682 euro al mese.
Inoltre, nel Sud, secondo la stima
dell’indice di Gini, si registra anche
una maggiore disuguaglianza, essa si attesta a livello nazionale al 0,296,
mentre nel Meridione sale a 0,305.domenica 15 novembre 2015
Jobs act, ecco i primi licenziamenti
Nel
mese di marzo, a
seguito di un aumento degli ordini, tre lavoratori erano stati assunti dalla cartiera Pigna Envelopes che opera a Tolmezzo in provincia di Udine sfruttando gli sgravi contributivi previsti dal Jobs act. L’azienda negli ultimi mesi
ha subito ‘un calo di produzione’ e, per questo motivo, ha dovuto procedere al
licenziamento dei tre lavoratori assunti appena otto mesi prima con la nuova forma
contrattuale voluta fortemente del presidente del Consiglio, Matteo Renzi.mercoledì 28 ottobre 2015
Svimez: Italia ancora più divisa e diseguale
lunedì 26 ottobre 2015
I dipendenti pubblici licenziati nel 2013 per motivi disciplinari sono stati 220 cioè lo 0,0063%
I
dipendenti della Pubblica amministrazione sono circa 3,5 milioni, di questi lo 0,2%, cioè 6900,
hanno subito contestazioni disciplinari nel 2013, ultimo dato disponibile, e
solo 220, cioè lo 0,0063% sono stati licenziati. Le motivazioni sono state: novantanove per assenze
ingiustificate, settantotto per reati, trentacinque per comportamenti non
corretti, negligenza o inosservanza dell’ordine di servizio e sette per doppio
lavoro.![]() |
| Marianna Madia, ministro della Semplificazione e della Pubblica Amministrazione |
sabato 17 ottobre 2015
Agenas: nei nostri ospedali mancano medici ed infermieri, ma abbondano gli 'amministrativi'
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| Azienda ospedaliera Cannizzaro - Catania |
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| Azienda ospadaliera S. Camillo - Roma |
martedì 13 ottobre 2015
L’occupazione cresce, ma a due velocità: Sicilia, Calabria e Puglia fanno meno della media nazionale
Nei
primi otto mesi del 2015 è aumentato di 299.375 unità il numero di nuovi
rapporti di lavoro a tempo indeterminato rispetto allo stesso periodo del 2014. Nello stesso periodo sono cresciuti
di 29.377 unità i contratti a termine, mentre si riducono di 11.744 unità quelli
in apprendistato. I rapporti stabili sul totale dei contratti di lavoro sono
passati dal 32,3% dei primi otto mesi del 2014 al 38,1% dello stesso periodo
del 2015.domenica 4 ottobre 2015
Quanti sprechi con la Brebemi e la Teem
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| L'inaugurazione della Brebemi |
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| Un tratto dell'autostrada |
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| Un tratto della Brebemi |
mercoledì 30 settembre 2015
Istat: disoccupazione all’11,9%
sabato 26 settembre 2015
Il paradiso fiscale è a Burgio
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| Il manifesto fatto affiggere dal sindaco Vito Ferrantelli |
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| Burgio (Ag) |
martedì 22 settembre 2015
Il record di evasione fiscale è al Nord
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| Il Ministero dell'Economia e delle Finanze |
giovedì 10 settembre 2015
Inps: crescono le assunzioni, ma anche il divario tra il Centro-Nord ed il Sud del Paese
venerdì 4 settembre 2015
Confindustria: mondo rischia stagnazione secolare
giovedì 3 settembre 2015
Con il governo di Matteo Renzi il debito pubblico cresce di 6,58 miliardi di euro al mese
Secondo il Centro studi di ImpresaLavoro durante il governo di Enrico Letta il debito pubblico cresceva di 3,14 di euro al mese, la metà di quanto sta avvenendo con quello di Matteo Renzi
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Enrico Letta e Matteo Renzi
Da quando Matteo Renzi è presidente del Consiglio il debito pubblico è aumentato in termini assoluti di 98,76 miliardi di euro, è passato dai 2.119 miliardi di euro del marzo 2014 ai 2.218 miliardi di euro del maggio 2015. L’aumento mensile è stato di 6,58 miliardi di euro al mese. A rivelarlo è una ricerca condotta dal Centro studi di ImpresaLavoro.
Durante i dieci mesi del Governo precedente, quello di Enrico Letta, l’incremento del debito pubblico è stato di 31,38 miliardi di euro, è passato cioè da 2.075 miliardi di euro del maggio 2013 ai 2.106 miliardi di euro del febbraio 2014. L’incremento mensile è stato di 3,14 miliardi di euro.
Insomma, la crescita del debito pubblico durante i primi quindici mesi del governo di Matteo Renzi è stata doppia rispetto a quella registrata con quello di Enrico Letta.
Il presidente del Consiglio ha annunciato pochi giorni fa al meeting di Comunione e Liberazione il taglio delle tasse. In particolare ha promesso l’abolizione dell’Imu e della Tasi sulla prima casa e successivamente un intervento sull’Ires e sull’Irpef. La riduzione della pressione fiscale è di certo un fatto positivo, ma essa sarà finanziata in gran parte con la flessibilità sui vincoli di bilancio fissati dall’Unione Europea. In altre parole essa non avverrà con il taglio della spesa e degli sprechi della Pubblica amministrazione, ma con un incremento del deficit e di conseguenza con un ulteriore aumento del debito pubblico.
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| Enrico Letta e Matteo Renzi |
martedì 1 settembre 2015
Istat: disoccupazione in calo e Pil in crescita, ma solo al Nord
I dati sull’andamento del mercato del lavoro comunicati dall’Istat evidenziano una diminuzione della disoccupazione, ma anche un aumento del divario tra il Nord ed il Sud del Paese
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Nel secondo trimestre del 2015 cresce il numero di occupati. L’aumento riguarda sia gli stranieri con un +50mila unità sia gli italiani con un +130mila unità. Crescono di 139mila unità gli occupati a tempo pieno, ma anche di quelli a tempo parziale registrano una crescita dell’1%. Queste sono le stime provvisorie sull’andamento del mercato del lavoro nel secondo trimestre 2015 comunicate dall’Istat.
Dopo tre anni e cinque mesi di crescita, il tasso di disoccupazione a luglio è sceso al 12,1%, con una diminuzione dello 0,9% su base annua e dello 0,5% su quella mensile. Valori che non si vedevano da due anni. Più accentuato il calo della disoccupazione tra i giovani compresi nella fascia di età tra i 15 e 24 anni. La diminuzione è stata di 2,6 punti percentuali su base annua e di 2,5 punti su quella mensile. Si riduce anche il numero degli inattivi dell’1,9%, soprattutto tra i 55-64enni.
Si amplia il divario tra le diverse aree territoriali del Paese: al Sud il tasso di disoccupazione rimane al 20,2%, al centro sale al 10,7%, con un incremento dello 0,1%, mentre al Nord scende al 7,9%, con una diminuzione dello 0,3%.
L’Istat vede al rialzo anche le stime sulla crescita del Pilcon un +0,3% sul secondo trimestre e +0,7 su base annua. E’ l’aumento più alto degli ultimi quattro anni.
