Salari reali, Italia ultima del G20
Giorgia Meloni e il Fiscal drag
Al Nord buste paga più alte del 50%
Stellantis: arrivano le prime lettere di licenziamento
Quasi a 3.000 miliardi di debito pubblico, ma per il governo Meloni va tutto bene
La vita è breve e le parole non servono
‘Paperoni’ italiani sempre più ricchi
Istat, 1,7 milioni di Neet
Castelbuono, presidio dei lavoratori alla Toto costruzioni
‘Lu saziu nun criri a lu diunu’
Salgono le accise, scende lo spread
Si continua a morire di e per il lavoro, ma quando finirà questa mattanza?
Il mercato del lavoro in Italia ‘è profondamente diseguale’
Istat: ‘Famiglie sicuramente povere soprattutto nel Mezzogiorno’
Nel 2022 sarà spesa pubblica record
E da Napoli in giù?
Al Sud uno sviluppo equo e sostenibile è possibile, ma occorre volerlo
Il Sud ed il PNRR
Covid-19: persi 378 mila posti di lavoro autonomo
Whirpool: è la logica dell’accumulazione del capitale
La riduzione dell’orario di lavoro non è più un tabù
Elica delocalizza, la storia si ripete ancora una volta
Continua l’odissea degli operai ex Fiat di Termini Imerese
A giugno agli operai dell'ex stabilimento Fiat scadrà la cassa integrazione ed i sindacati sono preoccupati sul silenzio delle istituzione sulla questione Blutec di Termini Imerese
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
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Operai ex Fiat davanti ai cancelli dello stabilimento Blutec di Termini Imerese (Pa) |
Circa trecento operai si sono riuniti in assemblea davanti ai cancelli della fabbrica Blutec di Termini Imerese. ‘Rimarremo qui fino a quando il ministero dello Sviluppo non ci convocherà’, ha detto Roberto Mastrosimone della Fiom.
Intanto è iniziato il processo per il presunto utilizzo indebito di fondi statali ottenuti per la trasformazione dello stabilimento ex Fiat. La Regione Sicilia, la Fiom nazionale e regionale, Blutec, Metec e Invitalia hanno presentato richiesta per costituirsi parte civile. L’accusa è la distrazione di 16 milioni di euro di finanziamenti pubblici ottenuti per il rilancio della fabbrica.
Per i lavoratori è un’odissea che dura da oltre dieci anni.
La vicenda ha avuto inizio nel 2010 quando il nuovo amministratore delegato della Fiat, Sergio Marchionne, annunciò la chiusura della fabbrica. La dismissione si concretizzerà il 31 dicembre del 2011. Circa 800 operai ed oltre 1.000 addetti dell’indotto rimasero senza lavoro. Il tentativo di accordo per il salvataggio dello stabilimento con il gruppo Dr Motor Company attiva nella costruzione di auto elettriche fallì e dal 2015 la fabbrica è passata alla NewCo Blutec. La società si impegnò a riassumere 50 operai entro il mese di aprile del 2016 ed altri 200 entro la fine di quell’anno. Ma ad oggi il processo di rinascita della fabbrica e del polo industriale di Termine Imerese non si è realizzato.
Gli operai dell’ex stabilimento Fiat non vogliono assistenza, ma lavoro. La rinascita del polo industriale di Termini Imerese è fondamentale per lo sviluppo di tutta l’area. Non è un problema di infrastrutture. A Termini c’è il porto, l’autostrada e la ferrovia. È solo una questione di volontà politica.
Finora nulla di concreto è stato realizzato o prospettato. Al Sud lo Stato non investe, le aziende private delocalizzano, le infrastrutture sono fatiscenti e le opportunità di iniziare un'attività economica sono pochissime.
In questa situazione di degrado e di sottosviluppo ai meridionali non resta che emigrare o continuare a vivere di assistenza.
Fonte: REDNEWS
Istat: oltre 12 milioni di italiani sono a rischio povertà o esclusione sociale
Il Rapporto Istat 2019 sulle condizioni di vita, reddito e carico fiscale delle famiglie italiane conferma le disuguaglianze e le percentuali di rischio di cadere in miseria per oltre il 20% degli italiani. Ma non avevamo abolito la povertà?
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
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Foto da istat.it |
Il 28 settembre del 2018 l’allora ministro dello Sviluppo economico e vicepremier Luigi Di Maio annunciò dal balcone di Palazzo Chigi l’abolizione della povertà. I dati pubblicati dall’Istat confermano invece che questa condizione è rimasta immutata per milioni di italiani e che tanti altri rischiano di caderci. Il numero di individui a rischio di povertà o esclusione sociale è rimasto stabile. Nel 2019 erano circa 12 milioni e 60 mila individui, cioè il 20,1% del totale della popolazione italiana. A sostenerlo è il Rapporto Istat sulle condizioni di vita, reddito e carico fiscale delle famiglie del 2019. Si tratta di persone che vivono con un reddito mensile di circa 858 euro, mentre il 7,4% si trovava in una ‘grave deprivazione materiale’.
La media nazionale rimane molto elevata, anche se è passata dal 27,3% del 2018 al 25,6% dello scorso anno. La percentuale più alta è stata registrata nel Mezzogiorno, dove le persone a rischio di povertà ed esclusione sociale sono passate dal 45% del 2018 al 42,25 del 2019. Mentre, il rischio di cadere in povertà è rimasto invariato o quasi, è passato cioè dal 34,4% al 34,7%.
La disuguaglianza tra i ceti sociali rimane stabile. Il reddito delle famiglie più povere resta sei volte inferiore rispetto a quello delle famiglie più abbienti. È cresciuto, sia pur di poco, il reddito da lavoro dipendente, mentre è diminuito quello da lavoro autonomo. Il reddito netto medio delle famiglie (31.641 euro annui) è aumentato in valore nominale, ma si è ridotto in termini reali (-0,4%).
Nel Meridione esso è stato di 29.876 euro (la media nazionale è stata di 36.416 euro), mentre nel Nord-est è stato di 40.355 euro, cioè il 25,96% in più rispetto al Sud del Paese.
Nel Mezzogiorno ‘la disuguaglianza reddituale è più accentuata’. Il 20% più ricco della popolazione aveva un reddito 5,8 volte superiore a quello della fascia più povera, mentre il rapporto più basso (3,9) è stato registrato nel Nord-est.
Fonte istat.it
CGIA di Mestre: ‘Il Pil del Sud torna indietro al 1989’
Whirpool, prendi i soldi e scappa
Lavorare meno, lavorare tutti
Perché non mettiamo una patrimoniale ai 400 mila milionari italiani?
L’Italia è il nono Paese al mondo per ricchezza finanziaria. A sostenerlo è la ventesima edizione del report di Boston Consulting Group
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Negli ultimi vent’anni si è verificato il rialzo del mercato finanziario più alto della storia. La ricchezza globale è passata dagli 80 mila miliardi di dollari del 1999 ai 226 mila miliardi di dollari di fine 2019. Nell’ultimo anno la crescita è stata del 9,6%. A sostenerlo è il ventesimo report di Boston Consulting Group intitolato Global Wealth 2020: The Future of Wealth Management – A CEO Agenda’.
Nel nostro Paese la ricchezza finanziaria era, nel 2019, di 5,3 miliardi di dollari. Si conferma, quindi, come essa sia, per i nostri connazionali, un asset strategico fondamentale. Secondo Bcg 400 mila italiani posseggono un patrimonio di almeno un milione di dollari. Si tratta dell’1% della popolazione italiana. Tra questi, 1.700 posseggono un patrimonio finanziario di oltre 100 milioni di dollari.
L’Italia è un Paese contraddittorio. Abbiamo il debito pubblico e la ricchezza personale tra le più alte al mondo. Eppure, elemosiniamo i bonus e gli ammortizzatori sociali anche quando non ne abbiamo bisogno. Eludiamo o, peggio, evadiamo le imposte e ci lamentiamo di quella burocrazia che non è capace di farci pagare il dovuto. Vogliamo tutto e subito, ma non vogliamo pagare dazio.
Non chiediamo il Mes, siamo contrari alle intromissioni dell’Unione europea sulle nostre politiche di bilancio, non vogliamo patrimoniali, ma auspichiamo il Recovery fund, cioè finanziamenti a fondo perduto.
Intanto, il debito pubblico cresce e prima o poi ne pagheremo le conseguenze, ma a farlo saranno i soliti noti, cioè gli altri, sempre gli altri. Ed è assai probabile che tra loro non ci saranno i 400 mila milionari sanciti da Bcg.
Qualcuno lo avrà già ipotizzato e detto, ma perchè non mettiamo una patrimoniale su questi milionari? Certo, questo provvedimento non risolverebbe il problema del debito pubblico, ma almeno limiterebbe la crescita delle ingiustizie e delle disuguaglianze.
Fonte image-src.bcg.com
Siamo il Paese dei condoni fiscali, altro che flat tax
L’introduzione
della flat tax, prevista dal ‘contratto di governo’ stipulato tra la Lega e il
M5s, presuppone la cosiddetta pace fiscale che altro non è che l’ennesimo
condono tributario
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
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Foto da cgiamestre.com |
Negli
ultimi 45 anni tra condoni, scudi, sanatorie e concordati fiscali, l’Erario ha
incassato 131,8 miliardi di euro,
a sostenerlo è l’Ufficio studi della Cgia di Mestre. I provvedimenti più
importanti sono stati la sanatoria fiscale del 2003 (governo Berlusconi) che ha
fruttato allo Stato un incasso di 34,1 miliardi di euro e quello valutario del
1973 (governo Rumor) che ha preceduto l’introduzione dell’Irpef ed ha fatto
incassare al fisco 31,6 miliardi di euro. Poi ci sono state tra il 1982 ed il
1988 (governi di pentapartito) le sanatorie che hanno consentito entrate
straordinarie per 18,4 miliardi di euro, mentre l’emersione di capitale
dall’estero (misura adottata tra il 2015 e
il 2017), ha consentito un gettito di 5,2 miliardi di euro.