Soddisfazione ha espresso il presidente del Consiglio, Matteo Renzi: ”Segnali positivi vengono dal turismo, dalla produzione industriale, dall’Expo, che è stato uno straordinario successo e anche dai dati Istat, particolarmente significativi: più 44mila occupati e meno 143mila disoccupati. E’ l’idea che il Paese si rimette in moto: ognuno può avere le proprie idee politiche, ovviamente, ma oggi è fondamentale che tutti insieme diano uno mano affinché l’Italia torni a crescere”.
Nel secondo trimestre del 2015 cresce il numero di occupati. L’aumento riguarda sia gli stranieri con un +50mila unità sia gli italiani con un +130mila unità. Crescono di 139mila unità gli occupati a tempo pieno, ma anche di quelli a tempo parziale registrano una crescita dell’1%. Queste sono le stime provvisorie sull’andamento del mercato del lavoro nel secondo trimestre 2015 comunicate dall’Istat.
Si amplia il divario tra le diverse aree territoriali del Paese: al Sud il tasso di disoccupazione rimane al 20,2%, al centro sale al 10,7%, con un incremento dello 0,1%, mentre al Nord scende al 7,9%, con una diminuzione dello 0,3%.lunedì 24 agosto 2015
Lunedì nero per tutte le Borse mondiali
‘Panic selling’ su tutte le Borse mondiali, il crollo delle contrattazioni di quella cinese ha gettato nel panico gli investitori, non succedeva dal 2009
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
E’ stato un lunedì nero per le Borse di tutto il mondo. Il Ftse Mib ha chiuso a -5,96%, ma nel corso delle contrattazioni ha toccato un -7%. A metà seduta il Dow Jones fa segnare un -2,95%, in apertura aveva fatto registrare un -6,3% e il Nasdaq -9,56%.
La bufera ha avuto origine con il crollo della borsa cinese che ha chiuso le contrattazioni con un calo dell'8,49%, il risultato peggiore dal 1996. L’indice CSI 300 di Shanghai-Shenhen è tornato sui livelli di dicembre, cancellando così i guadagni di oltre il +50% registrati da inizio anno. Ora la Banca centrale di Pechino è pronta ad intervenire aumentando la liquidità delle banche di circa 100 miliardi di dollari.
Nelle ultime sedute le altre Borse avevano reagito alle difficoltà di quella cinese senza particolari conseguenze. Stamane invece sono crollate a cominciare da quelle asiatiche. Hong Kong ha ceduto il 5,3%, Tokio il 4,6%, Seul il 3% e Mumbay il 4%.
Venerdì sera Wall Street aveva chiuso la seduta con un calo del 3%, che ha portato la performance negativa della settimana a -6%.
Con questi presupposti l’inizio delle contrattazioni delle borse europee non poteva che essere negativo, ma nel corso della seduta la situazione è peggiorata e si è diffuso il ‘panic selling’. In questi casi è difficilissimo capire quando le vendite si fermeranno e gli investitori torneranno a comprare.
Nei prossimi giorni capiremo se lo strappo di oggi sarà ricucito rapidamente o se si è trattato dello scoppio dell’ennesima bolla speculativa e se avremo un periodo di forti turbolenze sui mercati e di conseguenza nell’economia reale così com’è avvenuto nel 2008 con il fallimento di Lheman Brothers.
E’ stato un lunedì nero per le Borse di tutto il mondo. Il Ftse Mib ha chiuso a -5,96%, ma nel corso delle contrattazioni ha toccato un -7%. A metà seduta il Dow Jones fa segnare un -2,95%, in apertura aveva fatto registrare un -6,3% e il Nasdaq -9,56%.
Nelle ultime sedute le altre Borse avevano reagito alle difficoltà di quella cinese senza particolari conseguenze. Stamane invece sono crollate a cominciare da quelle asiatiche. Hong Kong ha ceduto il 5,3%, Tokio il 4,6%, Seul il 3% e Mumbay il 4%.sabato 22 agosto 2015
Cgia: tasse locali aumentate del 48,4%
Tra il 2000 ed il 2013 gli enti locali hanno aumentato i tributi di 32,6 miliardi, un importo nettamente superiore ai tagli subiti dallo Stato
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Secondo l’Ufficio studi della Cgia di Mestre tra il 2000 ed il 2013 le tasse locali sono aumentate di 32,6 miliardi di euro. Nello stesso periodo i tagli ai trasferimenti effettuati dallo Stato sono stati di 18 miliardi di euro. Regioni e Comuni hanno ricevuto meno risorse ma con l’introduzione delle nuove imposte locali e con l’incremento di quelle già esistenti hanno aumentato le disponibilità finanziarie di 14,6 miliardi di euro.
Questo significa che i tagli operati dai Governi nazionali per risanare i conti pubblici non hanno determinato una riduzione degli sprechi della macchina amministrativa di Regioni e Comuni, ma hanno provocato un aumento del prelievo fiscale locale per il 48,4%, mentre quello statale è cresciuto ‘solo’ del 36,1%.
Le imposte che hanno determinato questo incremento sono soprattutto l’Imu e la Tasi. Con questi tributi gli enti locali incassano 21,1 miliardi di euro l’anno. Si tratta d’imposte che non tengono conto della condizione reddituale del soggetto passivo. Inoltre non è raro, soprattutto nei piccoli centri del Sud Italia, che i cittadini siano obbligati a pagare queste imposte su abitazioni che hanno ereditato o costruito con enormi sacrifici ma che sono sfitte o non utilizzabili. Insomma, negli ultimi quindici anni i consigli regionali e quelli comunali per far fronte ai tagli operati dello Stato anziché ridurre le inefficienze e gli sprechi hanno approfittato del cosiddetto federalismo fiscale per incrementare le entrate tributarie con il solo risultato di aver aumentato notevolmente la pressione fiscale sui loro contribuenti.
Le imposte che hanno determinato questo incremento sono soprattutto l’Imu e la Tasi. Con questi tributi gli enti locali incassano 21,1 miliardi di euro l’anno. Si tratta d’imposte che non tengono conto della condizione reddituale del soggetto passivo. Inoltre non è raro, soprattutto nei piccoli centri del Sud Italia, che i cittadini siano obbligati a pagare queste imposte su abitazioni che hanno ereditato o costruito con enormi sacrifici ma che sono sfitte o non utilizzabili. Insomma, negli ultimi quindici anni i consigli regionali e quelli comunali per far fronte ai tagli operati dello Stato anziché ridurre le inefficienze e gli sprechi hanno approfittato del cosiddetto federalismo fiscale per incrementare le entrate tributarie con il solo risultato di aver aumentato notevolmente la pressione fiscale sui loro contribuenti.giovedì 20 agosto 2015
Cgia: ‘Rifiuti pagati a peso d’oro’
Secondo il Centro studi della Cgia di Mestre la produzione di rifiuti è diminuita, ma nonostante ciò il costo della raccolta e dello smaltimento sono notevolmente aumentati
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
“Nonostante abbiamo prodotto meno rifiuti, la raccolta e lo smaltimento degli stessi ci sono costati di più”, a dirlo è Paolo Zabeo della Cgia di Mestre. Se nel 2007 la quantità di rifiuti prodotta da ogni cittadino è stata di 557 kg, nel 2013 essa è scesa a 491 Kg, ma malgrado ciò dal 2010 ad oggi il costo per la raccolta e lo smaltimento è aumentato mediamente del 25,5%.