Nonostante
queste ripetute ‘agevolazioni’ nel 2015 l’imponibile sottratto al fisco è stato
di 207,5 miliardi di euro ed ha prodotto circa 114 miliardi di euro di evasione
fiscale. In media
l’infedeltà tributaria è del 16,3%. Nel Mezzogiorno si evade il 22,2%, mentre
nel Nord-est il 13,4%, nel Nord-ovest il 14,1% e nel Centro il 16,5%. Occorre
precisare che questo dato del Sud non è dovuto solo alla scarsa fedeltà fiscale
dei meridionali, ma è anche e soprattutto l’ennesima dimostrazione delle
difficoltà economiche e sociali in cui vive gran parte della popolazione
italiana.
‘Premesso che l’applicazione
di qualsiasi condono fiscale è, a nostro avviso, immorale ed eticamente
inaccettabile – sottolinea il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia Paolo
Zabeo – ha senso introdurlo solo quando è prevista una riforma che riscrive
completamente il rapporto tra il fisco e il contribuente. Se, come pare di capire, il nuovo Governo è intenzionato ad avviare in
tempi relativamente brevi la dual tax, l’introduzione della cosiddetta pace
fiscale sarebbe giustificata, perché consentirebbe di azzerare una volta per
tutte i contenziosi fiscali attualmente sul tavolo dei giudici tributari’.
‘Per semplificare i
rapporti con il fisco e ridurre le possibilità di evasione– sostiene il
Segretario della Cgia Renato Mason – occorre abbassare le tasse e ridurre il
numero di adempimenti fiscali che, invece, rischiano di aumentare ancora. Non
dobbiamo dimenticare che i più
penalizzati da questa situazione sono le piccole e micro aziende che, a
differenza delle realtà più grandi, non dispongono di una struttura
amministrativa in grado di farsi carico autonomamente di tutte queste
incombenze’.
Insomma, i contribuenti
infedeli, soprattutto quelli che hanno adeguati mezzi finanziari e legali, sono
avvantaggiati da un Erario che è incapace a far pagare le tasse e che per
giunta è costretto, periodicamente, ad azzerare tutto, a danno della
maggioranza dei contribuenti che invece sono fedeli ed onesti.
Fonte: Cgia di Mestre
'La botte piena e la moglie ubriaca'
Solo
il 5% del nostro debito pubblico è detenuto dai risparmiatori italiani, ma, poi, pretendiamo
che siano gli altri a fidarsi di noi
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
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Grafico rendimento Btp dal 2004 - (foto da websim.it) |
Il 4 marzo scorso gli
elettori hanno penalizzato le élite politiche ed istituzionali che hanno
governato il Paese negli ultimi tre decenni. E’ stata una vera e propria 'rivolta'
di quanti sono stati esclusi dai processi di modernizzazione e globalizzazione
dell’economia. La sfiducia è arrivata a
tal punto che gli elettori hanno abbandonato le forze politiche tradizionali
per affidarsi a due formazioni populiste, vale a dire due movimenti che si
dichiarano antisistema. In particolare esse accusano le istituzioni europee
perché impedirebbero l’adozione di politiche espansive, cioè a dire continuare a fare
spesa pubblica in ‘deficit spending’, che, detto in italiano, significa fare altro
debito pubblico.
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Andamento del rapporto debito/Pil dal 1861 |
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Secondo
gli ultimi dati esso ammonta ad oltre 2.300 miliardi di euro, oltre il 131% del
Prodotto interno lordo. Oggi, ogni cittadino italiano, neonati compresi, è debitore di circa 37
mila euro. Se
guardiamo la curva del debito pubblico in rapporto al Pil dal 1945 ad oggi
possiamo notare come la crescita più rilevante sia avvenuta tra il 1985 ed il
1992 (governo di pentapartito, con Bettino Craxi presidente del Consiglio) e
tra il 2008 e il 2011 (governo di Silvio Berlusconi). Occorre precisare che, in
termini assoluti, esso è sempre cresciuto. Le
responsabilità sullo sperpero, quindi, sono diffuse e non sono solo dei
politici. E’, innanzitutto, un fatto culturale che riguarda tutti gli
italiani. Manchiamo, cioè, di senso di responsabilità e spesso pretendiamo senza averne
diritto.
I
nostri creditori, che, per inciso, ogni anno incassano circa ottanta miliardi
di euro d’interessi, circa il 4% del debito, sono soprattutto istituti bancari
stranieri. Un terzo del debito pubblico (circa 770 miliardi di euro) è in mano a banche e investitori
italiani, un altro terzo è in mano a banche e investitori stranieri, circa 340
miliardi di euro (il 15%) è nelle casse della Bce di Mario Draghi (Quantitative Easing) e solo il 5% (circa 120 miliardi di
euro) è in mano ai risparmiatori italiani.
Questo significa che i primi a non avere fiducia nelle nostre istituzioni
politiche e finanziarie siamo noi italiani, ma nonostante ciò pretendiamo che
siano gli altri a fidarsi di noi. Se non fosse un fatto così drammatico ci
sarebbe da ridere, ma purtroppo non è così. Vogliamo ‘la botte piena e la moglie ubriaca’. Ed è proprio per
questo che ci danno fastidio le regole delle comunità internazionali e che, di
conseguenza, gli ‘altri’ continuino a guardarci con una certa diffidenza, ma
come dargli torto.
Fonte: Ministero dell'Economia e delle Finanze
Istat: l’occupazione torna ai livelli pre-crisi ma non per il Sud
Siamo tutti debitori ‘inconsapevoli’
sabato 17 marzo 2018
Il 30% più ricco detiene circa il 75% del patrimonio netto
Il 30% delle persone residenti in Italia è a rischio povertà o esclusione sociale
Il rischio di cadere in povertà è triplo al Sud rispetto al resto del Paese ed in Sicilia e Campania sfiora il 40%.
Il tasso di occupazione nel Mezzogiorno rimane il più basso d’Europa
Al Nord si pagano più tasse, ma ad essere povero è il Sud dove è cresciuta anche la pressione tributaria
CGIA: 'Negli ultimi otto anni è crollato il numero delle imprese artigiane'
Il Sismabonus non è accessibile a tutti, ecco un esempio concreto
Bonus fino all’85% della spesa sostenuta per l’adeguamento antisismico, ma finora sono in pochi ad averlo richiesto
Con l’affaire Neymar i ‘Signori del calcio’ faranno un mucchio di soldi
Cresce il Pil, ma il debito pubblico non scende e la disoccupazione è a livelli inaccettabili
L’1% delle famiglie possiede il 45% della ricchezza globale
Nel Mezzogiorno una persona su due è a rischio povertà
Dal
2008 al 2015 oltre 500mila italiani si sono trasferiti all’estero, a sostenerlo
è il rapporto: ‘Il lavoro dove c’è’, realizzato dall’Osservatorio Statistico
dei Consulenti del Lavoro
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
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Foto da corriereUniv.it |
I
lavoratori italiani che, dall’inizio della crisi economica, hanno deciso di
emigrare si sono trasferiti soprattutto in Germania, Regno Unito e Francia. Nello stesso periodo circa 300mila stranieri
residenti in Italia, non trovando lavoro, hanno deciso ritornare nei loro
paesi, in particolare il fenomeno riguarda gli immigrati provenienti dalla
Romania.
Il
flusso migratorio è diverso a seconda della zona geografica ed è un fenomeno che si sta verificando
anche all’interno del territorio nazionale. Dal 2008 al 2015 oltre 380mila
meridionali si sono trasferiti in una regione del Centro o del Nord Italia. Si
tratta nella maggior parte dei casi di lavoratori qualificati. E’ bene
ricordare che in questa indagine non sono inclusi i docenti, soprattutto
meridionali, assunti nel 2015 ed in molti, trasferiti al settentrione con la mobilità
predisposta dal ministero della Pubblica Istruzione nell’agosto del 2016.
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Logo Rapporto - (foto da consulentidellavoro.it) |
Inoltre,
più di un occupato su dieci lavora in una provincia diversa da quella di
residenza. Questa condizione incide
molto sullo ‘stipendio, la soddisfazione dei lavoratori e la qualità della vita’.
Dal rapporto emerge che Milano ‘per le brevi distanze, le occasioni di lavoro e
i servizi di trasporto è l’epicentro degli spostamenti interprovinciali in
Italia’.
Il
fenomeno dei flussi è la diretta conseguenza dei livelli occupazionali che, come hanno rilevato diverse indagini
statistiche, sono molto diversi tra le province del Nord e del Sud del Paese.
Se, ad esempio, il tasso di occupazione nella provincia di Reggio Calabria è
del 37%, in quella di Bolzano è del 72%.
Insomma, molti
italiani emigrano all’estero, ma a farlo sono soprattutto i
lavoratori meridionali, e questa non è una novità.
I più ricchi esercitano a Milano
I
lavoratori autonomi con il reddito medio più alto svolgono la loro attività
professionale nel Nord Italia, a sostenerlo è un'indagine condotta dall'Ufficio
studi della Cgia di Mestre
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
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(forto da cgiamestre.com) |
Rispetto al 2013 il
reddito medio è aumentato di 2.600 euro. L'incremento più alto ha riguardato
soprattutto i liberi professionisti della Lombardia (3.577 euro). Secondo lo studio i lavoratori autonomi con il reddito medio
più alto esercitano nel Nord Italia, in particolare a Milano (38.140 euro).
Nella graduatoria seguono i liberi professionisti di Bolzano (con 35.294 euro), di
Lecco (con 33.897 euro) di Bologna (con 33.584 euro), di Como (con 32.294 euro)
e di Monza (32.897 euro).
La
prima città meridionale è Bari che si trova al 64esimo posto della graduatoria con una media di
22.752 euro, seguita da Palermo con 22.684 euro, vale a dire oltre un terzo in
meno rispetto alle città del Nord Italia. In
fondo alla classifica ci sono i lavoratori autonomi della Calabria con un
reddito medio due volte e mezzo in meno rispetto ai loro colleghi del capoluogo
lombardo. In particolare i professionisti di Vibo Valentia hanno dichiarato 15.479
euro, di Crotone 15.645 euro e di Cosenza 16.318 euro.