Gli incrementi maggiori hanno riguardato le attività economiche nonostante il calo del giro di affari che esse hanno dovuto sopportare a causa della crisi economica. Secondo i dati dell’indagine svolta dal Centro studi della Cgia di Mestre a subire i maggiori aumenti sono stati iristoranti, le pizzerie ed i pub con un incremento medio del 47,4%, i negozi di ortofrutta con un aumento del 42% ed i bar con il 35,2%.
Negli ultimi anni il Parlamento per regolare la gestione dei rifiuti ha approvato diversi provvedimenti legislativi. Dalla Tarsu (Tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani) e dalla Tia (Tariffa d’igiene ambientale) siamo passati nel 2013 alla Tares (Tassa sui rifiuti e servizi) e nel 2014 alla Tari (Tassa sui rifiuti). Quest’ultima è stata introdotta in base al seguente principio comunitario: ’chi inquina paga’, cioè la tassa deve essere commisurata alla quantità di rifiuti prodotta. Inoltre è stato sancito che il costo del servizio ricada interamente sugli utenti.
Il problema sta proprio qui sottolinea Paolo Zabeo: “Queste aziende, di fatto, operano in condizioni di monopolio, con dei costi spesso fuori mercato che famiglie e imprese, nonostante la produzione dei rifiuti sia diminuita e la qualità del servizio offerto non sia migliorata, sono chiamate a coprire con importi che in molti casi sono del tutto ingiustificati. Proprio per evitare che il costo delle inefficienze gestionali vengano scaricate sui cittadini, la legge di Stabilità del 2014 ha ancorato, dal 2016, la determinazione delle tariffe ai fabbisogni standard”.
“Nonostante abbiamo prodotto meno rifiuti, la raccolta e lo smaltimento degli stessi ci sono costati di più”, a dirlo è Paolo Zabeo della Cgia di Mestre. Se nel 2007 la quantità di rifiuti prodotta da ogni cittadino è stata di 557 kg, nel 2013 essa è scesa a 491 Kg, ma malgrado ciò dal 2010 ad oggi il costo per la raccolta e lo smaltimento è aumentato mediamente del 25,5%.
Negli ultimi anni il Parlamento per regolare la gestione dei rifiuti ha approvato diversi provvedimenti legislativi. Dalla Tarsu (Tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani) e dalla Tia (Tariffa d’igiene ambientale) siamo passati nel 2013 alla Tares (Tassa sui rifiuti e servizi) e nel 2014 alla Tari (Tassa sui rifiuti). Quest’ultima è stata introdotta in base al seguente principio comunitario: ’chi inquina paga’, cioè la tassa deve essere commisurata alla quantità di rifiuti prodotta. Inoltre è stato sancito che il costo del servizio ricada interamente sugli utenti.mercoledì 19 agosto 2015
Petrolieri e accise frenano il calo del prezzo della benzina
Il prezzo del petrolio continua a scendere ma quello della benzina non si abbassa allo stesso modo, perché?
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Un anno fa il prezzo del petrolio era di 103,95 dollari al barile, oggi è di 48,42 dollari al barile, è tornato cioè ai livelli del 2009. La sua di diminuzione è stata di oltre il 53%. Dall’inizio dell’anno il prezzo del greggio è calato del 15%, mentre quello della benzina è salito del 4%.
Quando il prezzo del petrolio sale i produttori immediatamente aumentano il costo del carburante, quando invece esso scende il prezzo al distributore non diminuisce alla stessa velocità e nella stessa misura. Perché?
I motivi sono due. Da un lato c’è l’ingordigia dei petrolieri che si difendono sostenendo che sono cresciuti i costi di ‘raffinazione’. Dall’altro lato c’è il continuo aumentare di balzelli ed accise inseriti dallo Stato nel prezzo della benzina e del gasolio.
I continui incrementi delle tasse hanno fatto crescere il loro peso sul prezzo dei carburanti per oltre un euro a litro. Lo Stato incassa, infatti, su ogni litro di ‘verde’, tra Iva e accise, 1,012 euro, circa il 60% del prezzo. Con il decreto Salva Italia del 2011 e le clausole di salvaguardia le accise sono passate da 0,564 a 0,728 euro al litro mentre l’Iva è salita al 22%. In sei anni le imposizioni fiscali sono aumentate del 33%, vanificando così sia il calo del prezzo del petrolio che quello del cambio tra Euro e Dollaro.
Inoltre, nell’ultimo anno, con le accise ferme ad aumentare è stato solo il costo industriale della benzina. In altre parole i petrolieri di fronte alla riduzione dei margini di profitto determinate dal crollo del prezzo del petrolio si sono rifatti sui consumatori mantenendo alto il prezzo al distributore.
Infine, è bene ricordare che si tratta di imposte indirette, di tasse cioè che colpiscono i consumi e che pertanto non tengono conto del reddito percepito da chi effettuata l’acquisto.
venerdì 14 agosto 2015
ImpresaLavoro: ‘Paese fortemente diviso tra Centro Nord e Centro Sud’
Il Centro Studi ImpresaLavoro ha elaborato la graduatoria che emerge dell’Indice delle Opportunità Regionali che misura la qualità della vita nelle singole regioni italiane
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Secondo il Centro Studi ImpresaLavoro la regione italiana dove si vive meglio è il Trentino Alto Adige, seguita dal Veneto, dall’Emilia Romagna e dalla Lombardia. Quelle che offrono meno opportunità sono la Puglia, la Calabria, la Campania e la Sicilia.
La graduatoria emerge dall’Indice delle Opportunità Regionali che misura la qualità della vita nelle singole regioni. L’inchiesta ha preso in considerazione quattro aspetti: il mercato del lavoro, il reddito, il livello d’istruzione e quello di partecipazione alla vita pubblica.
I risultati dell’indagine hanno evidenziato da un lato un Nord Italia con indici simili a quelli delle regioni delle grandi economie europee e dall’altro un Sud che si impoverisce e non mostra nessun segnale di ripresa.
Il Trentino Alto Adige primeggia in tema di lavoro con un tasso di disoccupazione dell’1,92%, ma anche per il livello del reddito ed equità nella sua distribuzione.
L’Emilia Romagna, l’Umbria e la Lombardia prevalgono per il livello di partecipazione alla vita pubblica che è stato calcolato analizzando il tasso di affluenza alle elezioni nazionali. Negli ultimi posti ci sono la Sicilia, la Calabria, la Sardegna, la Campania e la Puglia.
In fondo alla classifica sulle opportunità di lavoro c’è la Sicilia che ha un tasso di disoccupazione del 22,17% ed è preceduta dalla Calabria con il 23,42% e dalla Campania con il 21,74%. Ancora più drammatici sono i dati sui Neet, i giovani siciliani che non studiano e non lavorano sono il 40,28%, i calabresi il 37,99% ed i campani il 36,35%. Nelle regioni settentrionali i tassi sulla disoccupazione sono dimezzati rispetto al Sud.