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(foto da today.it) |
'Sebbene i dati
riferiti al reddito medio siano abbastanza positivi - dichiara il coordinatore
dell'Ufficio studi Paolo Zabeo - non dobbiamo dimenticare che la crisi ha fortemente polarizzato il mondo
degli autonomi, condizionando questi risultati'. Ed ancora: 'Questa situazione, inoltre, ha divaricato
la disparità territoriale: in particolare modo tra il Nord ed il Sud del Paese'.
I dati della Cgia
dimostrano ancora una volta come l'Italia sia divisa in due: da un lato ci sono
il Centro ed il Nord 'ricchi', dall'altro un Sud 'povero' ed abbandonato a se
stesso. Anziché occuparsi di legge elettorale, riforme costituzionali, child adption,
ecc., la classe dirigente nazionale dovrebbe preoccuparsi di chi non ha
lavoro o ne ha uno precario, di chi non arriva a fine mese, di chi non riesce
ad accedere al Servizio sanitario nazionale, di chi vive in condizioni di
povertà assoluta o di disagio sociale. Ma forse non interessa perché questi
problemi sono soprattutto al Sud. 'Cristo
si è fermato ad Eboli' scriveva Carlo Levi nel 1945, e, purtroppo, è ancora
così. E nessuno si illuda, questa condizione di sottosviluppo continuerà ancora,
almeno fino a quando i meridionali non si 'adopereranno' per emanciparsi dalla
condizione di sudditanza morale e culturale in cui vivono da sempre.
L’insopportabile demagogia della Corte dei Conti sul cuneo fiscale
Vibo Valentia, tasso di occupazione al 35,8%, mentre a Bolzano è al 71,4%
6,5 milioni d’italiani ‘sognano’ un lavoro, ma intanto Almaviva licenzia 1.666 dipendenti
Istat: nel 2015 sono aumentate la povertà e la distanza reddituale tra ricchi e poveri
In Italia 4,6 milioni di poveri, al Sud gli italiani indigenti superano gli stranieri
Non ci può essere crescita economica senza ridurre le disuguaglianze
Pil: il Sud cresce la metà del Nord
Assegno di ricollocazione fino a 5000 euro, a novembre parte la sperimentazione
Inps: nei primi sette mesi del 2016 calano le assunzioni stabili
Un dipendente deve lavorare 1.227 anni per eguagliare i compensi annuali del top manager
Rai: stipendi d’oro per non fare nulla
Istat: ‘Il Pil del Sud Italia torna a crescere dopo 7 anni di cali consecutivi’
‘Tax day’ per 25 milioni di italiani, ma ad essere penalizzati sono soprattutto i disoccupati, i pensionati al minimo ed i piccoli imprenditori
Ignazio Visco: ‘Per sostenere la ripresa sono necessari gli investimenti pubblici ed il taglio del cuneo fiscale’
La PA del Sud Italia è tra le più inefficienti d’Europa
Almaviva licenzia, ma a pagare è sempre il Sud
Almaviva delocalizza in Romania e mette in mobilità i suoi dipendenti in Italia, ma, come hanno già fatto la Fiat nel 2011 e l’Eni nel 2015, ad essere licenziati sono soprattutto i lavoratori meridionali
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
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Foto rassegna.it |
La crisi occupazionale in Sicilia sembra non avere fine. Almaviva, azienda che opera nel settore dei servizi, ha inviato 2988 lettere di licenziamento, di queste 1670 sono dirette ai lavoratori del call center di Palermo, 918 a quelli di Roma e 400 a quelli di Napoli.
La motivazione addotta dalla multinazionale è economica. I ribassi praticati da altre imprese del settore avrebbero fatto calare i profitti dei due centri del Sud Italia. Secondo l’azienda il 'margine diretto di contribuzione' minimo (vale a dire i ricavi superiori ai costi del lavoro) dovrebbe essere del 21%, mentre a Palermo è del 9,65%. L’inefficienza sarebbe l’effetto delle aste al ribasso e della mancanza di regole certe nel settore dell'outsourcing.
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Foto sudpress.it |
Almaviva è l'ultima multinazionale che per ragioni di ‘profitto’ delocalizza. Sono le conseguenze della globalizzazione, ma anche delle politiche economiche attuate negli ultimi decenni nel nostro Paese. La Fiat ha chiuso lo stabilimento a Termini Imerese, l'Eni quello di Gela, Almaviva il call center a Palermo e decine di piccole e medie imprese artigianali e commerciali, spesso a conduzione familiare, vessate da tasse ed imposizioni locali (Imu e Tasi), stanno ristrutturando o chiudendo l'attività produttiva lasciando senza occupazione decine di migliaia di lavoratori, ma tutto questo non basta per porre al centro dell'attenzione politica nazionale la'Questione meridionale'.
Il Sud è stato abbandonato a se stesso e con esso i lavoratori meridionali.I politici e gli imprenditori italiani dovrebbero ricordare che senza la ripresa dell’economia del Mezzogiorno non potrà esserci sviluppo e soprattutto, come scriveva John Lennon nel 1969, il ‘Lavoro è vita e senza quello esiste solo paura e insicurezza’. Ed è questa la difficile situazione in cui si trovano, oggi, i disoccupati in Sicilia e nel Sud Italia.
'Agromafie' diffuse da Sud a Nord
Nel
2015 il giro d’affari delle ‘Agromafie’ ha superato i 16 miliardi di euro. Questo
è quanto emerge dal quarto Rapporto sui crimini agroalimentari elaborato da
Eurispes, Coldiretti e Osservatorio sulla criminalità nell’agricoltura e sul
sistema agroalimentare
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
L’indagine
ha preso in considerazione
la diffusione e l’intensità del fenomeno delinquenziale, le conseguenze degli
eventi denunciati ed i fattori economici e sociali. I reati più frequenti rilevati
dal Rapporto sono l’usura, il racket, i furti di attrezzature e macchinari
agricoli, le macellazioni clandestine ed i danneggiamenti alle colture.
A
livello territoriale il
controllo criminale del territorio è praticamente totale in Calabria, in
Sicilia ed in misura minore in Campania, ma dall’indagine emerge che esso è
‘forte e stabile’ anche in Abruzzo ed in Umbria, nel Grossetano e nel Lazio ed
è presente anche al Nord, in particolare in Piemonte, nell’Alto lombardo, nella
provincia di Venezia e nelle province lungo la Via Emilia.
L’obiettivo
dei clan è di imporre
la vendita di determinate marche o prodotti agli esercizi commerciali e,
in
alcuni casi, indebitarli al punto da costringerli al fallimento per
acquisirne, successivamente, la proprietà. In tal modo essi realizzano
ingenti guadagni, impediscono la concorrenza e strozzano la libera
imprenditoria.
Inoltre, le infiltrazioni malavitose compromettono la qualità dei
prodotti, provocano
l’aumento dei prezzi fino a quattro volte quelli di mercato ed intaccano
l’immagine dei Made in Italy.
L’unico
aspetto positivo del fenomeno
è che, a differenza di quanto avviene all’estero, le informazioni sulle ‘Agromafie’
sono continue e numerose, perché nel nostro Paese esiste un sistema di
controlli severissimo. Ed è per questo che, nonostante la diffusione, da Sud a
Nord, della criminalità organizzata, i nostri cibi sono sani ed i più sicuri al
mondo.
Inps: nel 2015 sono stati creati 606.000 nuovi posti di lavoro
Lo
scorso anno il saldo tra assunzioni e licenziamenti è stato positivo per
606mila unità, a sostenerlo è il rapporto pubblicato dall’Osservatorio sul
precariato dell’Inps
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Nel 2015 il numero
complessivo di assunzioni nel settore privato è stato di 5.408.804, in crescita
dell’11% sul 2014 e del 15% sul 2013. Le nuove attivazioni sono state oltre 2,4 milioni, quelle che
beneficiano dell’esonero contributivo sono state 1,4 milioni, cioè il 61% del totale
e sono il doppio rispetto al 2014.
A
livello territoriale
gli incrementi più significativi sono stati nel Nord del paese con un incremento
delle assunzioni a tempo indeterminato del 13,2%, mentre nel Centro sono
cresciute del 12,3%, al Sud del 7,7% e nelle Isole del 4,0%.
L’aumento
è stato determinato principalmente dai contratti a tempo indeterminato, cresciuti di 764mila unità
rispetto al 2014, con un incremento del 47%. Stabili, invece, i contratti
a tempo determinato, mentre le assunzioni in apprendistato sono diminuite del 20%.
I
contratti a tutele crescenti introdotti con il Jobs act hanno
beneficiato degli sgravi contributivi di 8.060 euro annui previsti nella
Legge di stabilità. Al loro aumento hanno concorso,
infatti, sia le nuove assunzioni che le trasformazioni di contratti già
preesistenti (+50% per i contratti a tempo determinato e +23% per quelli in
apprendistato). Diminuite invece di 158mila unità le altre tipologie di
contratti (tempo determinato, intermittente, apprendistato e somministrazione).
Soddisfazione per i
dati pubblicati dall'Inps ha espresso il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che ha twittato: ‘+764mila
contratti stabili nel primo anno di #jobsact. Amici gufi, siete ancora sicuri
che non funzioni?’.
Il Mezzogiorno ha perso 575mila posti di lavoro
‘Il
problema dell’occupazione è tutto a carico del Sud’, a sostenerlo, nel
corso di un convegno organizzato dal Centro Studi Pio La Torre, è il
direttore di Svimez,
Riccardo Padovani
di Giovanni Pulvino (@Pulvino Giovanni)
“Dal 2008 al 2014 il Pil della
Sicilia ha perso oltre 13 punti percentuali, contro il Centro-Nord che nello stesso periodo ne ha
persi 7,4. Se poi si considera il periodo più ampio che va dal 2001 al 2014, il
Mezzogiorno ha subito un calo del 9,4, con la Sicilia in testa alla classifica
che ha perso ben 9 punti, mentre il Pil del Centro-Nord è cresciuto dell’1,5%”.