Il reddito di chi vive in Lombardia o in Trentino Alto Adige è mediamente superiore del 65% rispetto ad una famiglia siciliana. Non solo ma nelle regioni più povere la distribuzione del reddito è meno equa rispetto a quelle più ricche. In questa classifica la Sicilia, la Campania, la Basilicata, il Molise e la Calabria sono negli ultimi posti.
Per quanto riguarda i livelli d’istruzione le differenze sono più limitate, in testa c’è il Lazio mentre nel penultimo posto della classifica c’è il Veneto davanti alla Puglia, ma dietro a Sicilia e Sardegna.
“Questi dati confermano l’idea di un Paese drammaticamente spaccato in due, con le regioni del Centro Nord che offrono opportunità molto più elevate delle altre”. Questo è quanto ha dichiarato l’imprenditore Massimo Blasoni, presidente di ImpresaLavoro ed ancora: “D’altra parte l’Italia si colloca in Europa al primo posto per disparità territoriali in tema di lavoro e reddito e quindi di opportunità offerte alle famiglie: una condizione che stenta a migliorare e che colpisce soprattutto i giovani che rimanendo a lungo fuori dal mondo del lavoro e da percorsi di formazione rischiano di vedersi ipotecata ogni speranza di un futuro migliore.”
Secondo il Centro Studi ImpresaLavoro la regione italiana dove si vive meglio è il Trentino Alto Adige, seguita dal Veneto, dall’Emilia Romagna e dalla Lombardia. Quelle che offrono meno opportunità sono la Puglia, la Calabria, la Campania e la Sicilia.
Il Trentino Alto Adige primeggia in tema di lavoro con un tasso di disoccupazione dell’1,92%, ma anche per il livello del reddito ed equità nella sua distribuzione. L’Emilia Romagna, l’Umbria e la Lombardia prevalgono per il livello di partecipazione alla vita pubblica che è stato calcolato analizzando il tasso di affluenza alle elezioni nazionali. Negli ultimi posti ci sono la Sicilia, la Calabria, la Sardegna, la Campania e la Puglia.
giovedì 13 agosto 2015
Nei primi sei mesi del 2015 il debito pubblico italiano è aumentato di 68,7 miliardi di euro
La Banca d’Italia ha comunicato che il debito pubblico nel mese di giugno è diminuito di 14,6 miliardi ma dall’inizio dell’anno è aumentato di 68,7 miliardi
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

La Banca d'Italia
Il debito pubblico italiano è diminuito nel mese di giugnodi 14,6 miliardi di euro. A comunicarlo è la Banca d’Italia. Dopo il record toccato nel mese di maggio è calato a 2203,6 miliardi.
Secondo l'Istituto centrale la lieve diminuzione ‘è stata sostanzialmente uguale all’avanzo di cassa del mese che è stata pari a 14,5 miliardi di euro’. Ed ancora: ‘La rivalutazione dei titoli indicizzati all’inflazione, il lieve apprezzamento dell’euro e gli scarti di emissione hanno diminuito il debito per 0,1 miliardi’.
Le disponibilità liquide del Tesoro sono rimaste invariate a 100,9 miliardi di euro. Il debito delle Amministrazioni locali è diminuito di 2,4 miliardi, quello degli Enti di previdenza è rimasto invariato, è sceso invece di 12,1 miliardi quello delle Amministrazioni centrali.
Le entrate a giugno sono state pari a 41,0 miliardi, in riduzione di 1,7 miliardi rispetto allo stesso mese del 2014.
Dall’inizio dell’anno, il debito pubblico è comunque aumentato di 68,7 miliardi di euro.
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| La Banca d'Italia |
sabato 8 agosto 2015
Nel Mezzogiorno torna a crescere il numero di alberghi, bar e ristoranti
Secondo i dati pubblicati dall’Osservatorio della Confesercenti nel secondo trimestre del 2015 sono tornate ad aumentare le imprese che operano nel settore turistico
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Nel secondo trimestre del 2015 è aumentato il numero d’imprese che operano nel settore alberghiero e della somministrazione.L’incremento rispetto allo stesso periodo del 2014 è stato di 8684 alberghi, bar e ristoranti.A guidare la crescita è stato il Sud con un aumento del 2,5%, mentre al Centro-Nord è stato dell’1,8%. Esso ha riguardato soprattutto le grandi città. Questi dati sono stati rilevati dall’Osservatorio della Confesercenti sulla nascita e sulla cessazione delle imprese della ricettività e del turismo registrate tra l’inizio di aprile e la fine di giugno di quest’anno.
Il settore che è cresciuto di più è stato quello della ristorazione, ma in questo caso a trainare di più è stato il Centro-Nord con un aumento del 3,2%, mentre al Sud e nelle Isole è stato registrato un aumento del 2,8%.
La Regione che ha mostrato maggiore dinamismo nel settore della ricettività turistica è stata la Puglia, dove il numero d’imprese è cresciuto del 9,8%, seguita dal Lazio con un +6,7% e dalla Sicilia con un +5,8%. L’aumento di alberghi ed hotel è stato maggiore nel Mezzogiorno e nelle Isole con un incremento del 3,9%, mentre al Centro-Nord è stato del 2,3%.
Nel Sud e nelle Isole è cresciuto anche il numero di bar con un aumento dell’1,9%, mentre è sostanzialmente stabile nel Centro-Nord, dove è stato registrato un +0,2%. L’incremento maggiore è stato in Campania con un +2,8%, seguita dalla Puglia con un +1,9% e dal Lazio e dalla Valle d’Aosta con un +1,8%.
Soddisfazione ha espresso la presidente di Fiepet, l’associazione di categoria dei pubblici esercizi, Esmeralda Giampaoli che ha dichiarato: “Dopo le contrazioni registrate negli anni scorsi, finalmente la ricettività e la somministrazione provano a ripartire”, ed ancora: “Alberghi, ristoranti e bar sono da sempre, per tradizione, cultura, capacità attrattiva, un pilastro fondamentale della nostra economia e del turismo. Purtroppo la crisi ha inciso gravemente sulla ricettività e, in particolare, sulla somministrazione: dal 2010 ad oggi i consumi sono diminuiti dell’8,5% nei bar e del 7,9% nei ristoranti. Il volume d’affari è sceso a 15,1 miliardi di euro l’anno, con un calo del 18%. L’attuale inversione di tendenza è comunque un segnale positivo, anche se le difficoltà rimangono intatte”.
Nel secondo trimestre del 2015 è aumentato il numero d’imprese che operano nel settore alberghiero e della somministrazione.L’incremento rispetto allo stesso periodo del 2014 è stato di 8684 alberghi, bar e ristoranti.A guidare la crescita è stato il Sud con un aumento del 2,5%, mentre al Centro-Nord è stato dell’1,8%. Esso ha riguardato soprattutto le grandi città. Questi dati sono stati rilevati dall’Osservatorio della Confesercenti sulla nascita e sulla cessazione delle imprese della ricettività e del turismo registrate tra l’inizio di aprile e la fine di giugno di quest’anno.venerdì 7 agosto 2015
100 miliardi di fondi dell’Ue possono essere utilizzati per affrontare l’emergenza nel Sud, ma come spenderli e quando?
Nel corso della direzione nazionale del Pd, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha proposto di realizzare entro la metà di settembre un ‘masterplan’ che affronti l’emergenza sociale nel Mezzogiorno
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Direzione nazionale del Partito democratico
Nel corso della direzione nazionale del Pd, convocata oggi per affrontare l’emergenza sociale ed economica nel Mezzogiorno, il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha detto: “Intorno al 15-16 settembre, alla ripresa dell’azione parlamentare ma prima della stabilità, vorrei che il Pd uscisse con un vero e proprio ‘masterplan’ per il Sud, con una serie di proposte concrete. Il problema oggi non è la mancanza dei soldi. E’ la mancanza della politica”. Ed ancora: ”La retorica sul Sud abbandonato è autoassolutoria per una parte dei dirigenti del Mezzogiorno ed è un elemento che concorre alla crisi del Sud”.

Matteo Renzi
Il primo obiettivo sarà di sbloccare cento miliardi di finanziamenti. Si tratta di risorse dei fondi europei contenute in programmi vecchi e nuovi. Circa dieci miliardi derivano da progetti da rendicontare entro la fine dell’anno, altri 50 miliardi di nuovi fondi Ue rientrano nella programmazione fino al 2020 ed altri 54 miliardi dal Fsc, il Fondo sviluppo e coesione, di questi 43 sono destinati al Meridione, cioè circa l’80%. In tutto sono 100 miliardi, ma come spenderli e quando?
I dati Istat e Svimez degli ultimi mesi indicano per il Sud una situazione di forte degrado economico e sociale. Il tasso di disoccupazione è del 20,5% ed è doppio rispetto a quello del Centro-Nord che è al 9,5%. Drammatica è, poi, la situazione dei giovani con un tasso di disoccupazione che ha raggiunto, tra gli under 24, la percentuale del 56%.
Lo scopo principale dell’intervento sarà quello di aumentare il numero di occupati e per realizzarlo occorrerà promuovere, con il finanziamento di piccole e grandi opere pubbliche, lo sviluppo dell’industria, del turismo, della cultura, della scuola e dell’ambiente.
Tra gli strumenti da utilizzare s’ipotizza la decontribuzione ‘selettiva’ che favorisca cioè l’occupazione aggiuntiva nel Meridione puntando agli under 29, agli over 55 ed alle donne.
Inoltre, il decreto Delrio del 2014 prevede che l’Agenzia per la coesione possa subentrare alle Regioni che non superano il 20% della spesa programmata. La condizione che sarà posta sarà quella del bonus-malus, cioè più soldi a chi spende e meno o nulla a chi non opera e non realizza i progetti.
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| Direzione nazionale del Partito democratico |
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| Matteo Renzi |
giovedì 6 agosto 2015
Inps: la povertà si sposta tra i 40-59enni
Il Rapporto annuale 2014 dell’Inps rileva un notevole incremento di nuovi poveri tra le famiglie monoparentali under 60
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, e il presidente dell'Inps, Tito Boeri
Il calo del Pil tra il 2008 ed il 2013 ha aumentato del 57% il rischio di povertà per le famiglie monoparentali under 60. Lo sostiene l’Inps nel Rapporto annuale 2014.
La lunga crisi economica ha modificato il profilo dei soggetti che sono a rischio d’indigenza. Non sono più minori ed anziani ma persone comprese tra i 40 ed i 50 anni, con incrementi del 70% per quelle tra i 51 e i 59 anni.
Le ragioni di questa situazione sono evidenti. I giovani disoccupati sono oltre il 40% ma essi possono sempre contare sul sostegno dei genitori. Inoltre numerose norme incentivano gli imprenditori ad assume lavoratori anagraficamente più giovani.

Il presidente dell'Inps Tito Boeri
Anche il divario dei tassi di povertà tra il Nord ed il Sud del Paese è aumentato. Nel 2008 il tasso d'indigenza al Settentrione era dell’11%, mentre nelle Regioni meridionali era del 35%. Alla fine del 2013 la distanza è aumentata di sei punti percentuali, passando al 14% nel Nord e al 43% nel Sud.
A pagare la recessione e il calo del Pil sono soprattutto i lavoratori ultracinquantenni, che vivono nel Mezzogiorno e che hanno perso il lavoro ma che non hanno ancora l’età per andare in pensione.
Il Sud sta vivendo un vero e proprio dramma sociale e l’inps con i suoi dati ha solo confermato una situazione che già si conosceva, ma per il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, è solo ‘disfattismo’.
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| Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, e il presidente dell'Inps, Tito Boeri |
| Il presidente dell'Inps Tito Boeri |
lunedì 3 agosto 2015
Il Sud è a ‘rischio di sottosviluppo permanente’ ma per Renzi è solo ‘piagnisteo’
‘Mi addolora che raccontare situazione Sud sia definito piagnisteo’, con questo tweet Roberto Saviano replica a Matteo Renzi che ieri aveva detto: ‘Sul Sud basta piagnistei’
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
I dati pubblicati pochi giorni fa dallo Svimez sulle condizioni dell’economia del Sud stanno provocando numerose polemiche tra opinionisti ed esponenti dei diversi partiti ed in particolare tra il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, e lo scrittore Roberto Saviano.

Roberto Saviano e Matteo Renzi
Secondo il rapporto Svimez, il Sud “è ormai a forte rischio di desertificazione industriale, con la conseguenza che l’assenza di risorse umane, imprenditoriali e finanziarie potrebbe impedire all’area meridionale di agganciare la possibile ripresa e trasformare la crisi ciclica in sottosviluppo permanente”.
Roberto Saviano, commentando la notizia, ha scritto una lettera, pubblicata dal quotidiano la Repubblica, in cui sollecita la politica, il Governo ed in particolare il presidente del Consiglio ad agire. Ecco alcune frasi: “Lei ha il dovere di intervenire e ancora prima ammettere che nulla è stato fatto. Ci sono tante persone che resistono: le ringrazi una ad una. Liberi gli imprenditori capaci da burocrazia e corruzione”. Ed ancora: “E’ un tristissimo paradosso. Dal Sud, caro primo ministro, ormai non scappa più soltanto chi cerca una speranza nell’emigrazione. Dal Sud stanno scappando perfino le mafie: che qui non ’investono’ ma depredano solo. Portando al Nord e soprattutto all’estero il loro sporco giro d’affari. Si, al Sud non scorre più nemmeno il denaro insanguinato che fino agli anni ’90 le mafie facevano circolare…”
Ieri Matteo Renzi, in vista della riunione della direzione del Pd del prossimo 7 agosto che dovrà affrontare la questione meridionale,aveva detto: “Sul Sud basta piagnistei: rimbocchiamoci le maniche. L’Italia, lo dicono i dati, è ripartita. E’ vero che il Sud cresce di meno e sicuramente il governo deve fare di più ma basta piangersi addosso”.