A dirlo, durante il convegno su ‘Le leggi di stabilità per il Sud e la Sicilia’
organizzato dall’associazione Pio La Torre, è il direttore di Svimez, Riccardo
Padovani, che ha aggiunto: ”Il problema
dell’occupazione, poi, è tutto a carico del Sud, perché su oltre 811mila
posti di lavoro persi in Italia dal 2008 al 2014, il Meridione ha registrato
575mila occupati in meno, mentre il Centro-Nord si è fermato a 80mila posti in
meno, con un impatto negativo sette volte maggiore nel Meridione, e questo richiede una politica strategica. Nel 2015
il tasso di disoccupazione al Centro- Nord è stato dell’8,9%, mentre nel
Mezzogiorno è più del doppio, supera, cioè, il 20%. Inoltre, il Pil nazionale
nel 2015 è cresciuto dello 0,8% al Centro-Nord, mentre al Sud si è fermato allo
0,1%. Se guardiamo agli investimenti fissi lordi, nel Mezzogiorno sono
addirittura diminuiti dell’1%, mentre nel resto d’Italia sono aumentati dell’1,5%”.
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Pio La Torre |
“Serve una strategia complessiva – conclude Padovani - le piccole misure non possono bastare. Un elemento fondamentale è aver ottenuto dall’Unione
europea la possibilità di sforamento della clausola di salvaguardia del 3 per
cento, che sblocca 5 miliardi di cofinanziamento che, sommati ai fondi
strutturali, fanno 11 miliardi in più da spendere, di cui 7 al Sud, a patto che
lo si faccia entro il 2016”.
Alla
conferenza ha partecipato anche il segretario della Uil,
Carmelo Barbagallo che, in riferimento al petrolchimico di Gela, ha detto: ”Se
non si rispettano gli accordi, dopo i sacrifici dei lavoratori e le
ristrutturazioni, i disagi sociali rischiano di diventare problemi. Bisogna
reinvestire a Gela, la chimica verde è una speranza del futuro. Dobbiamo coniugare
occupazione con sicurezza e ambiente. Adesso ci tocca anche portare avanti una
battaglia in Europa che considera aiuti di Stato gli interventi per risanare i
siti”.
Inps: aumentano i contratti fissi, record di voucher in Sicilia
Petrolchimico di Gela: Eni sotto processo per ‘inquinamento ambientale’
A
chiedere la condanna dell’azienda sono le famiglie di una trentina di bambini
nati malformati, che ritengono sia l’Ente di Stato ad essere responsabile delle
patologie dei loro figli
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
 |
Il petrolchimico di Gela |
L’Eni
è stato citato in giudizio per
‘l’inquinamento ambientale prodotto, in oltre 50 anni di attività, dal suo petrolchimico,
con conseguenze pesanti sull’ecosistema e sulle persone’. Delle responsabilità
dell’Ente è certa anche l’amministrazione comunale di Gela che si è costituita
parte civile ed ha chiesto la creazione di un fondo risarcitorio di 80 milioni
di euro.
I
periti nominati dal tribunale
hanno accertato il legame tra l’inquinamento industriale della raffineria e le malformazioni
riscontrate nei bambini gelesi. Inoltre hanno parlato di ‘disastro ambientale
permanente’ che avrebbe effetti nocivi sull’uomo.
L’avvocato
delle famiglie ricorrenti,
Giuseppe Fontanella, ha chiesto il sequestro dei pozzi e degli impianti ancora
in esercizio a Gela.
I
legali dell’Eni
respingono ogni accusa e dichiarano che l’azienda ha rispettato 110 prescrizioni
sulle 112 imposte dal ministero per l’ambiente. Inoltre minacciano ‘di far
saltare il protocollo d’intesa firmato con il Governo e la Regione per il salvataggio
della raffineria di Gela’.
Diminuita
negli ultimi sette anni l’occupazione nel settore delle costruzioni e dell’industria,
aumentata invece quella nei servizi, ma si è allargato, ancora di più, il
divario tra il Sud ed il Nord del paese
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Il
settore delle costruzioni ha fatto registrare il calo più elevato di occupati dal
2008 ad oggi. L’emorragia
di addetti nel comparto è stata di 464mila unità ed è continuata anche
negli
ultimi due anni. A differenza di quanto è avvenuto negli altri settori
produttivi dal 2013 sono stati persi altri 64mila900 posti di lavoro. A
dirlo è un’elaborazione
dei dati Istat fatta dal Centro studi di ImpresaLavoro.
A
livello regionale
solo in Liguria il numero di addetti del settore è oltre i livelli fatti registrare
prima della crisi (+0,94%%), mentre sono diminuiti sensibilmente soprattutto
nelle regioni meridionali, in Molise del 46,67%, in Calabria del 39,09% ed in
Sicilia del 38,73%.
L’agricoltura
ha fatto registrare cali più modesti,
con otto regioni che, anzi, hanno incrementato l’occupazione rispetto al 2008. Si
tratta di Marche ed Abruzzo con aumenti di oltre il 30%, seguite da Toscana
(+17,9%), Sardegna (+13,26%), Lazio (+12,43%) e Friuli Venezia Giulia (+10,96%).
Record negativo, invece, per il Molise (-40,49%) e la Puglia (-23,54%).
Nel
settore industriale i livelli occupazionali sono ben lontani da quelli
pre-crisi in tutte le regioni,
ma i cali più consistenti sono avvenuti nel Mezzogiorno. In Sardegna c’è
stata una diminuzione del 23,45%, in Calabria del 20,37% ed in Puglia
del 20,34%.
E’
cresciuta invece dell'1,74% l’occupazione nei servizi. Dei 267mila nuovi posti di lavoro ben 233mila sono
stati creati negli ultimi due anni. A trainare la ripresa dell’occupazione è stato
quindi il settore terziario. A livello regionale gli addetti del comparto rispetto
al 2008 sono cresciuti nel Lazio del 9,55%, nel Trentino Alto Adige dell’8,54%,
in Toscana del 5,43% e nell’Umbria del 4,78%. Cali consistenti, invece, in
Abruzzo (-11,46%), Calabria (-9,31%) e Sicilia (-4,40%).
Solo il 14,9% dei distretti industriali si trova nel Mezzogiorno
Nel
decennio 2001-2011 è calato il numero dei distretti industriali, ma sono cresciute
le loro dimensioni, mentre, a livello territoriale, rimane ampia la distanza
tra Nord e Sud del Paese
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
In
Italia le aree industriali assorbono circa il 40% dell’occupazione e, anche se il loro numero è calato, nell’ultimo decennio sono rimasti sostanzialmente stabili. A dirlo è l’Istat sulla base dei dati dell’ultimo
censimento.
Dal
2001 al 2011 il numero dei distretti industriali
è diminuito da 181 a 141,
ma è aumentata la loro dimensione e densità territoriale. Anche gli addetti
sono aumentati di numero (+1,8%), ed impiegano circa 4,9 milioni di lavoratori.
L’incremento ha riguardato tutti i settori (+16,7%), compensando così il
calo nel manifatturiero (-21%).
Le
principali specializzazioni
sono quelle del cosiddetto ‘Made in Italy’. Tra esse spiccano la
meccanica, il tessile e l’abbigliamento, i beni per la casa, calzature ed
industrie alimentari.
A
livello territoriale
rimane enorme la distanza tra il Nord ed il Sud del Paese. Le aree industriali
si concentrano in Lombardia e Veneto (40,4%) e nel Nord-Est (31,9%). Al Centro
sono il 27%, in particolare in Toscana e nelle Marche. Segue il Nord-Ovest
(26,2%), mentre sono appena il 14,9% nel Mezzogiorno.
Nel Mezzogiorno i posti di lavoro sono aumentati di 89mila unità
Negli
ultimi sette anni gli occupati sono diminuiti di oltre 656mila unità, ma
i dati dei primi nove mesi del 2015 confermano l’inversione
di tendenza, in particolare nel Mezzogiorno
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Secondo
i dati rilevati dal Centro studi di ImpresaLavoro nel periodo tra il 2008 ed il 2015 il numero di occupati in Italia è diminuito di 656.911 unità. I posti persi al
Sud e nelle Isole sono stati 486mila, al Nord 249mila, mentre le regioni del
Centro hanno fatto registrare un aumento di 78mila unità, ma solo grazie all’incremento
di 116mila posti di lavoro avvenuto nel Lazio.
Ad
aver subito maggiormente la crisi è stata la Calabria, dove l’occupazione è diminuita del
12,92%, seguita dal Molise (-9,52%) e dalla Sicilia (-9,27%), mentre quelle che
hanno sofferto di meno sono le regioni del Nord, in particolare il Friuli Venezia Giulia che
ha fatto registrare il -4,32%, il Veneto il -4,06%, la Liguria il -3,86% e la
Lombardia lo -0,66%.
In termini assoluti la regione che ha fatto peggio è stata la Sicilia,
con una diminuzione di 137.033 unità, seguita dalla Puglia con -95.959 e dalla
Campania con -92.150. Ad essere sopra i livelli del 2008, oltre al Lazio, c’è solo il Trentino Alto Adige con +20mila unità.
Tuttavia,
qualcosa sta cambiando.
Secondo lo studio di ImpresaLavoro il trend positivo iniziato nel 2014 è
stato confermato dai dati del terzo trimestre del 2015. Su base annua l’incremento
è stato di 154mila occupati. Ad
avvantaggiarsi della nuova situazione sono state le regioni del Mezzogiorno. Nell’ultimo
anno sono stati creati nel Sud e nelle Isole 89mila nuovi posti di lavoro, cioè
il 57,9% del totale, mentre al Nord sono stati 34mila ed al Centro 31mila. L’aumento
più significato è stato rilevato in Puglia con un incremento di 23mila200 unità, in Sicilia
con +19mila600 ed in Sardegna con +18mila200. In termini percentuali i
migliori risultati li ha fatti registrare la Basilicata (+3,5%), seguita dalla
Puglia (+3,39%), dalla Sardegna (+3,33%) e dall’Umbria (+2,34%).
Invece,
continua a perdere posti di lavoro la Calabria. Nei primi nove mesi del 2015 ha
fatto registrare un ulteriore calo di 13mila400 unità, rimanendo così l’unica
regione che non sta approfittando del cambiamento della congiuntura economica.
Nella Legge di Stabilità solo ‘briciole’ per il Sud
Il
Senato ha approvato la Legge di Stabilità, ma ancora una volta gli interventi previsti
per il Sud sono del tutto insufficienti per ridare vigore alla drammatica situazione
economica e sociale del Meridione
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Il
valore del provvedimento, che prevede oltre 1000 commi, è di 35,4 miliardi di
euro,
l’incremento
dai 29,6 miliardi previsti inizialmente è stato determinato soprattutto
dalle
misure aggiuntive sulla sicurezza. I benefici fiscali per le regioni del
Mezzogiorno che sono stati introdotti con la manovra finanziaria
approvata oggi dal Senato sono ‘briciole’ rispetto a quanto sarebbe
stato necessario per ridare vigore
all’economia meridionale.
Il
credito d’imposta
per
l’acquisto di beni strumentali destinati ad attività produttive, di cui
potranno
usufruire le imprese della Campania, della Puglia, della Basilicata,
della Calabria,
della Sicilia, del Molise e della Sardegna, avrà una durata
quadriennale, cioè dal primo gennaio 2016 al trentuno dicembre 2019.
L’importo
complessivo previsto è di 2 miliardi e 468 milioni di euro, vale a dire 617
milioni di euro all’anno.
L’agevolazione è differenziata a seconda delle dimensioni aziendali: il 20% per
le piccole imprese, il 15% per quelle medie e il 10% per quelle di grandi
dimensioni. Il tetto massimo utilizzabile è di 1,5 milioni di euro per le piccole
imprese, di 5 milioni per le medie e di 15 per quelle di grandi dimensioni. Le
modalità di attuazione del provvedimento saranno stabilite dall’Agenzia delle
Entrate. A
queste misure si aggiunge
la possibilità di ‘superare il patto di stabilità interno’ il cui scopo è
di attivare, ‘dai meccanismi di gestione del bilancio’, risorse
pubbliche per 11 miliardi di
euro, di cui 7 da investire nelle regioni meridionali. Infine specifici
interventi sono previsti per l’area di Bagnoli e per la Terra dei
Fuochi. Queste
agevolazioni si uniscono
a quelle previste con il cosiddetto ‘super ammortamento’, cioè la maggiorazione
del 40% del costo fiscalmente deducibile dei beni strumentali acquistati dalle
imprese dal 15 ottobre 2015 al 31 dicembre 2016.
Insomma,
la manovra finanziaria per il 2016 prevede per il Meridione incentivi ‘certi’ solo per le
imprese che decideranno di fare investimenti e comunque per un importo massimo
di 617 milioni di euro,
vale a dire circa 88 milioni di euro per ogni regione meridionale, un importo
inferiore a quello stanziato dal Governo per risarcire i creditori di Banca
Etruria.
L’impressione è che gli impegni assunti dall’Esecutivo
e dal Parlamento con la Legge di Stabilità siano simili a quelli presi nei
decenni scorsi dai governi di Romani Prodi e di Silvio Berlusconi e che,
pertanto, siano del tutto insufficienti per ridare impulso all’economia del Mezzogiorno.
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Il 24,9% dei lavoratori autonomi vive sotto la soglia di povertà
Tra
il 2010 ed il 2014 la percentuale di nuclei familiari in precarie condizioni
economiche è aumentata dell’1,2% per i pensionati, dell’1% per i dipendenti e
del 5,1% per i titolari di partita Iva
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Lo
scorso anno il 24,9% delle famiglie con reddito principale da lavoro autonomo ha
vissuto con una disponibilità economica inferiore a 9.455 euro, considerata
dall’Istat come soglia di povertà. La
percentuale scende al 20,9% per i nuclei familiari con reddito da pensione ed al
14,6% per quelle con reddito da lavoro dipendente. Insomma la povertà si concentrerebbe
soprattutto tra gli autonomi, a sostenerlo è uno studio della Cgia di Mestre.
La
riduzione maggiore si è verificata nel Mezzogiorno con il -7,5% (-120.700 unità), seguito dal Nordest con il -5,8%
(-67.800 unità) e dal Nordovest con il -5,3% (-82.500 unità), mentre il Centro
ha fatto registrare una crescita dell’1% (+11.330 unità). Dall’inizio della
crisi (2008) al primo semestre di quest’anno i lavoratori autonomi sono
diminuiti di quasi 260mila unità, cioè il 4,8%, mentre il numero di lavoratori
dipendenti si è ridotto di 408mila unità, che in termini percentuali rispetto
al totale corrisponde al 2,4%. Il calo più significativo è stato registrato con
il 14,6% in Emilia Romagna, seguita con il 13,7% dalla Campania e con il 13,3%
dalla Calabria.
“Purtroppo
questi dati dimostrano che la precarietà presente nel mondo del lavoro si
concentra soprattutto tra il popolo delle partite Iva. Sia chiaro, la questione non va
affrontata ipotizzando di togliere alcune garanzie ai lavoratori dipendenti per
darle agli autonomi, ma allargando l’impiego di alcuni ammortizzatori sociali
anche a questi ultimi che, almeno in parte, dovrebbero finanziarseli”. Questo è
quanto ha dichiarato il coordinatore dell’Ufficio studi della Cgia di Mestre,
Paolo Zabeo ed ha aggiunto: “Quando un
lavoratore dipendente perde momentaneamente il posto di lavoro può disporre di
diverse misure di sostegno al reddito. E nel caso venga licenziato può contare
anche su una indennità di disoccupazione. Un autonomo, invece, non ha alcun paracadute. Una volta chiusa l’attività
è costretto a rimettersi in gioco affrontando una serie di sfide per molti
versi impossibili. Oggigiorno è difficile trovare un’altra occupazione; l’età
spesso non più giovanissima e le difficoltà congiunturali costituiscono un
ostacolo insormontabile al reinserimento nel mondo del lavoro”.
Istat: disoccupazione ai minimi degli ultimi tre anni
Nonostante
il leggero calo degli occupati stimato dall’Istat per il mese di ottobre, il
tasso di disoccupazione rimane al 11’5%
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Nel
mese di ottobre, secondo
la stima fatta dall’Istat, il numero di occupati è diminuito dello 0,2% (-39 mila
unità). Il calo è stato determinato dai lavoratori autonomi, mentre rimane
sostanzialmente stabile il numero dei dipendenti. La stima dei disoccupati
diminuisce di 13 mila unità. Il calo riguarda le donne e la popolazione
di età superiore a trentaquattro anni.
Il tasso di
occupazione diminuisce di 0,1%, a 56,3%, mentre su base annua l’occupazione
cresce dello 0,3% (+75 mila unità) e il relativo tasso dello 0,4%. Nel mese di ottobre il tasso di
disoccupazione resta stabile all’11,5%. Negli ultimi dodici mesi è diminuito
di 410 mila unità e il tasso dell’1,4%.
Nel periodo agosto –
ottobre 2015 la stima dei disoccupati diminuisce di 142 mila unità, mentre si
registra una crescita degli occupati (+32 mila) e degli inattivi (+66 mila). Dal 2013 è stata costante la crescita degli
occupati con 50 anni o più, in assoluto circa 900.000 unità in più.
Fibra ottica: le regioni più virtuose saranno quelle meridionali
Solo
l’1% delle case della Puglia, il 3% della Calabria, il 20% della Sicilia e il
24% di quelle della Basilicata rimarranno, alla fine del 2018, senza fibra
ottica, a sostenerlo è Infratel, società pubblica per le infrastrutture e le telecomunicazioni
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
La
consultazione avviata nel maggio scorso da Infratel (Infrastrutture e Telecomunicazioni
per l’Italia), società costituita su iniziativa del MISE (Ministero dello
Sviluppo Economico) e da Invitalia (l’Agenzia nazionale per l’attrazione degli
investimenti e lo sviluppo d’impresa), ha delineato un quadro accurato della
situazione della rete in fibra ottica nel nostro Paese ed esso, ora, rappresenta
un punto di partenza per la sua realizzazione.
Il
piano del Governo
prevede la suddivisione del Paese in circa 95mila aree. Lo scopo
principale della
ricerca di Infratel è stato quello di capire a quali di esse sono
interessati gli operatori privati ed in quali invece sarà necessario
l’intervento pubblico. Per quanto riguarda le unità immobiliari
residenziale le
zone che, nel 2018, rimarranno scoperte e su cui dovrà intervenire il
Governo
sono il 36,3%. Dalla consultazione è emerso che, nella costruzione delle rete a banda ultralarga, oltre una casa su tre non interessa agli
operatori telefonici. Essi, infatti,
si concentreranno nelle aree più redditizie, tra queste c’è il Lazio,
mentre tra quelle da ‘evitare’ c’è il Molise. Le zone grigie o nere, cioè quelle
coperte dai privati, sono circa 1100, mentre quelle bianche, cioè quelle
snobbate dagli operatori telefonici, sono circa 83mila. Per coprire tali aree il
Cipe ha stanziato 2,2 miliardi di euro.
Alla fine del 2018 le regioni più virtuose saranno quelle
meridionali, in particolare rimarranno senza fibra ottica solo l’1% delle unità
abitative della Puglia, il 3% della Calabria, il 20% della Sicilia e il 24%
della Basilicata.
Un lavoratore su tre si ammala di lunedì, record in Lombardia
L’Inps
ha diffuso i dati sui permessi per malattia emessi nel 2014, rilevando una
‘frequenza massima il lunedì’ e più certificati nel privato in Lombardia e nel
Lazio per la Pubblica amministrazione
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Secondo i dati diffusi
dall’Inps i
certificati medici emessi nel 2014 sono stati 11.494.805 nel settore privato con
una diminuzione rispetto all’anno precedente del 3,2%, mentre in quello
pubblico sono stati 6.031.362, con un lieve incremento dello 0,8%. ‘La
distribuzione del numero degli eventi malattia del 2014 è simile per entrambi i
comparti, con frequenza massima il
lunedì: 2.576.808 eventi per il settore privato e 1.325.187 per la Pubblica
amministrazione, pari rispettivamente al 30,2% e al 27,2% del totale’, a
sostenerlo, in una nota, è l’Istituto di previdenza. E’ assai probabile che il
lavoratore che si ammala sabato o domenica attenda il lunedì per far partire il
primo giorno di malattia.