Oggi la replica di Roberto Saviano con un tweet: “Mi addolora che raccontare la tragica situazione del Sud Italia sia così facilmente definito ‘piagnisteo’”.
E’ evidente che il presidente del Consiglio ed i suoi ministri non comprendono appieno quanto sia grave la situazione di degrado e di sofferenza in cui si trova il Meridione. I dati dello Svimez sono inconfutabili e sono il risultato di decenni di precise scelte economiche e politiche. La crisi economica, la globalizzazione e soprattutto il cosiddetto ’federalismo fiscale’ hanno allargato le distanze tra le diverse aree del Paese. Il divario tra Nord e Sud dell’Italia anziché diminuire è cresciuto, e in alcuni settori è addirittura raddoppiato.
La denuncia di Roberto Saviano, quindi, non sorprende, essa scaturisce da un amore infinito che lo scrittore campano nutre verso la sua terra, quella che gli impedisce di vivere una vita normale e di certo non è ‘piagnisteo’ ma è la presa d’atto che il Sud è stato abbandonato a se stesso. Allora Matteo Renzi e il Pd, anziché accusare i meridionali di disfattismo, si diano da fare e diano risposte concrete.
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| Roberto Saviano e Matteo Renzi |
lunedì 3 agosto 2015
PartnerRe acquisita da Exor per 6,9 miliardi di euro
Exor, holding della famiglia Agnelli, ha acquistato PartnerRE, società operante nel settore delle riassicurazioni, per un controvalore di 6,9 miliardi di euro
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

John Elkann
Raggiunto l’accordo per l’acquisto da parte di Exor, holding della famiglia Agnelli, di PartnerRe, società operante nel settore delle riassicurazioni. L’operazione prevede l’acquisto di tutte le azioni di PartnerRe in circolazione al prezzo di 137,5 dollari per azione in contanti e un dividendo speciale di 3 dollari per azione, per un importo complessivo di 6,9 miliardi di euro.
John Elkann, presidente e A.d. di Exor ha dichiarato: “l’accordo firmato oggi è molto positivo per PartnerRe ed Exor. Grazie al nostro impegno di azionisti stabili, PartnerRe continuerà a svilupparsi come prima società di riassicurazione indipendente e globale”.
Il perfezionamento dell’accordo avverrà entro il primo trimestre del 2016, cioè subito dopo l’approvazione da parte degli azionisti di PartnerRe, aver ottenuto le autorizzazioni di legge e il verificarsi di tutte le altre condizioni necessarie per concludere l’operazione.
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| John Elkann |
sabato 1 agosto 2015
In Sardegna ed in Sicilia i tributi locali sono aumentati del 93,62%
Lo Stato taglia i trasferimenti ai Comuni che si rifanno aumentando le tasse ai contribuenti, ma il vero salasso è al Sud
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Tra il 2011 ed il 2014 i Comuni italiani hanno subito tagli nei trasferimenti statali per circa 8 miliardi di euro che essi hanno compensato con forti aumenti delle tasse sui servizi. A sostenerlo è la Corte dei Conti nella sua relazione sulla finanza locale.
“Per conservare l’equilibrio finanziario in risposta alle severe misure correttive dei governi” i Comuni anziché operare con più efficienza hanno scaricato sui cittadini i mancati trasferimenti aumentando notevolmente le imposte locali.
Insomma a pagare le inefficienze e gli sprechi della Pubblica amministrazione ed i presunti tagli agli Enti locali operati negli ultimi anni dai Governi nazionali sono stati i contribuenti.
Si legge nella relazione: “Il concorso degli Enti locali agli obiettivi di finanza pubblica pesa, in ultima istanza, sul contribuente in termini di aumento della pressione fiscale”. Ed ancora: ”Il cronico ritardo nella ricomposizione delle fonti di finanziamento della spesa, necessaria per garantire servizi pubblici efficienti ed economici, aggrava e rende permanente l’inefficienza delle gestioni nonostante l’incremento consistente delle entrate proprie (+15,63% rispetto al 2013) che fa crescere l’autonomia finanziaria oltre la soglia del 65% ed assorbe la diminuzione progressiva e costante dei trasferimenti (-27,29%).
La pressione fiscale è passata dai 505,5 euro del 2011 ai 618,4 euro pro capite del 2014. A pagare di più sono i cittadini dei Comuni con meno di duemila abitanti e quelli più grandi con oltre 250 mila abitanti.
La Corte dei Conti rileva, inoltre, che tra il 2012 ed il 2014 gli incassi da tributi hanno fatto registrare notevoli incrementi, con punte particolarmente elevate nelle Isole, dove il livello raggiunto nel 2014 risulta quasi doppio rispetto al 2011, con un aumento del 93,62%”. Le isole ed il Sud sono anche le aree dove maggiore è stata la riduzione dei trasferimenti, rispettivamente con un -49,5% e un -34,6%.
Tra il 2011 ed il 2014 i Comuni italiani hanno subito tagli nei trasferimenti statali per circa 8 miliardi di euro che essi hanno compensato con forti aumenti delle tasse sui servizi. A sostenerlo è la Corte dei Conti nella sua relazione sulla finanza locale.giovedì 30 luglio 2015
Svimez: il Sud fa peggio della Grecia
Tra il 2001 e il 2014 il Pil del Mezzogiorno è cresciuto la metà di quello della Grecia ed è concreto il rischio che al Sud la crisi ciclica si trasformi in sottoviluppo permanente
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Negli ultimi tredici anni il nostro Paese è stato quello che è cresciuto di meno tra quelli dell’area Euro a 18. Questo è quanto emerge dalle anticipazioni del rapporto Svimez sull’economia del Mezzogiorno 2015 presentato oggi a Roma.
Tra il 2001 ed il 2014 l’Italia è cresciuta del 20,6% rispetto ad una media degli altri paesi del 37,3%. Abbiamo fatto meno della Grecia che è cresciuta nello stesso periodo del 24%, ovviamente ciò è avvenuto per effetto dello sviluppo registrato negli anni precedenti alla crisi.
Nel Mezzogiorno il Pil è aumentato solo del 13% cioè metà di quello della Grecia ed oltre 40 punti in meno della media delle regioni dell’Europa a 28 (+53,6%).
Dall’inizio della crisi i consumi nel Meridione sono crollati del 13,2%, cioè il doppio che nel resto del Paese e gli investimenti del 38%, in particolare quelli industriali sono crollati del 59%.
Nel 2014 il divario del Pil pro capite tra Centro – Nord e Sud è tornato ai livelli dello secolo scorso, con una diminuzione del 63,9% rispetto al valore nazionale.
Il crollo degli investimenti e dei consumi sia pubblici che privati, oltre ad essere stati determinati della crisi economica e dai problemi derivanti dalla globalizzazione, sono la diretta conseguenza delle politiche economiche e dei tagli alla spesa pubblica, in particolare quella in conto capitale, decise negli ultimi 20 anni dai governi nazionali. Sono cioè anche il risultato delle cosiddette politiche federaliste che hanno impoverito le regioni del Sud e che, negli ultimi sette anni, hanno limitato le conseguenze della crisi nel Settentrione.