Nel primo
trimestre di ogni anno il numero dei certificati trasmessi è di poco
superiore al 30% del totale, mentre questa percentuale scende nel terzo
trimestre quando, ad esempio nel 2014, è stata del 18,5% per il settore privato
e del 14,8% per la Pubblica amministrazione. Più frequenti nel settore pubblico le malattie delle donne (69%),
nel privato sono invece quelle dei maschi (56,1%). La durata media è di 2-3
giorni. A guidare la classifica regionale
delle assenze sul lavoro è la
Lombardia, con il 22% del totale, seguita dal Veneto, dall’Emilia Romagna e dal
Lazio con poco più del 10%. Per la sola Pubblica amministrazione al primo posto
c’è il Lazio con il 14,4%. Insomma, ci
si ammala di più il lunedì, nella prima parte dell’anno e nelle regioni del
Nord-ovest.
Istat: nel Mezzogiorno bassi livelli di reddito e maggiore disuguaglianza
Il
28,3% degli italiani residenti soffre ‘una grave deprivazione materiale e bassa
intensità di lavoro’
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Nel
2014 le persone residenti in Italia a rischio di povertà sono il 28,3%, a sostenerlo è l’Istat. Si tratta
di quella parte di popolazione che soffre di una ‘grave deprivazione materiale e
bassa intensità di lavoro’.
Le persone che vivono
in famiglie ‘gravemente deprivate’ sono l’11,6%, mentre quelle appartenenti ai nuclei
familiari con ‘bassa intensità lavorativa’ sono il 12,1%. Grave la condizione delle famiglie con almeno tre minori e quella dei
genitori soli. Nel Mezzogiorno la 'bassa intensità lavorativa' è passata dal
18,9% al 20,9%.
Il
20% delle famiglie residenti in Italia percepisce il 37,5% del reddito totale, mentre al 20% della popolazione spetta il 7,75%.
Nel 2013, l’Istat stima che metà delle famiglie abbia percepito un reddito
netto annuo non superiore a 24.310 euro, circa 2.026 euro al mese, nel
Mezzogiorno questa cifra scende a 20.188 euro, circa 1.682 euro al mese.
Inoltre, nel Sud, secondo la stima
dell’indice di Gini, si registra anche
una maggiore disuguaglianza, essa si attesta a livello nazionale al 0,296,
mentre nel Meridione sale a 0,305.
Jobs act, ecco i primi licenziamenti
Tre operai assunti con
il nuovo contratto a tutele crescenti sono stati licenziati dopo solo otto
mesi di lavoro
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Nel
mese di marzo, a
seguito di un aumento degli ordini, tre lavoratori erano stati assunti dalla cartiera Pigna Envelopes che opera a Tolmezzo in provincia di Udine sfruttando gli sgravi contributivi previsti dal Jobs act. L’azienda negli ultimi mesi
ha subito ‘un calo di produzione’ e, per questo motivo, ha dovuto procedere al
licenziamento dei tre lavoratori assunti appena otto mesi prima con la nuova forma
contrattuale voluta fortemente del presidente del Consiglio, Matteo Renzi.
Sono
i primi lavoratori ‘stabilizzati’ con il contratto a tutele crescenti ad
essere stati licenziati. La
società ha potuto beneficiare degli sgravi contributivi previsti dalla legge di
Stabilità, ma nonostante ciò ha deciso di ridurre il personale al primo calo
della produzione. Per i lavoratori assunti con il nuovo contratto non è prevista la tutela sancita dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, pertanto l’azienda ha potuto procedere alla
risoluzione del contratto senza rischiare il reintegro. Ora i lavoratori
avranno diritto ‘solo’ ad un indennizzo commisurato al periodo di lavoro svolto
nell’azienda.
“Oltre agli operai
assunti con il Jobs act, c’erano apprendisti e lavoratori a termine. Questi
ultimi non si possono mandare via a meno che non abbiano fatto qualcosa di
grave. Per licenziare i lavoratori a tempo determinato, bisogna pagarli fino al
termine del contratto. Hanno lasciato a
casa i nuovi assunti perché la legge lo permette ed è più conveniente”, ha
dichiarato Paolo Morocutti, segretario Slc Cgil di Udine.
Il Jobs act è un contratto precario a tempo solo ‘formalmente’ indeterminato,
nella pratica il lavoratore ha meno diritti di un lavoratore assunto a
tempo determinato ed il rapporto di lavoro può sciogliersi in qualunque
momento senza peraltro avere la possibilità del reintegro quando il
licenziamento è senza un giustificato motivo.
Insomma, le aziende con la nuova normativa godono
degli sgravi contributivi per tre anni, 8.000 euro a dipendente, e nello stesso
tempo possono licenziare quando lo ritengono necessario, lasciando senza occupazione chi invece ritiene di aver firmato un
contratto stabile.
Svimez: Italia ancora più divisa e diseguale
I dipendenti pubblici licenziati nel 2013 per motivi disciplinari sono stati 220 cioè lo 0,0063%
In proporzione i
dipendenti licenziati nel settore privato sono dieci volte di più di quello
pubblico. Le principali cause di questa discrepanza sono nella mancanza di controlli,
nella ‘collusione’ tra dirigenti ed impiegati e nell’inefficienza del sistema
giudiziario
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
I
dipendenti della Pubblica amministrazione sono circa 3,5 milioni, di questi lo 0,2%, cioè 6900,
hanno subito contestazioni disciplinari nel 2013, ultimo dato disponibile, e
solo 220, cioè lo 0,0063% sono stati licenziati. Le motivazioni sono state: novantanove per assenze
ingiustificate, settantotto per reati, trentacinque per comportamenti non
corretti, negligenza o inosservanza dell’ordine di servizio e sette per doppio
lavoro.
Sono
aumentati notevolmente rispetto alle trentacinque destituzioni di dieci anni fa, ma molti meno rispetto al settore
privato, dove gli allontanamenti sono stati dieci volte di più e, a differenza
di quanto avviene nel pubblico, se un dipendente timbra il cartellino al posto
di un altro il licenziamento è certo ed immediato.
 |
Marianna Madia, ministro della Semplificazione e
della Pubblica Amministrazione |
Nel
2009 è entrata in vigore
la riforma della Pubblica amministrazione che consente di intervenire con
celerità, ma nella pratica poco è cambiato, anzi i sindaci spesso preferiscono
rivolgersi alla Procura anziché al capoufficio.
Secondo Pietro Ichino, docente di diritto del
lavoro e senatore del Pd, questo avviene
perché ‘i dirigenti pubblici non si assumo le proprie responsabilità: né sul
piano disciplinare né su quello organizzativo’.
Inoltre, la maggior
parte dei procedimenti disciplinari si concludono con archiviazioni o sanzioni
lievi. Le indagini ed i processi durano troppo ed i verdetti spesso arrivano
quando non servono più ed il giudice civile reintegra il lavoratore
perché il giudice penale non ha chiuso il processo.
Il problema ovviamente
non dipende solo dall’inefficienza del sistema giudiziario e dalla ‘collusione’
che c’è tra i dirigenti e gli impiegati, ma è anche e soprattutto un fatto culturale ed affrontarlo richiederà tanto tempo e
tanta pazienza.
Agenas: nei nostri ospedali mancano medici ed infermieri, ma abbondano gli 'amministrativi'
L’analisi
sui bilanci degli ospedali italiani fatta dall’Agenas ha evidenziato un deficit
di 915 milioni di euro, la maggior parte delle perdite è stata registrata nei
nosocomi del Lazio, del Piemonte, della Toscana, della Sardegna e della Calabria
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
 |
Azienda ospedaliera Cannizzaro - Catania |
L’Agenzia
per i servizi sanitari regionali
ha analizzato i bilancio degli ospedali di 14 regioni, tutte le più importanti
tranne Veneto ed Emilia Romagna. Le strutture con i deficit di bilancio più
consistenti sono 29 e tutti insieme totalizzano una perdita di 915 milioni di
euro. Di questi nove grandi ospedali si trovano nel Lazio, quattro in Toscana,
altrettanti in Piemonte e Calabria, due in Liguria, uno ciascuno nelle Marche,
in Sardegna e in Campania.
In questa classifica gli ospedali delle regioni meridionali sono
tra i più virtuosi, fanno eccezione la Calabria e la Sardegna che registrano
rispettivamente una perdita di 40,537 milioni di euro e di 55,790 milioni di euro. Il deficit più alto si registra invece negli
ospedali del Lazio, che da soli hanno generato una perdita di 707 milioni
di euro.
 |
Azienda ospadaliera S. Camillo - Roma |
Per
capire le ragioni del disavanzo
l’Agenzia ha messo a confronto quattro
ospedali. Il San Camillo di Roma che ha subito una perdita di 158
milioni
di euro e gli Ospedali Riuniti di Ancona che invece hanno chiuso in
leggero
attivo. Le due strutture hanno un numero di posti letto simili, circa
mille, ma
mentre gli addetti nel primo sono 4.148, nel secondo sono 3.461. Inoltre
gli 'amministrativi' nell’ospedale laziale sono il doppio della media e
le spese correnti
che ha dovuto sostenere nel corso dell’ultimo esercizio raggiungono gli
80 milioni di
euro, mentre in quello di Ancona sono state ‘appena’ 45 milioni di euro.
Secondo l’Agenas la ragione
principale di questa differenza è che a Roma la maggior parte dei
contratti per
i servizi ospedalieri sono stati stipulati senza fare gare d’appalto e
questo
ha determinato un notevole ed ingiustificato incremento dei costi.
L’Agenzia
ha poi messo a confronto gli ospedali di Cosenza ed il Cannizzaro di Catania. Il primo ha fatto registrare un deficit
di 8,5 milioni di euro, mentre il secondo è in leggero attivo. Anche in questo
caso il numero di dipendenti 'amministrativi' del nosocomio cosentino è nettamente
superiore rispetto a quello catanese.
Insomma, nei nostri ospedali se da un lato mancano infermieri e medici, dall’altro abbondano gli ‘amministrativi’ e nello stesso tempo si ‘esagera’
con le spese correnti, specie quando queste sono affidate ai terzi senza fare
gare d’appalto.
Ora, il governo intende porre rimedio a queste ‘incongruenze’ e nella legge di stabilità
interviene imponendo ai direttori generali dei nosocomi l’obbligo di presentare
un piano di rientro in tre anni, che sarà successivamente monitorato dallo
stesso ministero della Salute e se il risanamento non si verificherà decadranno.
L’occupazione cresce, ma a due velocità: Sicilia, Calabria e Puglia fanno meno della media nazionale
Pochi
giorni fa l’Eurostat ha attestato che la Sicilia è la regione europea con il
più basso tasso di occupazione, ieri l’Osservatorio sul precariato dell’Inps ha
comunicato che è aumentata l’occupazione stabile, ma al Sud le percentuali di
crescita sono più basse della media nazionale
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Nei
primi otto mesi del 2015 è aumentato di 299.375 unità il numero di nuovi
rapporti di lavoro a tempo indeterminato rispetto allo stesso periodo del 2014. Nello stesso periodo sono cresciuti
di 29.377 unità i contratti a termine, mentre si riducono di 11.744 unità quelli
in apprendistato. I rapporti stabili sul totale dei contratti di lavoro sono
passati dal 32,3% dei primi otto mesi del 2014 al 38,1% dello stesso periodo
del 2015.
Le
variazioni rilevate dall’osservatorio dell’Inps evidenziano notevoli differenze
tra le varie aree geografiche del Paese. L’incremento delle assunzioni a tempo indeterminato è
superiore alla media nazionale del 34,6% in tutte le regioni del Centro-Nord e solo
in parte in quelle meridionali. In Friuli-Venezia Giulia è stato dell’84,5%, in
Umbria del 61,6%, nelle Marche del 53,1%, in Piemonte del 52.7%, in Trentino-Alto
Adige del 50,5%, in Emilia-Romagna del 49,4%, in Liguria del 47,7%, in Veneto
del 46,3%, in Basilicata del 40,9%, nel Lazio del 40,8%, in Lombardia del
39,3%, in Toscana del 36,4% ed in Sardegna del 36,2%.
I
risultati peggiori sono stati rilevati nelle regioni del Sud. In particolare in Calabria dove è
stato registrato un aumento del 17,3%, in Puglia del 16,3% e in Sicilia dell’11%.
Inoltre, le assunzioni a tempo indeterminato instaurate con l’esonero
contributivo risultano concentrati nel Mezzogiorno, dove i contratti con la
decontribuzione sono stati 160.112.
Quanti sprechi con la Brebemi e la Teem
Due
autostrade costate miliardi e sostanzialmente inutilizzate, succede in
Lombardia, nel profondo Nord
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
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L'inaugurazione della Brebemi |
L’autostrada che collega Brescia con Bergamo e
Milano, la cosiddetta Brebemi, è costata circa 2,4 miliardi di euro, vale a
dire tre volte l’importo preventivato di 800 milioni di euro. Il nuovo
collegamento è stato realizzato per decongestionare il traffico sull’autostrada
‘Serenissima’ A4, ma dopo quasi un anno di apertura si sta trasformando in un
flop finanziario di proporzioni gigantesche. Secondo
i dati forniti dall’Aiscat,
l’Associazione italiana società concessionarie autostrade e trafori, nel mese
di giugno sono transitate 13.205 mezzi al giorno. Il break even previsto dagli
investitori della Brebemi è invece di 60 mila transiti giornalieri. Il pareggio
di bilancio doveva essere garantito dai pedaggi, ma ad oggi il raggiungimento
di questo risultato è assai lontano perché gli
introiti sono nettamente inferiori alle attese.
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Un tratto dell'autostrada |
Lo stesso vale per la
Teem, Tangenziale est esterna di Milano, costata oltre 2,2 miliardi di euro. In
quest’autostrada nel mese di giugno sono transitate 16.667 mezzi giornalieri,
al di sotto di quanto preventivato.
Il
problema principale, in entrambi i casi, è il costo elevato del pedaggio. Percorrere la Brebemi e la Teem,
volute fortemente dal Governo e dalla Regione Lombardia, costa troppo.
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Un tratto della Brebemi |
Non solo, inizialmente
doveva trattarsi di un affare solo
privato, senza cioè costi per le casse pubbliche. Ma così non è stato. Con
la legge finanziaria del 2014 sono stati stanziati 260 milioni di euro, mentre altri 60
sono stati concessi dalla Regione guidata da Roberto Maroni. In aggiunta, per
consentite ai privati di rientrare dei capitali investiti, è stata prorogata la
concessione fino a 25 anni e mezzo ed alla scadenza passerà allo Stato in
cambio di 1.205 milioni di euro. Altri 330 milioni di contributi pubblici sono stati
concessi per la Teem.
I
vertici della società
hanno risposto alle critiche fornendo cifre diverse sul traffico e sui
contributi pubblici erogati e si dichiarino ottimisti sulla sostenibilità
finanziaria ed economica del progetto.
Insomma, un’opera realizzata dai privati ma con
concessioni, garanzie e soprattutto fondi pubblici e la cui utilità e
sostenibilità economica e finanziaria è ancora tutta da dimostrare e raggiungere. E dire
che non siamo nel profondo Sud, ma nel cuore dell’economia italiana.
Istat: disoccupazione all’11,9%
Nel mese di agosto l’occupazione,
secondo le stime dell’Istat, è cresciuta dello 0,3%
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
‘Istat.
In un anno più 325mila posti di lavoro. Effetto #Jobsact #italiariparte
#labuonavolta’,
così ha commentato con un tweet il presidente del Consiglio Matteo Renzi le stime sulla disoccupazione
nel mese di agosto comunicati dall’Istat. Gli
occupati sono cresciuti dello 0,3%,
pari ad un incremento di 69 mila unità. In particolare sono aumentati i
lavoratori con contratti a termine (+45 mila unità). Dopo l’incremento di
giugno dello 0,1% e di luglio dello 0,3%, l’occupazione su base annua è
cresciuta dell’1,5% (+325 mila persone), mentre il tasso di occupazione è aumentata
dell’0,9 %, arrivando al 56,5%.

I
disoccupati sono diminuiti di 11 mila unità, il tasso è
sceso all’11,9%, proseguendo il calo del mese precedente (-0,5%). Negli ultimi
dodici mesi la disoccupazione è diminuita di 162 mila unità e il tasso di
disoccupazione dello 0,7%. Anche
gli inattivi fra i
15 ed i 64 anni sono diminuiti nell’ultimo mese di 86 mila persone cioè dello
0,6%. Il tasso d’inattività è calato al 35,6%, in calo dello 0,2%. Mentre su
base annua la riduzione è stata dell’1,7%, che corrisponde a -248 mila persone
inattive.
Il paradiso fiscale è a Burgio
Esiste
in Italia un paese dove non si pagano le tasse comunali. L’amministrazione di
Vito Ferrantelli, sindaco di Burgio piccolo centro in provincia di Agrigento,
ha abolito o ridotto al minimo tutte le imposte locali
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
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Il manifesto fatto affiggere dal sindaco Vito Ferrantelli |
Il
presidente del Consiglio,
Matteo Renzi, ha promesso per il 2016 l’abolizione della Tasi e dell’Imu
sulla
prima casa. Eppure in Sicilia esiste un Comune dove queste imposte già
oggi non
si pagano. Inoltre, l’Imu sulle seconde case e la tariffa sull’acqua
pubblica sono state ridotte al minimo e l’addizionale comunale Irpef non
è prevista.
Burgio è un piccolo paesino in provincia
di Agrigento. I suoi 2.740 abitanti godono di una riduzione delle imposte locali
che non ha eguali in tutta Italia.
Il
sindaco, Vito Ferrantelli, ha fatto affiggere un manifesto dove c’è scritto: ‘In quale paese della Sicilia i
cittadini non pagano la Tasi? Non pagano l’addizionale Irpef? Non pagano l’Imu
sui terreni e i fabbricati agricoli? E dove le tariffe dell’acqua sono le più
basse d’Italia? E quelle dell’Imu sulla seconda casa sono al minimo? Nel comune
di Burgio!’.
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Burgio (Ag) |
Eletto
sette anni fa nella
lista civica ‘Amare Burgio’, il Sindaco e la sua amministrazione hanno di
fatto abolito le tasse sulla casa. Non si pagano la Tasi e l’Imu sulla prima abitazione
e quella sulle seconde è stata ridotta al minimo. Non è prevista l’addizionale comunale
Irpef e la tariffa sul servizio idrico è ridottissima ed è la più bassa
d’Italia. Gli abitanti di Burgio pagano per ‘l’acqua pubblica’ circa 100 euro l’anno.
“Far
risparmiare i cittadini è possibile”,
ha detto Vito Ferrantelli ed ha aggiunto: ”Ogni anno abbiamo fatto lavorare
periodicamente circa 250 giovani locali con il servizio civico e le borse
lavoro. Abbiamo impegnato 300 giovani con corsi di ceramica e sport”.
Insomma,
gestire la 'cosa pubblica' con parsimonia e con efficienza è possibile, basta utilizzare tutte le risorse
disponibili e soprattutto affidarsi ad amministratori capaci ed onesti.
Il record di evasione fiscale è al Nord
L’importo
delle imposte evase nelle regioni settentrionali è di 47,6 miliardi di euro,
mentre al Sud è di 19,8 miliardi di euro, ad attestarlo è il Def approvato venerdì
scorso dal Governo
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
 |
Il Ministero dell'Economia e delle Finanze |
Il
rapporto sui risultati
conseguiti in materia di misure di contrasto all’evasione fiscale allegato alla
nota di aggiornamento del Documento di economia e finanza approvato venerdì scorso
dal Consiglio dei ministri evidenzia due aspetti molto significativi. ‘I valori più elevati di evasione si
attestano nelle regioni settentrionali, perché sono le più ricche, mentre
la più alta propensione all’evasione si riscontra nel Mezzogiorno’.