Non sorprende quindi se, secondo il rapporto Svimez, il Sud “è ormai a forte rischio di desertificazione industriale, con la conseguenza che l’assenza di risorse umane, imprenditoriali e finanziarie potrebbe impedire all’area meridionale di agganciare la possibile ripresa e trasformare la crisi ciclica in sottosviluppo permanente”.
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
lunedì 27 luglio 2015
Fmi: per l’Italia ed il Portogallo ci vorranno 20 anni per tornare ai livelli occupazionale precedenti alla crisi
Secondo il Fmi la ripresa si sta rafforzando ma per ridurre il tasso di disoccupazione ai livelli pre – crisi ci vorranno 10 anni alla Spagna e quasi 20 a Portogallo e Italia
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
“Senza una significativa accelerazione della crescita, ci vorranno 10 anni alla Spagna e quasi 20 a Portogallo e Italia per ridurre il tasso di disoccupazione ai livelli pre – crisi”. Lo afferma il Fmi nell’Article Iv per l’area euro.
La ripresa si sta rafforzando con il Pil che accelererà dall’1,5% del 2015 al più 1,7% nel 2016, ma resteranno delle vulnerabilità.
Il Quantitative easing della Bce sta funzionando: “Ha migliorato la fiducia, le condizioni finanziarie ed ha aumentato le aspettative di inflazione”, ma sarà necessario rafforzare la domanda interna soprattutto nei paesi con un alto surplus, pulire i bilanci delle banche ed accelerare nell’approvazione delle riforme strutturali per aumentare la produttività e la competitività delle imprese.
“In Italia sarà essenziale aumentare l’efficienza del settore pubblico e quella della giustizia civile ed adottare e attuare la prevista riforma della Pubblica amministrazione”.
Se la situazione dovesse peggiorare la Bce dovrà “considerare un ulteriore allentamento della politica monetaria con l’espansione del programma di acquisto di asset”. Occorrerà, inoltre, usare tutti gli strumenti disponibili per gestire i rischi di contagio che potrebbero scaturire da un default della Grecia, anche se l’esposizione diretta dei paesi dell’area euro è limitata.
“Senza una significativa accelerazione della crescita, ci vorranno 10 anni alla Spagna e quasi 20 a Portogallo e Italia per ridurre il tasso di disoccupazione ai livelli pre – crisi”. Lo afferma il Fmi nell’Article Iv per l’area euro.mercoledì 22 luglio 2015
Eurostat: il rapporto debito/Pil dell’Italia sale a 135,1%
Nel primo trimestre 2015 il debito pubblico italiano è salito a 2184 miliardi di euro, peggio di noi fa solo il Belgio
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)

Rapporto debito/Pil dell'Italia dal 1976 al 2012
Il debito pubblico italiano sale, nel primo trimestre 2015, al 135,1% del Pil, con un incremento del 3% rispetto agli ultimi tre mesi del 2014, a quota 2.184 miliardi di euro. Tra i paesi dell’Unione europea fa peggio solo il Belgio con un aumento del 4,5%.
La Grecia, che ha in assoluto il rapporto debito/Pil più alto con il 168,8%, ha visto un calo dell’8,5%. Il debito pubblico è cresciuto in tutta l’area euro e nell’Ue sia su base trimestrale che su base annuale. Nei ventotto paesi dell’Ue è aumentato del 1,3% attestandosi in media all’88,2% rispetto al trimestre precedente. Nei diciannove paesi dell’Eurozona è cresciuto dello 0,9% attestandosi in media al 92,9%.
Tra i paesi con il rapporto più alto oltre alla Grecia e all’Italia c’è anche il Portogallo con il 129,6%, mentre tra quelli che registrano un rapporto debito/Pil più basso ci sono l’Estonia con il 10,5% e il Lussemburgo con il 21,6%.
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| Rapporto debito/Pil dell'Italia dal 1976 al 2012 |
mercoledì 15 luglio 2015
I dati sulla povertà in Italia sono ‘da Terzo mondo’
Secondo l’Istat l’incidenza della povertà assoluta rimane stabile nel 2014, ma nel Mezzogiorno oltre una famiglia su quattro vive in condizioni di indigenza
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
“Se i poveri fossero aumentati sarebbe stato ben peggio, ma lo stabile, in questo caso, significa una cosa molto grave: che non c’è alcun miglioramento. I dati della povertà assoluta continuano, cioè, ad essere da Terzo mondo e non si sono fatti passi in avanti”. Questo è il commento fatto dal segretario dall’Unione dei consumatori, Massimiliano Dona, dopo la pubblicazione da parte dell’Istat dei dati sulla povertà in Italia.
Nel 2014 l’incidenza della povertà assoluta non aumenta ma rimane sostanzialmente stabile. L’Istituto nazionale di statistica rivela che ci sono un milione e 470 mila famiglie e 4 milioni e 102 mila persone che vivono in condizioni di povertà assoluta. La percentuale più alta è al Sud con l’8,6% mentre al Centro è il 4,8% e al Nord è del 4,2%.
La cifra della spesa mensile considerata dall’Istat necessaria per la sopravvivenza varia a secondo dell’area geografica e della composizione del nucleo familiare. Ad esempio un cittadino che vive da solo è considerato assolutamente povero se la sua capacità di spesa mensile è inferiore a 816,84 euro se vive in una città metropolitana del Nord, a 732,45 euro se risiede in un piccolo comune settentrionale e a 548,70 euro se il soggetto vive in un piccolo comune meridionale.
Anche l’indice di povertà relativa rimane stabile nel 2014. Le famiglie che si trovano in tali condizioni sono 2,5 milioni e le persone sono 7 milioni 815 mila. Sono considerati relativamente poveri ad esempio quei nuclei familiari composti da due persone che hanno una spesa mensile inferiore a 1041,91 euro.
La situazione rimane allarmante nelle regioni meridionali dove oltre una famiglia su quattro vive in condizioni di indigenza. La povertà relativa è al 26,9% in Calabria, al 25,5% in Basilicata e al 25,2% in Sicilia.
“Se i poveri fossero aumentati sarebbe stato ben peggio, ma lo stabile, in questo caso, significa una cosa molto grave: che non c’è alcun miglioramento. I dati della povertà assoluta continuano, cioè, ad essere da Terzo mondo e non si sono fatti passi in avanti”. Questo è il commento fatto dal segretario dall’Unione dei consumatori, Massimiliano Dona, dopo la pubblicazione da parte dell’Istat dei dati sulla povertà in Italia.venerdì 10 luglio 2015
Ghizzoni: “L’Italia è divisa in due e credo che la crisi abbia ampliato il divario tra Nord e Sud”
Federico Ghizzoni Amministratore delegato di Unicredit ha dichiarato che l’Italia è divisa in due e che attirare investimenti al Sud è fondamentale
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Il Ceo, Chief Executive Officer, cioè l’Amministratore delegato di Unicredit, Federico Ghizzoni, non vede per l’Italia un rischio contagio dall’eventuale mancato accordo fra la Grecia ed i suoi creditori.