Senza considerare i
contributi Inps ed Inail ogni anno vengono
a mancare all’Erario circa 91 miliardi di euro. Il tributo più evaso è
l’Iva. Solo Grecia, Slovacchia, Lituania e Romania fanno peggio dell’Italia. La
categoria di contribuenti che evade di più è quella
dei commercianti.
Negli
ultimi dieci anni,
il gap medio cioè la differenza tra l’ammontare del gettito teorico e quello
effettivo si è abbassato di poco, è stato di 93,5 miliardi di euro nel quinquennio
2001-2006, mentre in quello successivo è stato di 91,3 miliardi di euro, con un
decremento del +2,29%.
L’Iva
evasa ogni anno è di 40,2 miliardi di euro, l’Irpef e l’Ires ammontano a 44 miliardi, mentre
l’Irap è pari a 7,2 miliardi di euro. L’evasione
maggiore si registra nelle regioni del Nord, dove ammonta a 47,6 miliardi di euro cioè il 52% del
totale. Mentre la propensione
all’evasione è maggiore nelle regioni meridionali, dove l’ammontare
complessivo è di 19,8 miliardi di euro cioè il 22% del totale. Al Sud si
registrano ‘livelli più elevati d’intensità di evasione, che in alcuni casi
sfiora il 60%’.
‘Tale
ripartizione –
sottolinea il Rapporto - è influenzata anche
dalla distribuzione territoriale del reddito nazionale, e, a parità di
altre condizioni, tende a concentrarsi maggiormente nella aree del nord dove si
concentra anche la quota maggiore di valore aggiunto prodotto dal
Paese. Il Pil, al netto del settore pubblico, infatti, si distribuisce per il
56% al nord, rispettivamente 33% nel nord ovest e 23% nel nord est’.
Inps: crescono le assunzioni, ma anche il divario tra il Centro-Nord ed il Sud del Paese
Confindustria: mondo rischia stagnazione secolare
Il taglio delle stime sulla crescita
da parte della Bce preoccupa gli industriali
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
Secondo
il Centro studi di Confindustria
la crescita mondiale è inferiore al passato e alle attese. Le previsioni di un
Pil globale al +3,2% nel 2015 e al +3,6% nel 2016 sono nettamente inferiore a
quelle pre-crisi del +5,1%. Le
cause sono: rallentamento
demografico e minori investimenti. Questi ultimi sono passati dal 22,8% del Pil
negli anni 2000-2007 al 20,6% dell’ultimo quinquennio. In Italia le cose sono andate
peggio, infatti, essi sono scesi dal 21,6% al 19,9%. Sono evidenti gli effetti della
crisi e dell’impatto limitato delle nuove tecnologie sulla produttività. Secondo alcuni economisti stiamo entrando
in una fase di ‘stagnazione secolare’.
E’
quindi necessario sostenere
la domanda soprattutto quella per investimenti, stimolare l’attività di ricerca
e sviluppo, procedere con le riforme strutturali, adottare politiche industriali
in particolare nel manifatturiero.
Con il governo di Matteo Renzi il debito pubblico cresce di 6,58 miliardi di euro al mese
Istat: disoccupazione in calo e Pil in crescita, ma solo al Nord
Lunedì nero per tutte le Borse mondiali
Cgia: tasse locali aumentate del 48,4%
Cgia: ‘Rifiuti pagati a peso d’oro’
Petrolieri e accise frenano il calo del prezzo della benzina
L’Expo si è fermato ad Eboli
Nella realizzazione di grandi opere o di eventi di rilievo internazionale il Sud non è mai preso in considerazione, ormai nell’opinione comune si è radicato il concetto che investire nel Meridione è uno speco di soldi
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
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Una scena del film 'Cristo si è fermato ad Eboli' |
“Cristo è sceso nell’inferno sotterraneo del moralismo ebraico per romperne le porte nel tempo e sigillarle nell’eternità. Ma in questa terra oscura, senza peccato e senza redenzione, dove il male non è morale, ma è dolore terreste, che sta per sempre nelle cose. Cristo non è disceso. Cristo si è fermato ad Eboli”. Così scrive Carlo Levinel suo libro ‘Cristo si è fermato ad Eboli’. Lo scrittore per le sue idee antifasciste fu condannato al confino in Lucania e nell’opera, pubblicata nel 1945, racconta quell’esperienza.
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La copertina del libro di Carlo Levi |
Parafrasando il titolo del libro oggi potremmo scrivere: ‘l’Expo si è fermato ad Eboli’.L’Esposizione universale che si sta svolgendo nel capoluogo lombardo sta registrando un discreto afflusso di visitatori. Le opere architettoniche e di supporto viario che sono state realizzate sono costate allo Stato italiano circa 15 miliardi di euro e, alla sua conclusione è assai probabile che saranno necessari altri finanziamenti per convertirle in strutture utilizzabili per altre attività. La corruzione ed i ritardi nella realizzazione dell’evento hanno costretto il Governo ad intervenire nominando un nuovo amministratore e un commissario anticorruzione.
Le grandi opere e gli eventi di rilievo internazionale si realizzano, da sempre, nelle città del Centro-Nord, l’Expo è solo l’ultima in ordine di tempo. ‘Cristo si è fermato ad Eboli’ ed anche le opere pubbliche e nessuno ha da ridire o da contestare, ormai nell’opinione comune si è radicato il concetto che al Sud ‘si mangiano i soldi’ e che investire nel Mezzogiorno è solo uno spreco di denaro. La Tav, il Mose, Malpensa, l’Alta velocità, la fibra ottica ed internet veloce, le Olimpiadi invernali ed una miriade di altre piccole e grandi opere si sono fermate ad Eboli. I malanni endemici del Sud nessuno può negarli, ma essi sono diventati anche una ‘giustificazione’ addotta dai rappresentanti delle istituzioni per continuare a dirottare gli investimenti pubblici nelle regioni ricche del Paese.
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La locandina del film 'Cristo si è fermato ad Eboli' |
“Così finì, in un momento interminabile, l’anno 1935, quest’anno fastidioso, pieno di noia legittima, e cominciò il 1936, identico al precedente, e a tutti quelli che sono venuti prima, e che verranno poi nel loro indifferente corso disumano. Cominciò con un segno funesto, una eclisse di sole”.
Il riferimento della frase con cui l’autore conclude l’opera è agli anni più bui del fascismo e della guerra, ma per il Sud quell’eclisse è continuata anche nei decenni successivi e, probabilmente, continuerà in quelli a venire, fino a quando cioè i meridionali non si adopereranno per emanciparsi da una condizione di sudditanza morale e culturale in cui vivono da sempre.
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Secondo l’Istat nel 2014 la pressione fiscale è diminuita del 9,9% per le grandi imprese ma è rimasta invariata per quelle di piccole dimensioni
di Giovanni Pulvino (@PulvinoGiovanni)
L’Istat rileva che le tasse sulle imprese sono calate del 9,9% nel 2014, con un risparmio di 2,6 miliardi di euro. Secondo lo studio, curato da Antonella Caiumi e Lorenzo Di Biagio, i miglioramenti sono stati determinati dalle misure sulla crescita economica e dalle riforme sulla tassazione aziendale. La riduzione non tiene ancora conto del taglio dell’Irap e della decontribuzione sui nuovi assunti stabilita con il Job Act in quanto queste misure sono entrate in vigore solo quest’anno.
Oltre metà delle aziende ha avuto nel 2014 una pressione fiscale più bassa. In particolare essa è stata determinata dal potenziamento dell’Ace (Aiuto alla crescita economica) che ha permesso di dedurre dalle imposte il rendimento nazionale del capitale, dalla più ampia deducibilità del costo del lavoro nel calcolo dell’Irap e dal nuovo trattamento delle perdite introdotto nel 2011. La prima misura costa all’Erario 1,2 miliardi di euro l’anno che corrisponde ad un taglio delle tasse per le imprese del 4,5%, l’Ace pesa per le casse statali per 1,4 miliardi che comporta un taglio delle tasse per le aziende del 5,4%.
La riforma avvantaggia soprattutto le grandi imprese industriali del Nord Italia. Il numero dei beneficiari aumenta, infatti, con il crescere delle dimensioni dell’impresa, mentre la pressione fiscale rimane alta nel commercio e per le piccole aziende.
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Nel primo trimestre 2015 risparmiati 2,4 miliardi di euro
Scende la spesa per interessi sul debito pubblico, cominciano a vedersi i risultati dopo quattro anni di sacrifici
La spesa per interessi sul debito pubblico nel primo trimestre è diminuita di 2 miliardi e 370 milioni di euro rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. L’ha comunicato l’Istat indicando il rapporto deficit-Pil al 5,6%, in calo dello 0,4%. E’ il dato più basso dal primo trimestre del 2007.
La riduzione è dovuta alla discesa dei tassi d’interesse e dello spread. Dopo quattro anni di duri sacrifici gli italiani cominciano a vedere i risultati.
La riconquistata credibilità internazionale e la serietà nelle scelte di politica economica e di bilancio hanno ridotto drasticamente lo spread da 570 punti a meno di 150 ed i tassi d’interesse sui Btp da oltre il 7% a circa 1,25%.
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Andamento dei rendimenti dei Btp dal 2005 al 2014 |
In questi giorni in cui molti opinionisti ed esponenti politici criticano le politiche dell’Unione europea e guardano con nostalgia alla Lira, dovrebbe riflettere e ricordare che il nostro Paese nel 2011 era sull’orlo del fallimento e soltanto ora sta uscendo da una grave crisi economica.
Non hanno la valigia di cartone ma a dover emigrare sono sempre i giovani del Sud
I nuovi migranti sono giovani laureati o diplomati ma provengono sempre dal Sud dell’Italia
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