Federico Ghizzoni
Ieri, nel corso di una conferenza stampa, ha dichiarato: ”Nel caso in cui venga raggiunto un accordo dovremmo tornare alla situazione di uno - due mesi fa. In caso contrario, comunque, non vediamo un rischio contagio, forse ci sarà un po’ di pressione sullo spread, sull’euro e sui tassi”.
Sulle condizioni dell’economia ha detto: “L’Italia è dietro ad altri Paesi come la Spagna, la Germania e la Francia, ma ci sono segnali di miglioramento costante. Vediamo un trend del Pil positivo anche nel 2016, più vicino all’1,5%”.
Il manager ha poi sottolineato: “L’Italia è divisa in due e credo che la crisi abbia ampliato il divario tra Nord e Sud”. Ed ha aggiunto:” Per il Mezzogiorno andrebbe portato avanti qualche politica specifica. Occorrono essenzialmente tre cose: sicurezza, ovvero Stato di diritto, infrastrutture mirate e un piano di agevolazioni fiscali. Occorre attirare investimenti al Sud, è fondamentale”.
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| Federico Ghizzoni |
venerdì 3 luglio 2015
La catena alimentare ed il pericolo di estinzione di animali e vegetali
Orsi, panda, aquile reali, conifere e cicadi sono in pericolo di estinzione se si interrompe la catena alimentare
di Giulio Ciccia
L'uomo, a causa della caccia, sta provocando l'estinzione di varie specie di animali.
Tra questi ci sono panda, aquile reali, orsi bruni e gorilla.
Orso marsicano

Conifera
Anche fra le specie vegetalici sono piante a rischio di scomparsa come conifere e cicadi che sono piante arboree molto antiche.
La catena alimentare dello stagno è molto importante per l'ecosistema. Ad esempio, se si estingue il falco, i rettili ucciderebbero tutte le rane, le cavallette si moltiplicherebbero e tutti i vegetali dello stagno morirebbero.
Anche un solo anello della catena alimentare è importante perché, se si indebolisce esso, l'equilibro viene spezzato.Quindi alcuni animali e vegetali sarebbero a rischio di estinzione.
Capite bambini, uomini, donne quanto sia importante anche un unico metamero nel legame tra animali e vegetali?
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| Orso marsicano |
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| Conifera |
Anche un solo anello della catena alimentare è importante perché, se si indebolisce esso, l'equilibro viene spezzato.Quindi alcuni animali e vegetali sarebbero a rischio di estinzione.
mercoledì 1 luglio 2015
Nel primo trimestre 2015 risparmiati 2,4 miliardi di euro
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| Andamento dei rendimenti dei Btp dal 2005 al 2014 |
La demagogia ed il populismo servono ad ottenere qualche voto in più ma nel medio - lungo periodo creano solo disuguaglianze e ingiustizie.
domenica 28 giugno 2015
Non hanno la valigia di cartone ma a dover emigrare sono sempre i giovani del Sud
I nuovi migranti sono giovani laureati o diplomati ma provengono sempre dal Sud dell’Italia
Negli anni Sessanta e Settanta ad emigrare furono soprattutto i contadini ed i giovani del Sud. Per fuggire dalla miseria milioni di meridionali, nella maggior parte dei casi semianalfabeti, si trasferirono dalla campagna nelle città del Nord Italia, nel cosiddetto triangolo industriale: Milano, Torino e Genova. Il boom economico di quegli anni fu opera innanzitutto di quella generazione di lavoratori fatta di povera gente che scappava da una condizione di bisogno e di privazioni. Trattati come ‘terroni’, costretti a vivere in strutture fatiscenti, abituati al sacrificio ed al duro lavoro, seppero adattarsi e con gli anni integrarsi in una realtà sociale completamente diversa da quella da cui erano partiti.
Oggi i nuovi migranti sono giovani laureati o diplomati ma sempre provenienti del Sud dell’Italia. Secondo il Rapporto Giovani 2015 elaborato dall’Istituto Giuseppe Toniolo su un campione di 5000 giovani tra i diciannove ed i trentadue anni si tratta di una vera e propria fuga di ‘cervelli’. L’84% di giovani meridionali intervistati sono disposti a trasferirsi pur di trovare un’occupazione stabile e circa il 50% di essi è pronto ad andare all’estero pur di migliorare la propria condizione di lavoro.
Le motivazioni non sono solo occupazionali, quello che spinge tanti giovani ad emigrare è anche la scarsa fiducia nelle istituzioni e nella classe dirigente meridionale. Solo il 16% di essi non è disponibile a trasferirsi, si tratta dei cosiddetti Neet cioè giovani che non studiano e non lavorano.
Il nuovo flusso migratorio tende quindi ad impoverire il Mezzogiorno non solo nell’aspetto quantitativo ma anche in quello qualitativo. Vanno via i più istruiti e con maggiori ambizioni e rimangono quelli demotivati che, in attesa di un’occupazione, vivono di sussidi o in famiglia con la misera pensione dei genitori o dei nonni. Il tutto nell’indifferenza delle istituzioni ma anche questa non è una novità.
Negli anni Sessanta e Settanta ad emigrare furono soprattutto i contadini ed i giovani del Sud. Per fuggire dalla miseria milioni di meridionali, nella maggior parte dei casi semianalfabeti, si trasferirono dalla campagna nelle città del Nord Italia, nel cosiddetto triangolo industriale: Milano, Torino e Genova. Il boom economico di quegli anni fu opera innanzitutto di quella generazione di lavoratori fatta di povera gente che scappava da una condizione di bisogno e di privazioni. Trattati come ‘terroni’, costretti a vivere in strutture fatiscenti, abituati al sacrificio ed al duro lavoro, seppero adattarsi e con gli anni integrarsi in una realtà sociale completamente diversa da quella da cui erano partiti.
Oggi i nuovi migranti sono giovani laureati o diplomati ma sempre provenienti del Sud dell’Italia. Secondo il Rapporto Giovani 2015 elaborato dall’Istituto Giuseppe Toniolo su un campione di 5000 giovani tra i diciannove ed i trentadue anni si tratta di una vera e propria fuga di ‘cervelli’. L’84% di giovani meridionali intervistati sono disposti a trasferirsi pur di trovare un’occupazione stabile e circa il 50% di essi è pronto ad andare all’estero pur di migliorare la propria condizione di lavoro.
Le motivazioni non sono solo occupazionali, quello che spinge tanti giovani ad emigrare è anche la scarsa fiducia nelle istituzioni e nella classe dirigente meridionale. Solo il 16% di essi non è disponibile a trasferirsi, si tratta dei cosiddetti Neet cioè giovani che non studiano e non lavorano.
Il nuovo flusso migratorio tende quindi ad impoverire il Mezzogiorno non solo nell’aspetto quantitativo ma anche in quello qualitativo. Vanno via i più istruiti e con maggiori ambizioni e rimangono quelli demotivati che, in attesa di un’occupazione, vivono di sussidi o in famiglia con la misera pensione dei genitori o dei nonni. Il tutto nell’indifferenza delle istituzioni ma anche questa non è una novità.





























































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